Incomincio da una domanda che solitamente pongo alla fine. Che idee ti sei fatto della rivista on-line el – ghibli? Pensi che abbia ai nostri tempi ancora una funzione? –
Innanzitutto porrei un interrogativo sulla funzione delle riviste letterarie negli ultimi tre decenni. È difficile dare una risposta breve, però pensando alle riviste di un certo rilievo direi che condividano il destino della letteratura con la ‘elle’ maiuscola, cioè la vita ai margini di ciò che a noi piacerebbe considerare cultura. E la cultura – però e purtroppo – ormai è paragonabile ad un mosaico le cui particelle più volgari sono le più attraenti alla maggioranza dei ‘consumatori’ (oppure della ‘clientela’). Un mio vecchio amico una volta mi scrisse di vivere la sua scrittura come cammino per i sentieri della foresta in cui echeggiano i rumori delle motoseghe e pochi si sforzano di sentire il canto delle allodole … Chi oggi scrive pensando di scrivere letteratura non dovrebbe essere incosciente di questo fenomeno perché, se diversamente, sarebbe come quegli autori del ‘centro’ incoscienti (o furbi?) della decadenza, da me già da diversi anni vista come l’editorismo. Che ironicamente può essere considerato ‘la corrente letteraria dell’inizio del XXI secolo’, che in realtà è quell’ insieme di profitti delle grandi casi editrici , di recensioni ordinate ai giornali e ai media e di vanità degli autori … Dico autori, non scrittori – perché l’autore è pure colui che mette a posto un elenco telefonico. Parlo quindi di chi, essendo nel ‘centro’, non si accorge del declino appena descritto, quindi lo vive in modo diverso – perché non dire allegro … Chi sta nel ‘centro’ tuttavia si infischia delle riviste: non profitto, no party! Cosciente della ‘vita ai margini’ forse di nuovo parlo sulla dominazione della Subcultura? Che non è soltanto reality o la Rete dominata dalla banalità, ma ritengo sia quell’insieme di consumismo, di conformismo, di concetti del benessere e di assenza della resistenza a tutto ciò che sta deformando il nostro essere. I recinti di filo spinato che stanno trasformando l’Europa in un lager credo siano solo la punta di questo iceberg. E’ un discorso pessimista? Non credo, perché El – ghibli e altre iniziative editoriali di resistenza culturale stanno facendo il possibile in un mondo il cui volto, come mai nella storia della civiltà umana, viene cambiato dall’immigrazione e dall’incontro con il diverso.
A partire dalla tua esperienza puoi parlare della situazione degli intellettuali che sono arrivati in Italia come profughi, rifugiati e/o clandestini. Vengono accettati? Viene data loro la possibilità di esprimersi? Qual è il loro rapporto con le case editrici? –
Son convinto che si pensi agli intellettuali e non agli esperti vari ai quali non è chiaro che essere intellettuali non vuol dire solo lavorare con la testa… A mio avviso chi voleva e chi vuole esprimersi, trovava e trova un modo. Quindi, era ed è possibile esprimersi in questo paese. A questo punto viene aperta la questione delle conseguenze – l’Italia è un paese di varie fraternità, inclusi i cosiddetti scrittori migranti … Rapporto con le case editrici? Nel mio caso non avrei delle ragioni per lamentarmi anche se sinora mi hanno pubblicato solo editori piccoli. Però, notando che vengono pubblicate numerose opere degli autori stranieri che vivono in Italia, direi – forse in modo approssimativo – che sia un fatto positivo … Naturalmente, la problematica è complessa, ogni editore deve sopravvivere, ciascuno degli autori non scrive per il cassetto …
La tua produzione letteraria è aumentata in Italia o è diminuita? Cioè sembrerebbe che mentre in Bosnia tu fossi più un intellettuale che interveniva anche a volte sul piano letterario, in Italia la tua produzione scritta si è maggiormente focalizzata nella letteratura (poesia, narrativa, teatro). Se questo fosse vero, ciò dipende dal fatto che non hai voce come intellettuale in Italia ed allora la letteratura può essere diventata un rifugio o una necessità compensativa? –
Partirei dal fatto che anche in Bosnia scrivevo quasi ogni giorno, non pensando allora come non penso pur oggi alla quantità dei ‘prodotti’. La vostra domanda torna inevitabilmente a quel ‘qualcosa’ di tematico e pure stilistico, cioè al cambiamento radicale causato da due fenomeni: la guerra civile nel mio paese e la condizione dell’immigrato, nel mio caso profugo, disertore, esule, traditore di più di una patria. Gli anni ottanta nel paese per me da tempo hanno il significato di officina preparatoria, in cui, scontento del ‘prodotto’, anche bruciavo degli scritti. È accaduto che proprio alla fine degli anni ottanta incominciai a sentirmi più sicuro, soprattutto come narratore. Ha voluto il ‘caso’ che quel vero io narrativo sia stato edito in un paese straniero. Certo, mentre scrivo mi sento meglio che dopo, quando mi sembra di essere uscito da un rifugio. Pare che siamo già in un racconto?
Venendo alla tua attività di scrittore. Ti senti più un poeta o un narratore? –
Quando ero giovane, meglio dire ‘issimo’, tenevo alla poesia e alla scrittura poetica, molto. Con il tempo mi sono avvicinato sempre di più al radicalismo, a mio avviso non del tutto soggettivo, di Witold Gombrovitz, scrittore e intellettuale polacco per diversi anni in esilio in Argentina. Egli pensava ‘contro la poesia’ perché essa non è in grado di rispondere al dolore. Molti anni fa, volendo dire ‘qualcosa di più’, avevo scelto un discorso lirico vicino alla narrazione. Così intendevo dare un risposta a tutto ciò che sentivo e pensavo … Mi sento più narratore e voglio restare narratore che non accetta nessun editing. Due anni fa mi è stato chiesto un racconto sugli alberghi a ore, per un’antologia su quel tema. Va bene, dissi. Poi mi viene chiesto di cambiare dei dettagli, come pareva bene all’editore. No editing, no party? Avevo scelto no party … In realtà si trattava di una delle osservazioni più … Stupide? No, direi più interessanti fra le molte sinora sentite: ‘Nel contesto dell’antologia stonerebbe per concentrazione di situazioni che non hanno luogo nella camera. Il lettore rischia di perdersi... ‘ Ritengo che il ‘caso’ sia indicativo anche nel contesto delle tendenze ad omologare la letteratura. Nel mio racconto non trattavo di una camera per sé, mi occupavo di più del flusso narrativo che si disperdeva nel tempo e collegava i destini dei personaggi. E quel giorno in cui scambiavo dei messaggi con quell’ editore mi accorsi che ciascuno ogni gatto nel mio cortile miagolava a modo suo. Quindi, i gatti non si lasciano alle omologazioni.
Pensi che ci sia stato un cambiamento di registro culturale e/o formale tra la produzione fatta in Italia e quella del periodo bosniaco, oltre naturalmente a quello dovuto all’avanzamento in età? Se sì in che cosa pensi sia avvenuto tale cambiamento? –
Certamente, la guerra e tutte le sue conseguenze hanno cambiato il mio sguardo e i sentimenti pure sull’importanza della poesia e dell’arte nel suo complesso. Non era facile incominciar a capire che nel fondo della Storia non è il Bello, né il Buono; il Bello e il Buono sono quelle luci strane alle quali voltiamo i nostri occhi sperando che il mondo in cui viviamo possa essere diverso. Ripeto – sperando … Così, in modo volgarmente breve, vi spiego come sono nate le mie ‘non poesie’, per più di qualcuno ‘prodotto’ di qualche mio snobismo – ma sorrido anche oggi su queste considerazioni … Se devo ‘classificarmi’ all’interno dell’immigrazione in Italia, sono stato fra i privilegiati: accolto dalle persone diventate amiche, 25 anni fa non avevo vissuto nelle caserme trasformate in campi per profughi. E potevo dire: Io sto meglio, me ne frego? Ciò era una delle ‘cose’ decisive per il mio ‘registro della Storia’… Si tratta, innanzitutto, dell’empiria prima e dopo 1992. Poi, si può fuggire dalla patria, ma la fuga dalla memoria, almeno per me, è rimasta un’impresa impossibile. La memoria e l’empiria sono gemelle sia del cuore che della mente. E la domanda che a questo punto viene aperta è semplice: posso dimenticare; posso dire che nulla avevo sentito sulla mia pelle e chiudere occhi come se nulla fosse toccato agli altri? Quindi? Chi sono se dimentico da dove vengo e perché non vivo più là, chi sono se non rivelo la mia empiria e la mia memoria che nella narrativa che scrivo non può portare il segno di un ‘io’ solo a cui, tra l’altro, non serve nessuna fantasia perché la realtà è già abbastanza fantasiosa? Non c’è un registro semantico da cui, anche se ho ottenuto la cittadinanza italiana, vorrei togliere né l’attributo, né la condizione dell’immigrato. Ciò sarebbe come lo era per quel profeta dimenticare Gerusalemme. Certamente, c’è chi la pensa in modo opposto, ma scrivere nell’illusione di essere ‘un altro’ per me non ha nessun senso perché – ‘integrato’, ‘accettato’ o ‘tollerato’ – sei ciò che sei: straniero, immigrato, extracomunitario e lo sei su quella infinita scala delle sfumature di colori che ti sembrano più vicini, lo sei ma non devi piangere, né lamentarti con gli altri – lo sei ed è la tua condizione come lo è per milioni in questo mondo. Ciò inevitabilmente lascia delle tracce visibili in tutto ciò che scrivo. Con ogni anno che passa, l’empiria cresce ed aumenta, tale quale è – con i suoi lati diversi. Tuttavia, essa non sposta il mio interesse principale, quello per l’uomo sorpreso dalla Storia …
Dalla lettura delle tue opere sembrerebbe che sia progressivamente avvenuto un maggior senso di sfiducia nel fatto sociale, nella possibilità di una svolta positiva nella storia dell’uomo. Ne Il sogno di Orlando tale sfiducia è palpabile e sembra quasi che non ci sia possibilità nell’uomo di una sua emancipazione positiva sempre racchiuso nelle sue piccolezze egoistiche che poi sfociano sempre in guerre. Ti ritrovo in questa affermazione? –
Esatto! Firmerei questa constatazione … E non mi lamento perché quel mio testo non è mai stato messo in scena. Non so se la colpa maggiore sia della biblioteca dei libri letti o della mia empiria. Certo, credo di più ai pessimisti nel pensiero e nella letteratura, perché solo il pessimismo maturo potrebbe darci la spinta per tenere aperti i nostri occhi e nel buio della realtà cercare il senso della luce, quindi della solidarietà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale e del rispetto reciproco … Quel testo teatrale è frutto del mio sguardo sulla rassegnazione epocale di chi ha lottato per la pace, di chi ha marciato pacificamente e di chi vede lo stesso primato darwiniano che prepara e fa nuove guerre come risposte alle questioni di interesse generale. Uno scrittore si può permettere questi interrogativi? Dico una falsità mentre scompaiono intere città sotto i bombardamenti, le file interminabili di profughi si muovono via mare e via terra e non sentiamo né vediamo la pace né come parola né come realtà? Però non sentiamo neppure il termine profitto, che viene sempre nascosto, tante volte sotto la bandiera dei diritti umani e della democrazia … No, non c’è emancipazione vera, c’è solo quell’illusione per pochi, paragonabile a quella della vita nel ‘mondo migliore’ criticata dal vecchio Voltaire. Ora non lasciatemi proseguire! Soprattutto sull’egoismo, che è diffuso anche fra gli immigrati, dalle forme striscianti a quelle evidenti!
In non pochi scrittori migranti la produzione nella lingua del paese ospitante è stata vissuta come fatto di liberazione personale quasi che la scrittura nella lingua materna fosse stata per loro un vincolo, un legame che li aveva lasciati poco liberi anche nei contenuti da affrontare. In te pare che questo processo non avvenga e che anzi tu preferisca sempre e comunque scrivere prima nella tua lingua materna e poi piuttosto che tradurti, farti tradurre. Quali sono le ragioni del tuo profondo ancoraggio alla lingua materna. –
Su questa ‘liberazione’ chiedete a chi si sente liberato e svincolato … Privo di quei ‘vincoli’ non mi sentirei libero. Tuttavia, non tornerei a quel profeta e all’oblio della sua città, quindi a quello scudo della memoria senza cui non avrei saputo chi sono. Toccherò più volentieri un cosa ‘tecnica’: non riesco a piegare bene i bastoncini della lingua se non è quella che conosco meglio. Ed è una lingua strana, stranissima – sparita dagli standard linguistici dei paesi sorti dalle rovine della Jugoslavia. Il mio serbocroato, da tempo solo serbo, croato, bosniaco e montenegrino , è il mio jiddish, quindi una lingua che sparirà con la mia generazione … La mia vita da scrittore in Italia la devo ad Alice Parmeggiani, professoressa e traduttrice, che credeva in ciò che scrivevo e traduceva le mie cose. Sarebbe stato difficile pubblicare tutto ciò che scrivevo senza lei, anche se mi va, direi abbastanza, scrivere saggi, articoli, a volte anche racconti e testi teatrali in lingua italiana. Però io son io in quell’unica lingua che conosco.
Una delle metafore che spesso proponi è quello della finestra. Ma questo simbolo pare quasi un ossimoro rispetto al pessimismo che imperversa nelle tue opere. Che dici al riguardo? –
Una volta, durante una presentazione del libro ‘La chiave sulla mano’, qualcuno del pubblico mi diede dell’ideologo perché mi esprimevo troppo sulla realtà circostante, soprattutto sull’ethos basilare. Ma la mia era ed è una domanda: Possiamo vivere privi della nostre finestre interne? Possiamo esistere se tutte le nostre finestre esterne sono mobili? So bene che viviamo, da tempo, su quel tapis roulant, ma chi siamo se non ci sono almeno alcune finestre immobili, almeno sull’ethos invendibile e sul logos che ci insegna che ogni progresso non è a misura dell’uomo? Ripeto anche in questa occasione: sono pessimista, ma combattente. Ciò comprende un prezzo, ma è meglio descriverlo in un racconto che in un intervista.
Quando scrivi in italiano trascini qualcosa dalla tua lingua che immetti poi nella nuova oppure i campi linguistici sono così separati da non subire contaminazioni di sorta? Quali elementi culturali propri di un bosniaco vengono inseriti nella produzione dei testi letterari fatti in Italia? Hai la percezione che i tuoi scritti devono avere lettori italiani e per questo fatto porti dei correttivi oppure ti mantieni fedele ad una tua linea produttiva indipendentemente dal pubblico dei lettori? –
L’inizio della mia scrittura in italiano era segnato in tutti i sensi dalla mia lingua materna. E non andava bene, anche se ai miei amici, disponibili a darmi una mano, sembrava un fenomeno ‘interessante’. Ciò qualcuno chiama contaminazione? Se lo è, credo che parta proprio dalla prima fase dell’apprendimento della nuova lingua e a volte potrebbe produrre una ricchezza lessicale. Ricordo quando, in relazione al termine ‘negritudine’ di un grande poeta, mi era venuta la parola ‘immigritudine’ … Certamente, oltre ad un intreccio dei termini di due lingue, viene come normale di non insistere sulla linea di divisione fra la mia prima e la mia seconda lingua … Poi, mentre scrivo, non immagino nessun lettore, perché se, ad esempio, immaginassi i lettori che leggono le opere che sono prime classificate nelle librerie – lascerei la scrittura … Ciò non vuol dire sottovalutare i lettori, ne ho pochi ma attenti … Se in italiano scrivo i racconti, certamente che perdo tante cose – a volte di più il ritmo. Poi, senza le correzioni di qualche buon anima amica non riesco a ottenere un buon risultato. Concludo – sono rimasto l’uomo delle radici di un paese che davvero fa parte del confine fra l’Oriente e l’Occidente, probabilmente strano ma spero non strabico.
Segui una disciplina nello scrivere o lo fai secondo i momenti ispirativi? –
Scrivo quasi ogni giorno, anche se a volte mi trovo nelle difficoltà di scegliere fra le versioni del testo. A volte passo una mattina su mezza pagina. Tuttavia, mai mi alzo dal tavolo come un infelice. Stanco sì, ma infelice no … Ci sono molte altre cose che potrebbero farci tali. A volte dico a me: Se non c’è nulla da ‘dire’, si possono osservare le nuvole o potare un albero da frutto. E leggere, pure. Come da sempre…
Che progetti hai per il futuro sul piano della produzione letteraria? –
Innanzitutto vorrei lavorare sul ‘materiale’, cioè sistemare e finire tutti gli scritti non finiti e riprovare con alcune edizioni bilingue.