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concorso Io scrivo 1

Scritto da Raffaele Taddeo

vengono pubblicati altri tre testi di quelli presentati al concorso. Al titolo “concorso  Io scrivo”, sono già stati pubblicati i testi dei vincitori

Di Dove sei   di Rayan Bouchemal

“Di dove sei?”, mi sento chiedere così spesso tanto da essere arrivata, con il tempo, a provare una completa anestesia al dolore che in passato mi procuravano le intenzioni celate dietro ad una banale domanda.
Ma come lo spiego che sono figlia di due terre e di nessuna contemporaneamente, che sono il risultato di uno scontro, che non ha senso di esistere, fra culture diverse e che la saggezza dello scorrere del tempo ha trasformato in armonia arricchente.  Il campo di battaglia ha lasciato ora posto all’orgoglio di sentirmi vessillo e manifestazione vivente dello scorrere del patrimonio genetico e culturale arabo dentro di me e di quello culturale italiano dentro e tutto attorno a me. Mi chiedo se, coloro che mi pongono tale domanda, avrebbero davvero il genuino desiderio di sapere che la mia generazione è quella di giovani cresciuti incastrati tra un passaporto, un permesso di soggiorno e mille bandiere.
Giovani che usano due lingue per dire le stesse parole, non in grado di scegliere a quale aderire. Perché tutta questa complessità è allergica a risposte semplici e non può essere confinata ad un paese lontano, costruendomi addosso delle gabbie invisibili. “Sono di Milano”, d’istinto rispondo. E lo noto subito quel guizzo distinto nei loro occhi, quel tacito giudizio carico di supponenza che mi viene assegnato.
Sono nata in Italia nel 2001 senza avere alcun potere decisionale in merito, è successo senza che lo sapessi o lo volessi. Tuttavia sono cresciuta amandomprofondamente la cultura italiana e scegliendola come patria prima ancora che lo potesse fare Lei, un po’ riluttante, una volta compiuta la maggiore età.
Guardando le partite di calcio con la mia famiglia, adorando il calcio come da tradizione italiana, tifavo a squarciagola per la mia nazionale. Il calcio ha questo  grande potere di legare un tessuto sociale assai variegato, annullarne momentaneamente le differenze e unirlo al destino di un pallone sempre in moto.
Le vittorie dell’Italia sono sempre state anche le mie e il mio supporto si manifestava sempre ed esclusivamente a gran voce ad ogni gol.
Volevo urlare di essere italiana.
Eppure non sempre l’Italia ha fatto il tifo per me.
Mi sono sempre sentita orgogliosa di parlare bene l’italiano, di eccellere negli studi, di non avere alcun accento affinché non ci potessero essere ulteriori motivi per mettere in questione la mia italianità. Non volevo che la mia apparenza tradisse
come mi sentivo interiormente. Ciononostante, mentre a diciott’anni diventavo italiana sulla carta, acquisendo la cittadinanza, la mia italianità veniva sminuita dal pubblico ufficiale, che si sarebbe dovuta limitare a concretizzare burocraticamente un sentimento che per me era già reale, finendo però per precisare che non ero realmente italiana: le donne italiane, si sa, non portano il velo.
“No, di dove sei realmente? Da dove vengono i tuoi genitori?”, insistono loro irritati dal fatto che non risponda seguendo i medesimi schemi mentali.
Sono il frutto caduto lontano da un albero che si estende con radici profonde in Africa, vorrei poter rispondere. Sarò sempre grata ai miei genitori per avermim regalato la missione della vita, alla ricerca della mia essenza e del mio posto nel mondo, avendo a disposizione una bussola interiore forgiata dalle loro esperienze di vita. Questa scia di esperienze vissute la ritrovo sempre guardando nei loro occhi stanchi e delusi dalle aspettative mancate. La ripercorro fino a giungere a trent’anni fa, quando ci fu un cambiamento nell’anima, quando vi si depositò la volontà di fare meglio e la necessità di realizzarsi un futuro incerto altrove, quando gli occhi umidi e determinati volgevano l’ultimo sguardo carico di affetto verso l’Algeria per poi partire definitivamente, occhi che si allontanavano dalla vista di madre, padre, sorelle e
fratelli, lasciando però il cuore ancora ben ancorato ai loro, occhi che hanno conosciuto la tristezza, la solitudine, la difficoltà e che hanno imparato ad amare anche oltre il mare.
Quanto coraggio è richiesto per vivere da straniero. Lasciare tutto ciò che si possiede e cambiare radicalmente vita, lingua e paese. Tutto in nome di una potenziale prospettiva di vita migliore, che in realtà nessuno ti garantisce.
Mio padre e mia madre, stringendo entrambi tra le mani con forza le lauree in ingegneria, prima di partire alla volta dell’Italia si sono dovuti cucire un senso addosso e lo hanno rammendato più volte nel corso della loro vita, quando un senso sembrava non esserci più, quando la fiamma della speranza sembrava affievolirsi e loro tornavano ad essere semplicemente due giovani stranieri in terra straniera che
sognavano più in grande di quanto potessero permettersi.
Fino a che quel senso non lo siamo diventati io, mio fratello e mia sorella. Sono fiorita quindi in un contesto che mi ha permesso, maturando, di riconoscere, apprezzare e rendere valore al sacrificio; un contesto che mi permette di essere partecipe con la condizione di chiunque.
Provo estrema vicinanza verso tutti gli esseri umani e una particolare affinità verso mcoloro che si trovano negli strati più bassi della società, gli ultimi, guardati con disprezzo o direttamente ignorati, che fanno fatica a solcare il sentiero del futuro che
tanto si immaginano.
Questo perchè mi è così chiaro il fatto che tale destino sarebbe potuto toccare achiunque, che su un barcone in mezzo al mare gelido in tempesta sul quale mi sono assicurata un posto pagando con i risparmi di una vita e molto probabilmente anche con la mia vita stessa, in quanto non conosco altro all’infuori della disperazione, ci sarei potuta essere io, o i miei genitori, o loro che mi continuano a chiedere di dove
sono, oppure tu.
Lasciate dunque che vi chieda io, a questo punto, signori: “che cosa volete sapere per sentirvi superiori?”.

Alla ricerca dello specchio   di Djulienne Panganiban

Non ho mai creduto alle coincidenze, ho sempre saputo che ognuno di noi si trova dove è destinato di essere e incontra determinate persone per un determinato motivo.
In questi ultimi anni, la mia vita ha visto diverse personalità, le quali hanno contribuito alla persona che sono oggi. Mamma, papà, la nonna e il nonno sono le prime figure con cui ho trascorso la mia infanzia. A quel tempo, essendo figlia unica, pensavo di aver perso la mia metà quando la mamma era partita dalle Filippine. Non sapevo neanche dove e perché l’avesse fatto. Cercava di farmi sentire la sua presenza, in qualche modo, anche se tramite Skype si faceva lo stesso fatica a causa della connessione scarsa. Crescendo, non avevo un legame così forte con i miei genitori. Io non li conoscevo, loro non mi conoscevano. Questo ha creato diversi problemi fra di noi, specialmente quando ci siamo riuniti qui in Italia. Il passaggio tra una cultura e l’altra era il nuovo inizio, che mi ha permesso di iniziare a conoscere me stessa e le persone che mi circondano. Il nuovo ambiente, nella quale non ero abituata a vivere, continuava ad alimentarmi curiosità: la storia, il cibo, l’arte, le abitudini e le tradizioni. Non solo, ma ha iniziato anche a suscitare in me timore e ansia. Essendo stata una bambina molto timida e insicura, non ero pronta a relazionarmi con altri bambini. Avevo paura che non mi avrebbero inclusa, oppure che mi avrebbero presa in giro, anche faccia a faccia. Piangevo ogni sera, riflettendo sul pensiero che ci vorrà ancora tanto prima di tornare a casa e quindi dovevo per forza adattarmi. Ho affrontato vari ostacoli, ma con perseveranza sono sempre riuscita a superarli.

Ha continuato sempre di più a interessarmi la cultura italiana e man mano impararla con tanto piacere, non solo tra amici, ma anche a scuola.

I miei genitori, mi hanno sempre appoggiata su tutte le mie decisioni e guidata, ma delle volte non riusciamo ad andare d’accordo su tutto e a comprendere le esigenze dell’altro. Su certi aspetti, sono veramente scettici e lo fanno solo per proteggermi, ma ciò mi ha reso impossibile conoscere me stessa, cosa mi piacesse e cosa no. Non mi facevano uscire quando i miei amici mi invitavano a fare un giro oppure andare a studiare a casa di una compagna. Sono tanti i fattori che mi hanno impedito di vivere pienamente la mia adolescenza, ma forse soprattutto da quando è nata mia sorella Diella. Vivere quel periodo è stato abbastanza difficile. Ero travolta da tutte le mie responsabilità, dagli impegni che aumentavano e dalle richieste a scuola che continuavano ad alzarsi. Non mi piaceva l’ambiente in cui stavo perché non mi sentivo compresa e riconosciuta per quello che facevo. I disaccordi con i miei genitori cominciavano ad essere molto frequenti e una parte di me stava soffrendo. Neanche a scuola mi sentivo a mio agio, mi vergognavo alle interrogazioni perché avevo paura che qualcuno ridesse di me appena sbaglio la grammatica. Lasciavo che i voti a scuola mi definissero. Non avevo tanta fiducia in me, né nelle capacità che avevo.

All’improvviso, nascono nuove domande in me. Mi chiedevo quali fossero le cose più importanti di cui dovrei tener conto, cosa potessi fare di più e soprattutto cosa potessi fare adesso in modo che il mio futuro non ne risentisse. La strada può essere solitaria appena concepisci quali siano i tuoi obiettivi, ma ho realizzato che, delle volte, è anche necessario per dar spazio al dialogo tra sé e sé, riflettere se stiamo veramente facendo la cosa giusta e soprattutto se risponde alle nostre domande poste prima delle azioni compiute. Ho lasciato persone che non fanno altro che tirarmi sempre indietro e fatto cosí tanta attenzione a trovare quelle che possono effettivamente aiutarmi a migliorare. Ho una grande stima per coloro che pianificano in decenni, ma che vivono in momenti. Persone ossessionate nel lavoro, ma rilassate nella vita. Desidero circondarmi di quel tipo di persone, con cui posso salire montagne di problemi e superarle insieme. Loro mi servivano da appoggio, ma sono io che dovevo essere cosciente di ciò che mi mancava per vedere il miglioramento, il frutto di una serie di abitudini, e agire. Abitudini come dormire presto la sera, seguire una dieta salutare, essere costante nello studio, fare esercizio fisico e dedicare del tempo alle passioni. Volevo finalmente dare uno scopo alla mia vita e, col tempo, stavo ritrovando la mia strada. Con la mia famiglia, ho capito che anche io dovevo cercare di comprendere cosa stessero passando, non li chiedevo mai come fosse andato al lavoro o che altro avessero fatto durante la giornata.

Attraverso il viaggio di crescita ho sviluppato un senso di individualità che mi distingue da coloro che mi circondano. Non accetto più le opinioni degli altri solo perché lo dicono. Sono pienamente responsabile delle mie azioni, cioè sono in grado di riconoscere non solo le mie qualità ma anche i miei difetti e quando viene commesso un errore.

È un percorso molto difficile, ma ogni tanto vado a visitare un’amica che mi ricorda sempre di non scoraggiarmi e andare sempre avanti. “Come fa fatica la gemma a diventar fiore” mi dice sempre quando scoppio a piangere e inizio a pensare alla sfortuna che ho avuto di essere nella situazione in cui mi trovo, mentre invece è solo un brutto periodo e passerà come ogni stagione. Sono giunta ad accettare che il dolore fa parte della vita e non la devo passare cercando di non farmi del male, perché se no appena arriva la felicità non mi farà percepire altro che monotonia. Crescere è anche creare quella figura che rifletta le mie caratteristiche e i miei pensieri, indipendentemente da ciò che pensano gli altri. È, secondo me, avere una chiara idea di sé, una propria identità, e condividerla in modo che ognuno ed altre persone possano imparare e trarne vantaggio.
Anni fa, ero tornata nelle Filippine ed ero andata a vedere un film intitolato “Finding Dory”, in italiano “Alla ricerca di Dory”, in cui il protagonista mi ha lasciato impressa una citazione: “Just keep swimming. Just keep swimming, swimming, swimming.”, che dice essenzialmente di continuare a nuotare e quest’idea ci dà la speranza di cui abbiamo bisogno per raggiungere il nostro obiettivo: finire forte e perseverare nei momenti difficili. Insomma, non arrendersi mai.

 

Alla ricerca di un luogo a cui appartenere   di Assia El Sawah

Sono Assia El Sawah, ho 22 anni e sono nata da genitori stranieri. Mia mamma, Elena, è rumena,
mio padre, Yahia, è egiziano. Ho anche due fratelli, il maggiore si chiama Adam mentre il minore
Idris, e tra di noi abbiamo un’anno di differenza circa.
Partiamo dall’inizio: come anticipato precedentemente sono figlia di un padre egiziano fortemente
focalizzato sulla religione, perciò alla mia nascita non fu contento di scoprire che ero femmina, e
non ha mai faticato a dimostrarmelo; ma quello che non mi ha dato lui, come l’affetto ad esempio,
me lo ha dato mia mamma anche se fino a un certo punto, in quanto era lei che si occupava di
mantenerci dal momento che era l’unica che lavorava. Nonostante ciò ha sempre dimostrato a tutti
noi tre di volerci bene, senza fare preferenze.
La mia non è la classica storia di una figlia di immigrati che si deve arrangiare e destreggiare tra
l’essere bambina e adulta allo stesso momento, occupandosi di tradurre per i genitori tutto il
necessario; principalmente perché mia mamma, appena arrivata ha cercato in tutti i modi di
imparare la lingua per integrarsi al meglio.
Le volte in cui ho risentito dell’essere figlia di stranieri sono poche.
Ancora prima di apprendere a scrivere in italiano, ho imparato a parlare e scrivere in arabo: questo
fatto mi ha segnato particolarmente per due motivi. Dato che in arabo la scrittura parte da destra e
prosegue verso sinistra, quando ho iniziato a scrivere in italiano seguivo il procedimento della
lingua araba; ma finalmente in seconda elementare ho iniziato a scrivere correttamente, da sinistra
a destra. Inoltre, mentre apprendevo a scrivere in arabo e mi capitava di sbagliare, succedeva che a
volte mio padre mi colpisse la mano. Di conseguenza, quando ho cominciato a scrivere da sinistra a
destra e sbagliavo, avevo il timore che le maestre si comportassero come lui, causandomi danni
alla mano e pertanto un ritardo nell’apprendimento.
Verso l’ultimo anno di asilo entra in gioco mia nonna materna, Anica, che parlava una lingua
totalmente sconosciuta a me. “Nonna” in rumeno si dice “bunica”, ma quando l’ho conosciuta del
rumeno sapevo solo che non esistono doppie, quindi lei per me è sempre stata “nona”. Anche una
volta imparato il termine giusto continuai a chiamarla così, perché ormai mi ero affezionata alla
mia “nona” che con una gentilezza a me sconosciuta mi aveva insegnato che si può imparare una
nuova lingua senza la paura delle ripercussioni in caso di errore.
Durante il mio percorso alla scuola elementare, spesso le maestre avevano il costante pensiero che
io non capissi o che capissi poco di quello che spiegavano e dicevano, in quanto parlavo molto poco,
senza rendersi conto però che ogni volta che mia nonna materna si presentava ad un colloquio ero
io che facevo da interprete. Questa dinamica è durata fino alle medie, quando finalmente capirono
che non si trattava di ignoranza ma di timidezza.
Durante il periodo scolastico ma ancora oggi spesso quando sento delle parole che non conosco mi
chiedo se si tratti di termini poco conosciuti o di ignoranza da parte mia in quanto straniera che
non utilizza determinate parole. La più recente a natale, quando nell’organizzare una festicciola tra
amici mi è stato dato il compito di occuparmi delle ‘vettovaglie’; e nonostante le persone con cui
stavo organizzando erano persone conosciute mi sono sentita in imbarazzo a chiedere di cosa si
trattasse per paura di sentirmi diversa.
A 16 anni ho deciso di entrare in Croce Rossa, soprattutto per sapere come comportarmi in caso
mia nonna si fosse sentita male, dato che in quel periodo la sua salute andava via via
deteriorandosi e in parte per cercare di creare un senso di appartenenza in un paese che non
sempre mi ha mostrato il suo lato migliore ma dove comunque episodi di velato razzismo non sono
mai mancati, sia tra i colleghi che tra i pazienti. Uno degli episodi degno di nota è stato quando
dopo essere andati in soccorso di una signora e aver sventato l’emergenza che aveva, nel tragitto
verso l’ospedale, mi dice di notare in me lineamenti stranieri, più precisamente egiziani; una volta
spiegatole il perché, la signora ha esordito con “allora non siete solo in giro a rubare o a sfornare
figli”, lasciandomi abbastanza spiazzata, ma nonostante ciò non sono riuscita a ‘difendermi’.
A 18 anni ho perso la carta d’identità e sono andata in comune per farne una urgente, trattandosi
quello del mio unico documento. Una volta spiegata la situazione, in comune mi hanno chiesto di
firmare un foglio in cui certificavo di non avere altri documenti d’identità, perché se no “come sono
arrivata qui senza almeno un passaporto”. Questa è stata una delle volte in cui ho fatto fatica ad
accettare il trattamento ricevuto.
Culturalmente invece, molte cose mi sono sembrate come se appartenessero a due mondi diversi.
Prima di tutto c’erano le festività, che non festeggiavamo allo stesso modo, per esempio il natale
non l’abbiamo mai celebrato fino a quando i miei genitori non hanno deciso di separarsi; o ancora
la pasqua, visto che festeggiavamo quella ortodossa e non quella cattolica. Oppure i modi di dire
che molto spesso non coincidevano, per esempio durante i pasti quando qualcuno non voleva
mangiare mia nonna era solita ripetere “chi mangia è come un fratello, chi no, come due”, per dire
che non mangiare era una cosa che giovava agli altri e non a noi stessi.
Alla fine mi sono arresa al fatto che per gli italiani non sarò mai abbastanza italiana, ma mi ha ferita
abbastanza sapere che nemmeno per i rumeni sono abbastanza rumena, in quanto nonostante
conosca la lingua e molte tradizioni, ho un accento che non è il loro, gesticolo più di quanto
facciano loro e non ho la pella chiara quanto la loro; per quanto riguarda la mia parte egiziana, non
la considero nemmeno essendo quella con cui sono entrata meno in contatto, se non solo nella
parte iniziale della mia vita.
Il momento peggiore della mia vita lo passato l’estate scorsa 2021, quando a seguito di un
incidente stradale, Idris è morto. Ad oggi ancora faccio fatica ad elaborare il fatto, ma in quel
periodo oscillavo tra il negare ciò che accadde e passare giornate intere a guardare gli articoli di
giornale con tanto di foto dove raccontavano l’accaduto. Ad ogni articolo che usciva, aspettavo con
un nodo alla gola di leggere le solite parole “un ragazzo straniero” che si incontrano in ogni articolo
con protagonista qualcuno di non italiano, ma non accadde, finché la notizia non finì anche su
Facebook.
A questo punto la gente ha dimostrato tutta la cattiveria di cui era capace, con commenti che mi
facevano piangere più di quanto già non facessi, fino a quando non ho cominciato a notare che per
ogni commento d’odio c’era una risposta dove veniva difeso. In seguito dopo il funerale, vedendo
anche la quantità della gente che si era presentata, ho realizzato che straniero o no, Idris ha fatto
del bene a tante persone, che gli hanno voluto altrettanto bene e che ancora oggi vanno a trovarlo.
Questa a grandi linee è la mia storia fin’ora, una storia che non ha grandi colpi di scena. Posso
ritenermi fortunata, quasi una figlia di immigrati di prima classe dato che a differenza di altri figli
di immigrati, nella mia famiglia c’è stata una divisione dei compiti tra adulti e bambini, e dove
almeno un punto di riferimento lo si ha, nonostante delle volte magari venga difficile incontrarsi su
un territorio comune per divergenze di vedute o per la classica differenza d’età. Nonostante mia
mamma abbia sempre voluto il meglio per noi tutti, non ci ha mai spinto a realizzare aspettative
che aveva lei, anzi ci ha sempre e solo incoraggiato a dare il massimo, che questo massimo sia un
10 o un 6, lei ha accettato tutto quello che è venuto e non lo ha mai fatto pesare.
Il suo ruolo come genitore nell’accompagnamento all’interno del mondo lo ha fatto nel migliore
dei modi, provando a vedere potenzialità che magari non vedevamo, ed essendo la roccia a cui
aggrapparsi nei momenti più instabili.
La mia è una ricerca che ho deciso di fermare quando mi sono resa conto che il secondo significato
che appare sul dizionario Treccani di “appartenere” è ‘fare parte di una famiglia’, e io faccio parte
di ben più di una famiglia, in primis la mia, e a seguire tutte quelle di cui decido di far parte, siano
esse amicizie o altri tipi di relazioni che decido di intraprendere durante la mia vita

L'autore

Raffaele Taddeo

E’ nato a Molfetta (Bari) l’8 giugno 1941. Laureatosi in Materie Letterarie presso l’Università Cattolica di Milano, città in cui oggi risiede, ha insegnato italiano e storia negli Istituti tecnici fin dal 1978. Dal 1972 al 1978 ha svolto la mansione di “consulente didattico per la costruzione dei Centri scolatici Onnicomprensivi” presso il CISEM (Centro per l’Innovazione Educativa di Milano). Con la citata Istituzione è stato coautore di tre pubblicazioni: Primi lineamenti di progetto per una scuola media secondaria superiore quinquennale (1973), Tappe significative della legislazione sulla sperimentazione sella Scuola Media Superiore (1976), La sperimentazione nella scuola media superiore in Italia:1970/1975. Nell’anno 1984 è stato eletto vicepresidente del Distretto scolastico ’80, carica che manterrà sino al 1990. Verso la metà degli anni ’80, in occasione dell’avvio dei nuovi programmi della scuola elementare, ha coordinato la stesura e la pubblicazione del volumetto una scuola che cambia. Dal 1985 al 1990 è stato Consigliere nel Consiglio di Zona 7 del Comune di Milano. Nel 1991 ha fondato, in collaborazione con alcuni amici del territorio Dergano-Bovisa del comune di Milano, il Centro Culturale Multietnico La Tenda, di cui ad oggi è Presidente. Nel 1994 ha pubblicatp per il CRES insieme a Donatella Calati il quaderno Narrativa Nascente – Tre romanzi della più recente immigrazione. Nel 1999 in collaborazioone con Alberto Ibba ha curato il testo La lingua strappata, edizione Leoncavallo. Nel 2006 è uscito il suo volume Letteratura Nascente – Letteratura italiana della migrazione, autori e poetiche. Nel 2006 con Paolo Cavagna ha curato il libro per ragazzi "Il carro di Pickipò", ediesse edizioni. Nel 2010 ha pubblicato per l’edizione Besa "La ferita di Odisseo – il “ritorno” nella letteratura italiana della migrazione".
In e-book è pubblicato "Anatomia di uno scrutinio", Nel 2018 è stato pubblicato il suo romanzo "La strega di Lezzeno", nello stesso anno ha curato con Matteo Andreone l'antologia di racconti "Pubblichiamoli a casa loro". Nel 2019 è stato pubblicato l'altro romanzo "Il terrorista".

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