racconto inedito di Monica Dini
E poi avevo ereditato sette piante di limone e anche dei soldi. Giusti per una buona vacanza. Insufficienti per comprare una macchina grossa. Pochi per il resto del mondo. I limoni erano un boschetto. Per me quei soldi erano tanti. Lavoravo, lavoravo e la fine del mese si fermava da qualche parte prima di arrivare a casa mia. Così quando il notaio mi ha chiamato e mi ha detto: «Lei signor Archi è stato nominato nel testamento dal signor Paskosky» mi è venuto: «Come?» e me lo sono fatto ripetere da capo.
Tre volte me lo sono fatto ripetere.
Paskosky era il mio vicino di casa. Un polacco. L’uomo che guardavo potare i limoni. Lui aveva questa passione e io stavo attento. Gemme, fiori, frutti, parassiti, funghi, concimi. Rinvasi. Ho imparato tanto sui limoni è per questo che me li ha lasciati. Di quelli mi aveva avvertito. Stava lì all’ospedale con tutti quei fili attaccati e mi ha detto: «Sei proprietario di sette limoni da ora». Non ho fatto in tempo a dire quello che si dice sempre, che si è messo a suonare un allarme e mi hanno spedito fuori dalla stanza. La volta dopo quando sono tornato a trovarlo dormiva. O qualcosa di simile, era giallo col mento appuntito. Un limone. Il viso intendo. Poi non ci sono più tornato. Ma dei soldi me lo ha detto il notaio. Di quelli non sapevo niente. Paskosky era mio amico, poteva perfino non piacergli Battisti e saremmo diventati amici lo stesso. Mi ha lasciato anche un libro sui limoni, ha il titolo rialzato. Sto qui sdraiato sul divano e lo tocco, ho gli occhi chiusi, cerco di fare come i ciechi, di leggere con le dita. Ma secondo me loro capiscono ogni lettera intera, come dessero un’occhiata con la pelle, io invece cerco di capire tratto per tratto e mi dimentico da dove sono partito. I ciechi sono forti in questo. È l’adattamento dicono. Comunque Paskosky mi ha lasciato dei soldi ed io mi sento sbandato, perché non posso più stare a guardarlo mentre cura i limoni, ma anche perché avevo così tanto da combattere per arrivare alla fine del mese che adesso mi avanza del tempo senza quella lotta. Eh già… Paskosky me lo diceva che questo stare senza soldi era un modo per curarsi. Avevi ragione… ho certe storie da raccontare io. Paskosky mi ascoltava e poi si stava bene anche muti noi due. Non ne sono capaci tutti. Teneva sulla madia un bricco di vetro con dentro le caramelle e un giorno gliene ho mangiate una ventina intanto che si chiacchierava o si stava in silenzio. Quel giorno me lo ricordo bene perché il mio amico mi ha dato venti euro per un pezzo di rete da polli che avevo in un angolo. Gli serviva proprio quella anche se era arrugginita.
Ci ho fatto la spesa.
Paskosky mi ha lasciato tutto quello che aveva. Era meglio se rimaneva sulla Terra. È stato lui a salvarmi.
Io nemmeno lo sapevo che giocare d’azzardo intossica. Credevo che soltanto le droghe potessero farlo. L’attimo prima dell’arrivo del mio amico Paskosky mulinavo nello scarico di un lavandino.
È una storia vera.
Qualche anno prima con la mia adorata Mina, avevamo comprato una casetta, col mutuo s’intende. Ci era piaciuta subito per il giardino e un albero di ciliegie. Quelle che scrocchiano in bocca. Lei insegnava alla scuola elementare “Don Milani” e io facevo il magazziniere alla “Fantoni s.a.s” . Non mi piaceva quel lavoro e nemmeno il capo mi piaceva, però andava bene. Pagavamo tutto.
Mina mi trattava come uno dei suoi bambini e il capo come un cretino.
Poi aprirono, all’angolo tra il Caffè Centrale e il magazzino, una grande sala con le slot machine. Ci passavo davanti tutte le volte che andavo a prendere un caffè. Sentivo un odore che mi stuzzicava il basso ventre e anche una musica. Sbirciavo per vedere all’interno ma c’erano troppe scritte sui vetri. Quell’odore e quella musica mi rimanevano dentro e m’incantavo su cosa avrei fatto se avessi vinto dei soldi. Così un giorno entrai e giocai quello che avevo in tasca. Mi tenni cinque euro per le sigarette. Persi, ma quello che giocava accanto a me, senza che gli domandassi, mi disse che una volta sola non poteva funzionare. Mi raccontò che lui aveva giocato tre giorni prima di vincere, mi parlava e smanettava senza guardarmi ma io vidi l’unto sui capelli, il sudore che colava dalla basetta, i girelli del collo ripieni di sporcizia, la lingua sulle labbra spellate e scappai.
Lì per lì non capii perché.
La notte sognai che vincevo e il giorno dopo tornai a giocare. Ero in ferie. Continuai anche quando furono finite. Arrivavo tardi al lavoro e a casa. Non era più il pensare a cosa fare se avessi vinto era la scossa della giocata. Era quell’odore. In quel periodo capirete si era già attivato lo scarico del lavandino ma ripensandoci avrei ancora potuto metterci il tappo. Invece andai avanti. Ho vinto una volta sola trecento euro e li ho finiti un’ora dopo. Ho iniziato a giocare i soldi del mutuo. Quando la Banca ha chiamato a casa ero presente. La mia adorata Mina era così bianca. A quel punto sapeva già che avevo venduto la moto e la bici. Era sua la bici. Lei ha pianto tanto con me. Io mi sentivo una merda ma dovevo giocare. Così alla fine abbiamo perso la casa. Ci siamo persi fra di noi. Io ho perso anche il lavoro. Ho continuato a giocare. Ho venduto giacche invernali, penne stilografiche. Tazze con gli autografi. Ci sono tanti siti adesso dove puoi vendere le cose usate. È stato mentre vendevo i dischi in vinile di Battisti che ho conosciuto Paskosky. È stato mentre trattavamo sul prezzo che gli ho raccontato della mia vita nello scarico del lavandino. Gli ho detto che Mina se n’era andata, e anche che negli ultimi tempi non riuscivo più a fare l’amore con lei perché solo il giocare mi provocava una specie di erezione… e non mi sono vergognato… sentivo che se ne intendeva di queste faccende. È stato lui che mi ha portato al Centro. Mi disse che ero pronto. Dal momento che gli avevo raccontato la mia storia voleva dire che ero pronto. È stato così che mi ha salvato. Ho trovato un nuovo lavoro e sono venuto qui, a vivergli accanto. Lui mi lasciava parlare mentre potava i limoni. A volte ascoltavamo Battisti. I miei dischi che erano diventati suoi.
Mi prelevano ancora un quinto dello stipendio per saldare i debiti. Ne ho io di storie da raccontare.
Sono un poveruomo. Io lo so come ti spreme il freddo in casa. So che la muffa del pane si può mangiare…
Per far tornare i conti, visto che la paga non bastava, la mattina presto portavo fuori i cani della Zita di via Buia. Nella pausa pranzo distribuivo volantini. La sera prima di andare a letto portavo via la spazzatura alla Bigi del quarto piano. La notte dormivo o pensavo a come ero fortunato quando avevo Mina.
Adesso amico mio, con i tuoi soldi ho un vuoto dentro. Non mi fraintendere, sono stracontento, solo che ci devo fare l’abitudine, sai com’è… mi avanza del tempo.
Là c’è la sala giochi con il suo odore ma io ho i limoni da curare. Imparerò proprio bene, come sapevi fare tu. A volte caro Paskoski non riesco a credere che sia toccata proprio a me una fortuna così, quella di averti incontrato. A volte sogno che è stato tutto uno scherzo e quando mi sveglio prendo l’estratto conto che tengo sul comodino ed esco a guardare i limoni. Sono strane piante i limoni, hanno foglie, fiori, frutti, tutto insieme. Allora ci credo che pure uno come me ce la può fare. Che il vuoto se ne andrà anche se non ho più da lottare per arrivare alla fine del mese. Magari mi mangio una bistecca di quelle alte, una fiorentina.
In tuo onore la mangio.
Le ceneri di Paskosky le ho buttate dal molo. Il mare era calmo e per un po’ le ho viste galleggiare. Aveva lasciato scritto che me ne occupassi io di questa faccenda. Ma io non le ho buttate proprio tutte. Un poco le ho distribuite nelle conche dei limoni.
Non te ne avrai a male vero? Così mi pare che tu possa guidarmi mentre li sistemo.
Non si è presentato nessuno quando sei morto. Di te so solo che eri polacco. Ne avrai avute storie da raccontare.
Avrei dovuto chiedertelo.
Monica Dini