[Distico dell’esilio. Maureen Duffy, Loris Ferri]
I. Origine
Fu nell’estate del duemila e venti che conobbi per la prima volta Katie Webb, coordinatrice del progetto internazionale IAF per associazioni di autori di tutto il mondo. Fino ad allora tenemmo una corrispondenza scritta e, cogliendo l‘occasione, decidemmo di darci appuntamento nelle Marche, a metà strada, precisamente a Porto San Giorgio. Parlammo di tante cose: della poesia orale, delle mie pubblicazioni e Katie mi fece vedere una copia molto interessante di una raccolta di poesie dell’autrice Maureen Duffy dal titolo Wanderer, stampata per The Pottery Press1, proprio in quell’anno. Quarantotto pagine corredate da trentuno immagini (che ambientano le poesie) dell’artista Liz Mathews. Mi colpì particolarmente la copertina, che sentii come qualcosa di corposo, tangibile nei colori eppure c’era di più, una evanescenza nelle figure umane, negli orizzonti, come un richiamo a entrare, a volere sparire dentro l’immagine stessa. Da allora spesso è tornato nelle nostre conversazioni il nome della scrittrice Duffy, e con quel nome anche il ricordo di quell’immagine. Katie aveva lavorato e stava ancora lavorando a stretto contatto con lei e dopo avere assecondato l’idea di tradurre alcune mie poesie in inglese (per lo più inedite) mi decisi ad accettare il suo invito a provare a mettere in relazione l’omonima poesia Wanderer, che dà il titolo alla raccolta di Maureen Duffy e la poesia Esodo, testo di chiusura del mio libro inedito Cinema Sarajevo. Noi / siamo diventati fantasmi che vagano per un continente / senza volto. Sapevo che Maureen non stava solo parlando di esuli e migrazione. Sapevo che stava parlando anche di noi.
II. Prima che si oscurino i cieli
In principio fu il bardo, l’antico poeta cantore dei popoli celti, l’errante, colui che fissò nell’infinità il tempo, colui che concesse voce al mondo, le cui vicende vennero eternizzate nel poema in lingua inglese antica, contenuto nel Codice Exeter, il cui titolo recita Wanderer. L’autrice stessa, Maureen Duffy, ci racconta come l’ispirazione, l’eco di quel testo vibri nel suo componimento, non solo nella scelta di mantenere il titolo omonimo, ma anche nel grande respiro, nell’alchimia che lega, al di là delle epoche e dei tiranni, tutti i grandi poeti. E in essi, le illuminazioni nel saper leggere i segni dei mondi, l’universale condizione umana. L’allora: la meditazione di un esule solitario, il poeta menestrello, che vaga tra freddi mari e su sentieri di esilio dopo avere perduto il proprio padrone, in cerca di un luogo-altro da potere considerare casa, al cospetto del fato (wyrd) totalmente inesorabile. Ma nel fato non vi è contenuta solo la forza del passato che determina il futuro, ma anche il destino segnato del futuro che domina il passato, in un cerchio chiuso nel quale ogni atto è predeterminato e il destino stesso incontrovertibile. L’oggi: il terribile viaggio, l’insperato approdo, la figura dell’errante che prende forma nelle sembianze stesse dei nuovi rifugiati, esuli nella geografia contemporanea della migrazione. La morte, la fuga, il ricordo, la flebile speranza scalfita ogni giorno dagli eventi. La fatica dei singoli passi. Il tema del viaggio compone la parte centrale del testo, ma non ne rappresenta solo un viatico fisico dell’esilio o del continuo peregrinare tra mille difficoltà, bensì un viaggio interiore. La coscienza collettiva d’essere noi tutti migranti verso l’ignoto. Neppure il bardo di allora ne è immune, e i versi inziali in lingua inglese antica recitano (vv 2-5):
… sebbene afflitto in cuore
abbia a lungo dovuto, per le vie del mare,
smuovere con mano le gelide acque, battere
orme d’esilio – inesorabile è il Fato
Esprimendo chiaramente la sua posizione atea e umanistica, l’autrice, nelle sue osservazioni legate al testo, si sofferma sulla dimensione esistenziale del nomadismo: l’uomo è nomade, non solo nello spazio ma anche nel tempo, una specie di contingenza connaturata al suo essere, e ne trae la conclusione che l’esperienza degli esuli sia riconducibile a quella del bardo perduto. << Siamo una specie migratoria >> ci dice Maureen. L’erranza è figlia stessa della costrizione e della necessità (cibo, guerra, perdita delle proprie terre). In questo ampio quadro di riflessione Maureen Duffy concede nuova luce al tema originario, mutando ambientazione, immettendoci nella scena stessa di un crollo, il crollo di una civiltà. La scrittura avviene come in presa diretta, le sequenze in versi liberi innescano il naufragio, il tentato approdo e la tensione umana e infinita alla vita:
Esule
Dopo che le case furono ridotte in macerie e polvere
le strade dove i bambini giocavano insanguinate dalla morte
proveniente dai cieli, Palmira saccheggiata e messa sossopra
gli archi, opera di uomini venuti prima, crollati
e il museo, dove una volta ero responsabile dei gioielli
in oro e argento, di ricche incisioni e di gemme
multicolori, mandato in frantumi come le teche di vetro
con le antichità, fuggimmo dalla nostra terra oltre il confine
a nord e poi ci fu la lunga marcia finché non giungemmo
sulla riva di una insenatura, inerpicandoci su rocce
guadando attraverso acque basse fatte di ciottoli mobili.
‘Vi porterò,’ disse l’uomo, ‘attraverso il mare
se pagate. Guardate potete vedere l’isola non lontano
al di là delle acque, dove sarete al sicuro e liberi.’
Così lo pagai. Le onde erano fredde, grigie e agitate
l battello piccolo. ‘È vicino, solo un breve tratto
così vi lascio ora.’ Ma le onde divennero più alte
un’aspra pioggia e la grandine ci battevano sulla testa.
Ci accalcammo sul battello ma eravamo in
troppi. Le onde si riversarono sul fianco. Avemmo paura
di affondare. L’acqua ci aspettava con il suo raggelante
abbraccio. Cercai di remare con le mani mentre le donne
toglievano l’acqua con le loro. Un uccello marino volò sopra di noi
strillando mentre affondavamo sempre di più. Poi di colpo
dalle tenebre un battello venne verso di noi.
Ci alzammo sventolando le braccia, strillammo come l’uccello marino
ma il battello andò giù da un lato mentre ci spostavamo
dall’altro, supplicando di essere salvati. Le gelide acque
si chiusero su di me. Pure mi sforzai di andare su ed ecco una mano
si abbassò per bloccarmi e impedirmi di riaffondare
tirandomi su finché giacqui sul duro ponte, in salvo
mentre altri sparivano dalla vista affondando nel freddo abbraccio
del mare. Sulla riva persone gentili vennero con delle coperte
per avvolgere i nostri corpi tremanti, ci riempirono la pancia di cibo
finché non vennero le guardie con i fucili che ci ammassarono in una gabbia.
Un uomo gridò: ‘Non siamo animali. Siamo umani.’
Poi fummo schedati, registrati come bestiame in vendita.
Molti giorni aspettammo solo con la voglia di andare avanti
finché alla fine non ci aprirono la gabbia, ci lasciarono uscire
per prendere il volo e vedere il mare questa volta
sotto di noi. Solo per ripercorrere la lunga strada
verso il futuro, portando i bambini
con tutto quello che avevamo al mondo sulla schiena.
E così avanti verso nord, mentre l’aria si faceva più fredda.
Non avevo pensato che l’esilio fosse così gelido.
Dei paesi alzarono barriere contro di noi. Le abbattemmo
con le mani, le scavalcammo
per quanto alte le avessero costruite, le colpimmo
finché non arrivammo a una terra dove pensavamo
di trovare il nostro futuro. Ma non c’era tregua.
Volti freddi erano rivolti verso di noi, occhi vuoti.
Eravamo i perduti del mondo con appena il
ricordo di un tempo una volta più felice. Noi
siamo diventati fantasmi che vagano per un continente
senza volto, di passaggio, andando sempre più avanti
un eco della condizione umana, viaggiando
dalla nascita alla morte eppure ancora desiderando, credendo
che fra le due ci debba essere una vita, palpitante
piena di speranza, che ci fa continuare ad andare.2
III. Il principio di un miraggio
Se, in Maureen Duffy, nei rifugiati si mostra il volto del bardo perduto, in Esodo, nel viaggio di uomini, donne e bambini che attraversano da est la frontiera di un’Europa cannibale, si compone l’epica di un intero popolo migrante. La figura del cantore-esule in questo componimento è duplice e subito palese: gli erranti, coloro che fuoriescono da una calca disumana d’anime scalze, prendono l’antica sembianza del poeta Omero (verso 7). In essi non solo la parola e il racconto di sé concede memoria, ma i corpi stessi, in viaggio, risultano metafora eretica di un epos vivente; la rapsodia che intreccia a sé, come una lunga serpe, i versi della poesia, cuce inesorabilmente agli zigomi antichi di eroi profughi (verso 2) la prefigurazione del mito di Enea. Dunque l’eroe profugo che Virgilio ci presenta nell’Eneide come mito fondativo di Roma e della lingua dei poeti. Dante stesso nel suo viaggio sceglie come guida Virgilio nell’attraversamento dell’Inferno e del Purgatorio, non solo come archetipo di una profezia (il puer, IV egloga delle Bucoliche), ma come fonte di ispirazione e maestro di stile (Inferno I, vv. 82-87). Non a caso il riferimento all’Eneide avviene proprio nel secondo verso di Esodo. Se ripercorriamo la scrittura del Libro Primo, Virgilio da subito presenta Enea con un epiteto ben preciso:
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus laviniaque venit …
Al di là dell’impero che fonderà Enea, al di là del viaggio tenebroso che lo attende, seppur guidato dal Fato (fas) che per l’eroe non sempre ha connotazioni positive, egli è destinato ad essere e a rimanere un profugus, un fuggiasco costretto ad abbandonare una città in fiamme, Troia, distrutta da una guerra, dalla quale mai sarebbe voluto partire, obbligato ad affrontare terribili pene e sciagure per mare. E nei tenebrosi momenti concitati del fuggire, Enea perde la sua sposa, Creusa, e nel cercarla ovunque ritrova solamente il fantasma di lei che lo spinge a proseguire il viaggio: Lungo esilio ti aspetta, tanto mar da solcare (libro 2, v. 780). Di certo Enea, il cui destino è da subito segnato, se potesse non si muoverebbe affatto dalla sua terra (libro IV, 340 sgg.):
Se il destino mi desse di viver secondo il mio cuore,
se potessi a mio modo ricomporre gli affanni,
a Troia, prima di tutto, le dolci reliquie dei miei
avrei raccolto, in piedi sarebbe il palazzo di Priamo,
Pergamo, due volte per terra, l’avrei rifatta pei vinti!3
Eppure ogni eroe è in balìa dei decreti assoluti; e non resta altro allora che la vita vera, e altro allora non resta che sfidare i naufragi (Libro III, 192 sgg.):
Quando le navi furono al largo e ormai più nessuna
terra appariva, cielo da tutte le parti, da tutte era mare,
ecco plumbea sul capo mi s’addensò la tempesta,
notte e freddo portando, e l’onda rabbrividì nelle tenebre.
Subito i venti sconvolgono l’acque e grosso si leva
il mare, disseminati sul vasto abisso vaghiamo:
coperto il giorno hanno i nembi, la notte umida il cielo
ha fatto sparire, stracciando le nubi incalzano i fulmini.
Gettati fuori di rotta navighiam cieco mare.4
Nella lettura di questo breve passo, ci troviamo di fronte all’imposizione delle tenebre, alla nomenclatura delle anime in tempesta, che caratterizza l’uomo sin dalla sua comparsa, che trova sublimazione nell’epopea; e il racconto delle vicende si mescola al tentativo estremo di un superamento, di un riscatto, ma il solo possibile, soffocato dalle leggi dei padri, corrisponde alla stessa fine dei padri, alla cessazione metaforica del loro esistere. Territori irriconoscibili e frontiere in continua mutazione, identità e fili spinati strappati all’assurdo. E in questo totale e assoluto cortocircuito del reale, solo la grandezza dell’arte ci consente l’attraversamento del dolore. Così, mentre nelle parole si compie lo statuto speciale “dell’unicità nella diversità”, nel cuore dei poeti avviene l’impasto, fatto di suoni, echi e persecuzioni; è la voce dell’esilio che vibra nel sangue e dal sangue caldo e dai nervi ritorna al verso. Non è la storia a insegnarci nulla; è la memoria, viva, è la musa che canta in noi e fa vibrare il cosmo, che fa sentire sulla pelle l’esistenza tutta, con i suoi prodigi, le sue contraddizioni, le sofferenze, i tormenti, le aspirazioni. È lei la sola luce per un nuovo mondo. Ecco, al di là dei confini e delle mappe il canto, il giorno dei corpi, la speranza nel viaggio:
Esodo
Non una nazione, più di una nazione, un popolo
migrante con zigomi antichi di eroi profughi
muovendo come carovane di stracci – tumolo
di lingue annerite dalla fame – giunge nei luoghi
dove piccoli formicai, colonie d’erbe e frumento,
hanno posto il segno ventoso di una frontiera;
lentamente fuoriescono i nuovi Omero da una calca disumana
d’anime scalze, con i loro occhi ciechi, sotterrati dalla paura,
impressi nell’acqua nauseabonda. Gli uomini azzannano la terra;
e nella terra ritornano. L’amore ha un tempo. Il suo tempo è la fine.
Sulle alture, dove non osano i vecchi caproni affrontare
le conche dei dirupi, si issano come palizzate, nel disordine
delle masse, cenci di bivacchi fecciosi. Il mattino cuoce
come una pagnotta. Ogni piccolo seme s’affida al vento
e a crepe non sapute, prima di venire – con umida scorza – alla luce;
farsi spiga tra le spighe. Il giorno dei vasti corpi è scoccato.
Attorno alle porte chiuse del disamore, uomini generano
uomini mescolando se stessi, figli di un solo primo dio;
mezze razze che sopra secoli di sangue seminano
la propria carne. Non ha confini un mondo, ma occhi. In essi si celebra
il principio di un miraggio. Nasce nudo il cosmo; nascono
discendenze che avranno odore di curcuma e orzo, tenebra,
il profondo nero di pupille berbere. Loro saranno
le orme sulla pietra dura, l’aroma nei campi di maggio
rughe di chicchi incastonati nelle crepe di un melograno,
suolo scavato da radici; saranno i loro volti meticci il nuovo dio.
1 The Pottery Press: Casa editrice in lingua inglese che per prima ha pubblicato l’opera intera dal titolo: Wanderer di Maureen Duffy nel 2020 e che ne detiene tutt’ora i diritti.
2 Trad. Anna Maria Robustelli da Maureen Duffy, Wanderer, the Pottery Press, London 2020. Tutti i diritti riservati.
3 Trad. a cura di Rosa Calzecchi Onesti da Virgilio, Eneide, II ed. ET, Einaudi 1991
4 Trad. a cura di Rosa Calzecchi Onesti da Virgilio, Eneide, II ed. ET, Einaudi 1991
N.B. Copertina di Wanderer, di Maureen Duffy, pubblicazione a cura di The Pottery Press 2020. Immagine di copertina, design e foto a cura di Liz MAthews.