Vera Lúcia de Oliveira
lacarnequandoèsola
Società editrice fiorentina 2011
raffaele taddeo
“forse in qual forma, in quale /stato che sia, dentro covile o cuna,/è funesto a chi nasce il dí natale”. Termina così Leopardi la poesia “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, affermando inequivocabilmente che la felicità non può essere una prerogativa dell’uomo, ma neppure degli animali. Tutti coloro che nascono non possono che essere infelici, perche la Natura li condanna all’infelicità.
“cosa si sa del dolore? È l’energia del mondo/ il cardine dell’universo tutto si muove macinando sgretolando/ la ruggine è il dolore delle cose la polvere è il dolore della terra / mi sai dire che cosa si muove senza causare la benché minima/lacerazione contrazione ferita rattoppo rappezzo pietoso?” sono questi i versi con i quali Vera Lucia de Oliveira esprime la sua concezione del dolore.
Leopardi poneva due campi: la natura e gli esseri vitali, la prima causa dell’infelicità, la seconda condannata alla infelicità. Vera Lucia de Oliveira coinvolge tutti nella medesima condizione. Tutti quanti, esseri animati, inanimati, la natura, hanno in comune la sofferenza. Si tratta di un pessimismo radicale, esasperato che non trova conforto da nessuna parte. Dice in un’altra poesia: “dal dolore sono nato come ogni essere/ ma quello mi è rimasto attaccato/ ho provato a vivere, camminare / un cordone mi teneva stretto/ ed io non ho potuto assaggiare / l’ebbrezza del distacco”.
La voce narrante è maschile proprio per allontanare ogni possibile riferimento di quello che si legge ad elementi biografici della poetessa. La sofferenza, sembra voler affermare, è un fatto che esula dalla singola persona e coinvolge tutto.
In questo contesto di dolore ogni fatto positivo scompare, si dilegua, ogni bellezza si liquefa e viene assorbita dal dolore stesso: “quanto era bello il mare azzurro d’estate il vento/ fra i corridoi il bianco nelle case illuminate dal sole/poi ho visto le cose sformarsi e mettersi a soffrire / come se si fossero pentite della loro felicità”.
Ogni speranza viene meno anche quella di una vita diversa nell’al di là: “…io qui /mi sono stancato se parto qualcuno/ mi deve pur garantire che non / dovrò ricominciare daccapo”.
Temi costanti in questa silloge ove si disanima il dolore da tutte le parti, in ogni possibile pertugio, sono la morte e l’amore. La morte che si accompagna ad ogni cosa ed è simbolo stesso della sofferenza. Ma anche l’amore entra come argomento nei versi di questa raccolta. Là dove l’amore è argomento presente, si sente la nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto compensare la condizione esistenziale dell’uomo, avrebbe potuto portare un po’ di felicità, ma anche l’amore tradisce quest’essere così “affamato” di felicità, perché al massimo se lo trova dimezzato quando aspirerebbe a trovarselo sempre affianco, unica consolazione per il dolore che lo investe da quando è nato.
La poesia presente in lacarnequandoèsola è di una forza che colpisce, che ti lascia stordito per la violenza e verità con cui si propone. Non fa sconti di alcun tipo, non dà tregua, non ti lusinga, ti tiene sospeso su un filo e dopo tutto capisci che ti rimane solo la poesia e che unica consolazione è quella di rileggere e risentire dentro i versi l’eterna verità che solo la poesia può darti.
Si tratta di brevi illuminazioni, quasi epigrammi intensissimi che condensano però una saggezza e sapienza che viene da lontano, da riflessioni costanti e continue.
E’ possibile cogliere la concezione poetica di Vara Lucia de Oliveira attraverso la poesia dedicata a Sandro Penna. In essa si legge: “annusava ogni cosa guardava/ era capace di vedere quello/ che gli altri non vedevano”. Seppure riferiti al poeta perugino questi versi esprimono invece la sua intenzione poetica, cioè “vedere nelle cose quello che gli atri non vedono”, perché questo è il compito del poeta e la sua missione sociale e rivelare e comunicare agli altri ciò che ha visto più di loro.
Una particolare attenzione va posta nella organizzazione formale presente in questa raccolta, che mi sembra molto diversa da altre raccolte, perché più intensa, ma anche diversamente organizzate.
Innanzitutto vi è una varietà di forma poetica. Si va dal verso libero a quella che Carmine Abate chiama “proesia”, cioè una poesia scritta in forma di prosa, ove manca il verso. Questa modalità rende più libera l’espressione e non costringe la poetessa a stare all’interno di schemi. Ma ciò che colpisce maggiormente è l’uso dello enjambament. Non mi pare che nelle altre raccolte poetiche questa figura retorica fosse così abbondantemente adoperata. E’ lo stesso tema della raccolta che induce spontaneamente o anche riflessivamente ad usare la frattura del verso per significare con maggiore forza l’impossibile linearità del dolore che è sempre una frattura anche e specialmente fisica oltre che morale e spirituale. Ma anche altre forme poetiche sono presenti in maniera più o meno articolate, così l’anafora, l’allitterazione che quando è bene usata costruisce col suono l’idea portante del verso. Si prenda ad esempio il verso “fra fitte più fonde che strappano”. La ripetizione del suono “f” sembra acuire, far penetrare maggiormente il senso della sofferenza (è difficile non pensare che qui ci sia quasi una citazione di Pascoli che in verso dell’Assiolo si esprime con queste parole “fru fru fra le fratte” ).
Un’ultima considerazione. Di tanto in tanto, così come avveniva in Leopardi che nel mentre considerava la Natura la matrigna, poi innalzava versi alla natura di tale bellezza da strappare lacrime, così anche in Vera Lucia de Oliveira alcune poesie riconciliano con la vita che offre tali malinconiche bellezze. Mi riferisco a quelle ove vengono richiamate le rondini che metaforicamente rappresentano forse meglio di altri uccelli l’uomo e la sua esistenza dolorosa perché le rondini volteggiano in alto verso il cielo, lo attraversano, poi vanno alla ricerca di altre primavere e poi ritornano a portare nuove primavere. L’uomo aspira ad una vita elevata, emigra per cercarla, ritorna per riproporsela.
26-11-2011