Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015 € 14,00
raffaele taddeo
Jhumpa Lahiri ha scritto un libro encomiabile per sincerità e correttezza. Chi tratta dell’insegnamento della lingua italiana agli immigrati stranieri e della loro fatica di apprendimento conosce benissimo come il cammino di acquisizione, comprensione e manipolazione della lingua italiana, in genere di ogni lingua non materna, sia lungo, tormentoso non privo di insidie e di trappole che solo col tempo si appianano. La lettura del libro In altre parole mi ha riportato alla mente il lungo percorso fatto con Abdelmalek Smari quando tradusse da sé Fiamme in Paradiso, che aveva inizialmente scritto in arabo, o quando tradusse La battaglia dello stretto (non conosco il titolo in arabo) di Rachid Boudjdra. Il mio compito allora fu quello di intervenire per riportare lo scritto di Smari nell’alveo di una comprensione da parte di un italiano, saltando completamente il problema della proprietà terminologica, conquista che sarebbe arrivata successivamente.
Le varie metafore di cui è costellato il testo di Jhumpa Lahiri denotano meglio di ogni altra descrizione la graduale metamorfosi (non è un caso che uno dei testi preferiti dalla neo scrittrice italofona sia stato Le Metamorfosi di Ovidio) che avviene in una persona quando man mano si attraversa il lago profondo di cui è costituito un fatto linguistico.
Chi ha seguito negli anni il fenomeno della Letteratura italiana della migrazione, che io ostinatamente continuo a chiamare Letteratura nascente, sa come i vari autori più volte si siano espressi sul fascino che la lingua italiana, la lingua di Dante, abbia esercitato nei loro confronti. Christiana de Caldas Brito già in uno dei racconti pubblicati verso la fine degli anni ’90 (Chi) sottolineava ad esempio come spesso avvertisse la durezza del suono duro (chi, che, ca…, ecc.) rimanendone un po’ turbata tanto da averne fatto oggetto di un racconto. Ma anche altri autori da Julio Monteiro Martins a Tahar Lamri manifestano in modo inequivocabile l’alto grado di cooptazione che la lingua italiana ha esercitato su di loro.
Jhumpa Lahiri nelle prime pagine del suo testo mostra proprio l’incantamento che provò per l’italiano insieme alla visione dei monumenti architettonici a Firenze nella visita che fece in quella città ai primi degli anni ’90. Innamoramento che poi col tempo l’ha portata a voler impadronirsi completamente della lingua parlata e scritta in un territorio che è stato patria e culla di cultura letteraria e specialmente di ogni altra forma artistica.
Molte altre riflessioni possono essere fatte a partire da quelle che Kafka aveva già fatto nel descrivere la sua modalità di espressione linguistica del tedesco di Praga, modalità linguistica che Deleuze- Guattari chiamano attribuiscono alla “Letteratura minore”. Ma anche riflessioni rispetto al meticciamento linguistico. Infatti ritengo che sotto molti aspetti chi si impossessa nel tempo di un’altra lingua non materna, finisca per costruirsi una sorta di lingua altra perché inevitabilmente produrrà scarti linguistici dovuti non tanto alla competenza grammo-sintattica acquista, che può essere correttissima, ma piuttosto al colore della lingua che viene percepita sempre attraverso il filtro con cui si è appreso il colore del suono della lingua materna, inalienabile perché associato al sapore del latte della madre e al suo volto.
5 Febbraio 2015