Recensioni

Lacarnequandoèsola

Vera Lúcia de Oliveira
lacarnequandoèsola
Sociatà editrice fiorentina 2011

Antonella Giacon

È difficile parlare del libro La carne quando è sola, di Vera Lúcia de Oliveira (Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2011), anche se i libri di Vera non sono mai stati facili, perchè un tratto caratteristico di tutte le sue opere è che non viene fatta alcuna concessione. Nessuna consolazione, nessuna facile scappatoia, nessuna benevola speranza. È una poesia che ti mette al muro, che non dà scampo. Eppure è sempre presente in ogni sua creazione da che lo ricordi una tenerezza struggente e ruvida al tempo stesso che ti raspa la gola. Quel temere che la voce si spezzi ancor prima di farsi parola e che rende rauco il suono ancora prima di iniziare a parlare.
Il dolore nei suoi diversi aspetti, nelle sue più diverse sfaccettature, è un tema già molto attraversato nella sua poetica precedente, ma in questa ultima raccolta ci inoltriamo ancor più, andiamo oltre là dove sembra esista solo il silenzio, là dove all’apparenza “la carne è sola”. Sola perchè non possiede più parole per dirsi, perchè non ne ha ancora, perchè diviene testimonianza visibile del mistero dell’esistenza che non ha bisogno di esplicitarsi, esiste in sé e per sé:

“dalla finestra sentiva il rumore del vento
la vita nel ventre pulsava
i rami sul vetro come unghie
appuntite laceravano la luce
convocavano Dio per vedere
la carne quando è sola” (p. 23)

Vera sfida i limiti dell’inesplicabile così come fa ogni vero poeta perchè sa che questo è il suo compito, un compito amaro, ma necessario. Avevo letto anni fa queste poesie, le avevo apprezzate ma a una sua richiesta di commento le avevo detto che mi sembravano senza speranza, come se le esistenze di cui parlavano, che pur riconoscevo nella loro verità, risultassero alla fine un po’ monocordi nella loro assenza di luce. Ora, a distanza di alcuni anni, posso dire che avevo colto solo l’aspetto più superficiale del suo lavoro. Ma cominciamo, per chiarire meglio il contenuto del libro, con i versi scelti per l’introduzione, tratti da una poesia di Antonia Pozzi: “Sorelle, a voi non dispiace/ ch’io segua anche stasera/ la vostra via? (…) solo ascoltando le vostre anime andare -/ solo rubando/ con gli occhi fissi/ l’anima delle cose (…)”. Questo ascolto delle anime dunque è la chiave d’accesso per entrare nella poesia di Vera, anime che hanno già parlato in altri libri, primo, tra quelli che mi vengono in mente, Nel cuore della parola. La modalità espressiva è molto simile, ogni poesia racconta un brandello di esistenza, a volte enigmatica, a volte straziante, tenera, innocente, rabbiosa, che Vera sembra cogliere quasi al di là della propria volontà, come se queste presenze l’attraversassero con l’urgenza di trovare il modo di esistere, di fronte a sé stesse, di fronte al mondo, utilizzando la sua bocca, la sua capacità di partorire parole. Parole di carne dunque, che riescono a raccontare la vita, laddove la vita pare presentarsi totalmente denudata, priva di ogni decoro e finzione. E forse proprio per questo motivo queste poesie lancinanti possiedono uno straordinario fascino: il fascino della verità ultima, quella della vecchiaia, che attende la morte o sembra non distinguersi dall’esistenza delle cose se non per il dolore che la pervade incessantemente:
“non aveva vissuto abbastanza?
ora basta voleva morire nessuno
dovrebbe attendere tanto la morte
nessuno dovrebbe contare i minuti
fra fitte più fonde che strappano
alla vita decente che differenza
c’era fra lui e il letto se non
che lui sentiva il dolore?” (p. 27)

O quella della nascita che non possiede parole, ma urla indecifrabili:
“alla mamma non posso dire che la luce mi urta
da lei ho preso gli occhi da lei ho preso il modo
di aprire gli occhi da lei ho preso persino il modo
di non stare in silenzio nel muto” (p. 28)

Ecco quindi che il filo delle storie/testimonianze si srotola secondo una coerente geometria che ha nel dolore il centro del labirinto. E così come al centro del labirinto nel mito era posto il Minotauro, un essere talmente mostruoso e pericoloso che perfino suo padre decide, non si sa quanto pietosamente, di nascondere, anche noi troviamo ciò che mai vorremmo vedere, ciò che abbiamo cercato di nascondere, di eludere in mille modi, di addomesticare senza riuscirvi e che nonostante i tutti nostri sforzi continua persistente a ferire, lacerare, offendere, marchiare:
“cosa si sa del dolore? è l’energia del mondo
il cardine dell’universo tutto si muove macinando sgretolando
la ruggine è il dolore delle cose la polvere è il dolore della terra
mi sai dire che cosa si muove senza causare la benché minima
lacerazione contrazione ferita il rattoppo il rappezzo pietoso?” (p. 30)

Il dolore non si accetta, si vive, eppure è anche la chiave di volta della creazione, sembra dirci Vera nelle sue poesie sulla poesia, quel lampo accecante, quella che Sandro Penna definiva “grazia fulminante”, per cui si vive con l’esatta percezione della mancanza, rendendo la parola espressione della ferita:
“dicevi la poesia è un lampo
la vedi ti acceca questo è il bello
e il brutto che la vorresti sempre
che vorresti quella vita vista
non quella che bisogna vivere
in attesa” (p. 42)

E forse la bocca stessa, attraverso cui la parola passa, è una ferita aperta e le parole vengono, non letterariamente, scritte col sangue delle vene che batte nel movimento della mano. Realtà che viviamo istante per istante e di cui proprio per questo non siamo consapevoli. E ancora dolore chiama dolore, il dolore subito spesso diviene dolore inferto, trasmesso, attraverso la rabbia, il rancore, l’odio. Ma mai si perde il senso della sostanza, non stiamo parlando di un fastidioso sentimento astratto, ma di un cibo da masticare e rimasticare senza fine, mentre il desiderio si esprime come un’insaziabile fame. Bocca, sangue, stomaco, vene, ecco come il corpo si racconta e come Vera sceglie di farlo parlare, senza dimenticare l’appartenenza. Forse questa “estrema solitudine” in realtà deriva da un responsabile disconoscimento che viviamo dell’origine comune di tutti noi, da un corpo di donna, un corpo per secoli denigrato e vilipeso. Forse ancora dentro di noi rimane intatta la possibilità di sentire, percepire e riconoscere l’esistenza degli altri attraverso un alfabeto sottile, quasi impercettibile, che i poeti a volte riescono a decifrare e a restituirci, intatto e prezioso, come in questo libro.
24-11-2011

L'autore

Antonella Giacon