Interventi

Materiali 2

Mondi possibili

Fingere

 

SPUNTO 1

Autopsicografia

Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.

F.Pessoa, in A.Tabucchi (a cura di), Il poeta è un fingitore, Milano, Feltrinelli, 2001

SPUNTO 2

Ora son solo. Oh. che ribaldo, che schiavo miserabile son io! Non è mostruoso che questo attore qui, solo per finta, per un’estasi di una passione, possa talmente forzare l’anima sua con la sua propria immaginazione che, per opera di quella, tutto il suo volto si sbianchi, vi siano lagrime nei suoi occhi, smarrimento nel suo sembiante, la voce gli si spezzi e tutta la sua azione scenica trovi gesti rispondenti alla sua immaginazione? E tutto per nulla! Per Ecuba! Che cosa è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, che debba piangere per lei? Che farebbe costui se avesse il motivo e lo spunto alla passione che ho io?

Shakespeare, Amleto, Atto secondo, monologo finale della Scena seconda, Torino, UTET, 1962, pp. 169-70

NOTA e SCHEMA

Raccontare storie, inventare mondi possibili non sono operazioni per sfaccendati.
1. Un mondo possibile non è un mondo falso. Crearlo non significa rinunciare al mondo reale, ma far finta che ci sia quello che già c’è. Rendere verosimile quello che è vero (o immaginabile quello che è inconcepibile) aiuta ad avere mano libera nel rappresentarlo.
2. Un mondo possibile non è un mondo solipsistico, di chi si chiude in se stesso. Ciò che l’autore mette nella pagina prende senso solo da ciò che il lettore ci mette di suo. È sempre il risultato di due intelligenze e sensibilità. È sempre il frutto di una contaminazione. Infatti ogni testo, prodotto nel contesto dello scrittore, è attualizzato, capito dal lettore in base all’enciclopedia del suo tempo (e del suo mondo). Sono le coordinate culturali, estetiche e valoriali di chi legge a fornirgli le inferenze, le integrazioni e le aspettative necessarie a intendere e valutare quanto è scritto.

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ESERCIZIO

 

Produrre “l’effetto finzione”. Provare a scrivere una pagina di diario, registrando quello che ci è accaduto in una giornata. Il testo sarà scritto alla prima persona e al presente o al passato prossimo (“penso che… sono andato …”). Proviamo ora a tradurre quanto abbiamo scritto alla terza persona e al passato remoto (pensava… andò…).

La trama

Il desiderio di raccontare

SPUNTO

“… gli uomini muoiono perché non riescono a ricongiungere inizio e fine. Ciò che i mortali possono fare è dare un significato che valga per loro stessi, a eventi di cui hanno perduto la memoria e che ricordano soltanto. E uno dei modi che scelgono per farlo è quello di costruirsi degli oggetti nei quali regni piena armonia, immaginando che questa armonia rispecchi le disposizioni di un reale o possibile creatore”.

F. Kermode, Il senso della fine, Milano, Rizzoli, 1972, p.16

NOTA

Chi legge un romanzo o un racconto cerca e trova piacere soprattutto se vi individua una “trama”, un principio ordinatore, che stabilisca tra fatti e personaggi relazioni e nelle vicende una direzione, uno svolgimento e, possibilmente una conclusione. La dimensione temporale è l’ossigeno che fa vivere le storie. Il passare del tempo, infatti comporta mutamenti e questi chiedono spiegazioni, implicano la ricerca di cause, di responsabilità, mettendo in moto la macchina della narrazione. La trama di un testo narrativo, quindi, non è la sua impalcatura, ma il suo motore e ciò che la “spinge avanti” è il desiderio, o meglio, tre desideri: quello dei personaggi e dei propositi che muovono le loro azioni, quello dell’autore e quello del lettore, che vuole sapere come la storia “va a finire”.

 

ESERCIZIO

Ecco, qui di seguito, un appunto di Flaiano, scrittore e sceneggiatore di molti film di Fellini, per un racconto da lui mai scritto. Si tratta, evidentemente, di frammenti di ricordi, come fa pensare una sua nota autobiografica: “1915. Estate alla pineta. La tromba marina. Un suonatore ambulante sospettato di spionaggio. Le guardie di Finanza col fucile, sulla spiaggia. Abitavamo alla casa grande, alla spiaggia, ultimo piano” (E.Flaiano, Opere. Scritti postumi, Bompiani, Milano, 1988, pag.XLVI).
Provare a dare una “trama” a questi fatti tra loro sconnessi. Tale operazione implica anche individuare un genere di riferimento (spionistico, catastrofico, fantastico, realistico, di memoria…) e ciò dipende dagli elementi che si intende privilegiare. Ad es. Il tram a cavalli che viene portato via dal vento in una narrazione spionistica ricopre il ruolo di semplice dato coreografico, in un racconto fantastico può diventare fondamentale.

 

Scrivere un racconto. La tromba marina. (1955-56)
L’ufficiale che fa il campo 18° fanteria
Il tram a cavalli che viene portato via dal vento
La supposta spia
La signora che ospita il bambino in casa
La grande pioggia e il vento che scoperchia i tetti
La paura
Il giorno dopo: lo stabilimento scoperchiato
si trovano bottiglie dappertutto nella spiaggia e nel mare. Aria di festa, sole netto
Un fiore a tutto questo, secondo quanto dice Goethe nel racconto La Caccia. La morale segreta, poetica. Certo è nel bambino. Nella sua attenta sorpresa.

E. Flaiano, Diario degli errori, in Opere. Scritti postumi, Milano, Bompiani, 1988, p.304

NESSUNO SVOLGIMENTO

La trama come conflitto

SPUNTO

Il 13 dicembre 1975 quarantadue persone sono partite per l’isola di Giava a caccia di coccodrilli. Ventotto uomini, quattordici donne. Hanno affittato due imbarcazioni e si sono inoltrati, carichi di provviste, lungo un fiume. Arrivati sul posto, uno specchio d’acqua ai piedi di una roccia altissima e sinistra, i coccodrilli hanno rovesciato le imbarcazioni e se li sono mangiati tutti. Provviste comprese.

M. Antonioni, Quel bowling sul Tevere, Einaudi, Torino, 1983

NOTA

La macchina narrativa si può muovere sostanzialmente in due direzioni: quella del CONFLITTO e quella dell’ENIGMA.
Al centro della prima c’è un “oggetto del desiderio” (vale a dire una entità concreta o astratta a cui si attribuisce valore (può essere una persona, una cosa, un principio morale), che viene danneggiato o conteso da un antagonista, e che bisogna ripristinare, difendere, conquistare attraverso lotte.
Al centro della seconda direzione narrativa ci sono un segreto o un mistero da svelare attraverso un travaglio conoscitivo.
A) La trama come CONFLITTO. “Il gatto si distese sullo stoino” non ha la stessa tensione narrativa di “Il gatto si distese sullo stoino del cane” (dove si allude a un possibile conflitto gatto/cane e a ostacoli da superare, per raggiungere l’oggetto del desiderio: lo stoino)
B) La trama come ENIGMA: “Diversamente dal solito, il gatto si distese sullo stoino” (qui il lettore si chiede il perché di questo comportamento).
Naturalmente spesso A) e B) sono intrecciate: “Diversamente dal solito, il gatto si distese sullo stoino del cane”.
Vedremo poi le applicazioni al concetto di “cittadinanza”.

Questo asciutto appunto del regista Antonioni assume, nella sua drammaticità, una coloritura ironica, perché il conflitto, qui esplicito tra uomini e coccodrilli, si capovolge nel tragico finale, dove i cacciatori finiscono cacciati, ribaltando i reciproci ruoli di oggetto del desiderio e di antagonisti. Questo schema, che fa leva sulla competizione degli opposti, è alla base di gran parte delle narrazioni, da quella giornalistica alla politica, alla religiosa ecc. fino alla narrazione pubblicitaria, animata dalle incessanti lotte tra il pulito e lo sporco, l’economico e il costoso, il salutare e il dannoso ecc.

ESERCIZIO

Scrivere un racconto che si regga su un conflitto, evidenziando alcune sue tappe (le cause, gli scontri, la soluzione) e alcuni protagonisti (gli antagonisti, gli aiutanti dall’una e dall’altra parte)

Svolgimento

la trama come conflitto

La trama come enigma

SPUNTO

Quando si passeggia di notte per una strada e un uomo, che si può scorgere già di lontano – perché la strada dinanzi a noi è in salita e c’è la luna piena – ci viene incontro correndo, noi non lo acchiapperemo, anche se è debole e cencioso, anche se un altro lo insegue gridando, ma lo lasceremo proseguire nella sua corsa.
Perché è notte e non è colpa nostra se la strada è in salita e c’è la luna piena, può darsi, poi, che i due si rincorrano per divertirsi, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito pur essendo innocente, forse il secondo ha intenzioni omicide e noi diverremmo complici di un assassinio, forse i due si ignorano a vicenda e ciascuno di essi corre per proprio conto verso il suo letto, forse sono dei nottambuli, forse il primo è armato.
E, infine, non ci è concesso di essere stanchi, non abbiamo bevuto tanto vino? Siamo contenti di non scorgere più neppure il secondo.

F. Kafka, I passanti, in I racconti, Newton Compton, Traduzione Luigi Coppé e Giulio Raio

NOTA

Nelle trame del Conflitto il lettore proietta il suo desiderio di sopravvivenza, di successo, manifestato nello scontro dei valori e nella vittoria dell’ordine. E tale aspirazione è quasi sempre appagata. Nelle trame dell’Enigma, invece, prevale la ricerca di senso, di conoscenza: il loro seme narrativo non è il desiderio di un oggetto di valore o la riconquista di una Verità minacciata, ma il disagio per l’assenza di qualcosa, di una Verità caparbiamente cercata e raramente trovata. L’antagonista di queste storie non è il malvagio da combattere, ma l’impostore da smascherare. Quando c’è. Perché in molti romanzi e racconti, soprattutto di impronta esistenziale, il senso non è occultato da qualcuno, ma molto semplicemente non c’è. Come in questo brevissimo testo di Kafka, dove la tensione della trama non è affidata alla lotta, ma al dubbio che non trova risposte. Che cosa sta succedendo: un omicidio, un gioco, un’allucinazione, nulla? Chi è l’inseguito e chi l’inseguitore? C’è un colpevole? Di cosa? E se fossimo noi (perché il racconto è scritto alla prima persona plurale) i colpevoli? Infatti qualsiasi cosa facessimo, sbaglieremmo, qualsiasi iniziativa prendessimo, sarebbe imprudente.

ESERCIZIO

Scrivere un racconto a enigma, in cui ci sia una verità da scoprire (come in un poliziesco), un mistero da svelare (come in un racconto fantastico) o un dubbio da risolvere o con cui convivere (come in un racconto psicologico o sentimentale)

Svolgimento

la trama come enigma

Trama come colpo di scena

SPUNTO

Una donna sta seduta sola in casa. Sa che nel mondo non c’è più nessuno: tutti gli altri esseri umani sono morti. Bussano alla porta.

T.B. Aldrich in J.L.Borges, S.Ocampo, A.D.Casares, Antologia della letteratura fantastica, Editori Riuniti, Roma, 1981

NOTA

Un romanzo tiene insieme una sinfonia di temi, controlla divagazioni, digressioni nel tempo. Un racconto, in genere, sviluppa un solo tema, su cui insiste, come un ritornello. Nel racconto brevissimo (“Short short story”) come questo di T.B.Aldrich, tutto punta sull’accordo finale. Neppure il tema conta più: tutto si svolge velocemente, in poche mosse, come un gioco di prestigio, in cui l’abilità del narratore cattura l’attenzione del lettore, lo spiazza con una finta e, per concludere, lo sorprende nell’ultimo gesto. Lo stesso accade in una barzelletta, con la differenza che nel racconto brevissimo scopo non è far ridere, ma disorientare. È quello che proviamo in questo lampo narrativo di Aldrich, scrittore, poeta e giornalista di fine Ottocento (1836-1907), in cui chi legge si trova a dover risolvere le contraddizioni del testo.
Questo racconto piacque molto a Borges e a Stephen King. Ambedue lo citano, però, in una versione diversa dall’originale, che qui riportiamo, facendo notare le significative differenze nell’ordine dato alle informazioni, nella collocazione spaziale e, soprattutto, nel cambiamento di genere del (la) protagonista.
Versione originale: Imagine all human beings swept off the face of the earth, excepting one man. Imagine this man in some vast city, New York or London. Imagine him on the third or fourth day of his solitude sitting in a house and hearing a ring at the door-bell!”
Thomas Bailey Aldrich, Ponkapog Papers, a Sea Turn, and Other Matters (ed. or. 1902)

ESERCIZIO

Scrivere un racconto brevissimo, di pochissime righe, costruito in funzione del finale, in modo da cogliere impreparato il lettore.

SVOLGIMENTO

la trama come colpo di scena

Sliding doors

SPUNTO

Il contadino Pietro andò un mattino nel suo frutteto con l’intenzione di cogliere delle mele. La pianta delle mele era in mezzo a un prato e, mentre le si avvicinava, Pietro vide tra le foglie delle macchie di diversi colori: blu, giallo, rosa e viola.
– Diavolo – pensò – non ho mai visto delle mele azzurre, cosa sarà?
Giunto vicino alla pianta, il mistero diventò chiaro d’un tratto: tra i rami e le foglie penzolavano in bell’ordine dondolando al fresco vento, centinaia di pantofole.
– A chi sarà venuto in mente di attaccare tante pantofole alla mia pianta? – si domandò Pietro.
Salì sulla pianta per esaminare bene la cosa, e si accorse che le pantofole erano attaccate ai rami per mezzo di un gambo sottile, insomma che le pantofole erano cresciute sulla pianta al posto delle mele. Pietro non credeva ai propri occhi. Si pizzicò forte una gamba per sentire se era ben sveglio. Non c’era dubbio, non stava sognando.
Pietro considerò a lungo quelle strane pantofole. Ce n’erano di tutti i tipi: con il fiocco, con la fibbia, con la doppia suola, con il pelo dentro e così via. Che fare?

G.Rodari, Tante storie per giocare , Torino, Einaudi, 1979

Cfr. http://www.giannirodari.it/Microsoft%20Word%20-%20FINALI%20prima%20parte.doc.pdf (url consultato il 7/6/2018)

NOTA

La tensione che tiene insieme ciò che viene narrato si regge sulla materia oscura di ciò che non viene detto. Scopo del narratore, infatti, non è solo dare al lettore delle informazioni (come potrebbe fare uno storico, uno scienziato o un giornalista di cronaca), ma tenere viva la sua attenzione, fargli provare delle emozioni, coinvolgerlo. Per ottenere questi risultati, chi narra, da una parte cerca la complicità di chi legge le sue storie, dall’altra si prende gioco di lui, nascondendogli quello che succede, non rivelandolo al momento giusto o arrivando persino a bleffare. Tali espedienti modulano tutta la narrazione, ma si concentrano soprattutto nel finale, dove trovano il loro punto d’arrivo. Per questo molti testi narrativi sono stati scritti con delle conclusioni aperte. Ci riferiamo a romanzi, a racconti per bambini (il più famoso è senz’altro Tante storie per giocare di Gianni Rodari edito alla fine degli anni sessanta e più volte ristampato), a film (dalle conclusioni diverse pensate per differenti pubblici), a telenovelas e anche a melodrammi (ricordiamo, in proposito, i due finali del Don Giovanni di Mozart). A questa lunga lista vanno aggiunti i libri–gioco dove non solo il finale, ma tutto il filo della narrazione è ricco di bivi la cui scelta tocca al lettore. In un futuro non lontano saranno disponibili anche film interattivi, come The moment già prodotto da Richard Ramchurn (https://www.tpi.it/2018/05/28/film-controllo-mente/ url consultato il 7/6/2018), in cui, grazie a un sistema di interfaccia computer-cervello che coglie l’attività elettrica delle onde cerebrali dello spettatore, quest’ultimo può intervenire nella storia, cambiandone, a seconda del suo stato d’animo, la trama e altri particolari.

ESERCIZIO 1

“Che cosa sarebbe successo se…”. Ogni narrazione, ad ogni crocevia della sua storia, ad ogni scelta dei suoi personaggi, lascia aperta nel lettore questa domanda. Provare a raccontare i possibili sviluppi di una vicenda a partire da una sua possibile svolta..

SVOLGIMENTO

sliding doors

ESERCIZIO 2

Indipendentemente dai racconti scritti con un finale volutamente aperto, ogni narrazione si presta a sequel e a epiloghi fuori campo. Se pensiamo le storie, non importa che siano realistiche o fantastiche, come spezzoni di una vita che continua oltre il testo, le loro conclusioni sono sempre provvisorie: quante altre possibili fiabe si nascondono sotto i “e vissero felici e contenti” che le chiudono? Provare a proseguire la vicenda qui narrata da Scerbanenco.

La mamma venne a prenderla alle otto del mattino, disse subito che da basso il tassì aspettava e non aveva soldi da buttar via; lei aveva già preparato il bambino, avvolto nella soffice coperta di lana, ritaglio di una coperta più grande; la suora e il medico vennero a salutarla, perché era la più giovane puerpera della maternità, appena sedici anni e il medico le regalò una scatola di iniezioni ricostituenti da fare perché lei stava appena in piedi.
«Grazie, dottore, grazie suora, grazie», diceva sempre grazie seguendo la madre che pensava al tassametro del tassì, «grazie», il bambino dormiva quieto, tra di sé lei continuava a pensare che rassomigliava a Renato, ma non lo avrebbe detto certo alla madre, né al padre, che appena avessero udito quel nome si sarebbero sbiancati d’ira in volto, l’avevano avvertita tante volte che era un delinquente, e infatti lo era stato e l’aveva lasciata lì, con quel bambino e la madre dal viso tagliente di disperazione e di furore. Nel tassì sua madre disse, guardando il tassametro: «Alé, altre mille lire» e non guardava neppure il bambino. La portinaia che sapeva bene la storia li osservò senza dire nulla, neppure salutare. Papà venne ad aprire la porta e non disse niente, come se non la conoscesse, anche se la lasciò entrare, non guardò il bambino e lei andò in cucina, sulla branda dove aveva sempre dormito e non disse nulla neppure lei, conscia della sua disastrosa colpevolezza e solo il bambino, d’un tratto, disse che esisteva e che aveva bisogno di lei, gridando, e allora lei si aprì il giacchino e gli porse il seno, nel silenzio di padre e madre che la guardavano.

G.Scerbanenco, in La vita in una pagina, Milano, Mondadori, 1989, p. 38

SVOLGIMENTO

e poi?

Trama e allegoria

SPUNTO

C’è una signora a Loreto che ha una casa con un cortile interno e un piccolo porticato dove a primavera le rondini avevano sempre trovato il loro nido, in un buco su in alto, tra un mattone e l’altro. Un anno la signora, stanca di vedere gli escrementi sul pavimento, ha chiuso il porticato con una grossa rete di colore verde. Quando a primavera sono arrivate le rondini si sono trovate con questa recinzione davanti e non sono riuscite a entrare. All’inizio sono restate a svolazzare sul cortile, a beccare sulle maglie della rete, alcune strillavano o si fermavano a guardare dalla grondaia. Dopo un paio di giorni non ce l’hanno fatta più e sono morte stremate per la stanchezza. La signora, vedendo le rondini per terra, le ha raccolte con la scopa e le ha buttate nella spazzatura (odiava vedere il cortile sporco). L’anno dopo ha richiuso di nuovo il porticato e sono morte altre rondini. Dopo alcuni anni è morta anche la signora, da sola, in una stanza sopra il porticato. Da allora nessuno è tornato a mettere la rete, ma le rondini non sono tornate più in quel cortile.

A. Bravi, Gli espatriati, in Parole per strada, Rovereto, Il furore dei libri ed., 2010

NOTA

Nessuno, leggendo questo breve racconto, pensa che narri (solo) la storia della signora di Loreto. Quel cortile, quella rete sono portatori di un significato che va oltre ciò che verrebbe riferito in una traduzione. Il perché ce lo spiega la scrittrice Flannery O’Connor: “Un racconto è riuscito se puoi sempre vederci qualcosa di più, se continua a sfuggirti di mano. Nella narrativa, due più due fa sempre più di quattro. Credo che l’unico modo per imparare a scrivere racconti sia scriverne, e poi, in un secondo tempo, cercare di capire quel che si è fatto. Soltanto col racconto già sotto gli occhi, si può riflettere sulla tecnica. Quel che l’insegnante può fare per lo studente è esaminare il suo lavoro aiutandolo a capire se abbia scritto una storia compiuta, una storia in cui l’azione illumini appieno il significato (F.O’Connor, Nel territorio del diavolo, Roma, Napoli, Theoria, 1993, pp. 74-75, ora anche Minimum Fax, 2003 e 2010)

ESERCIZIO

Ogni scritto, nel momento in cui viene fruito come “letterario” invita il lettore a chiedersi qual è la sua ragion d’essere, qual è il suo “vero” significato. Ci sono, però, dei testi che, per convenzione, vengono letti non per quello che dicono, ma per quello a cui alludono, come le parabole o i proverbi. Pensando a un proverbio, magari del tuo paese, prova a raccontare una storia che in qualche modo lo esemplifichi.

NESSUNO SVOLGIMENTO

Il personaggio

Come costruire un personaggio

NOTA

Personaggio e lettore. Il personaggio è un catalizzatore di senso, in una doppia direzione: da una parte polarizza i significati della storia, che porta avanti lungo il suo svolgersi, dall’altra calamita l’attenzione del lettore, che nei comportamenti e nelle scelte del personaggio vede quelle di un essere umano vero, simile a lui. Il lettore, quindi, non solo “riconosce” il personaggio da un punto di vista cognitivo, ma “si riconosce” in lui emotivamente. Senza il coinvolgimento del lettore, non c’è personaggio.
Personaggio e realtà. Il personaggio è un “costrutto imitativo” della realtà, a cui si ispira inevitabilmente la sua rappresentazione, ma è illusorio e errato pensare che possa “copiare” il mondo reale. Infatti nella realtà non ci sono “personaggi”. Essi sono invece degli “esistenti” del mondo possibile della letteratura e delle sue storie, che abitano a diverso titolo. Alcuni fanno da semplice tappezzeria delle vicende, altri ne costituiscono gli ingranaggi. Ma un personaggio “vero”, con una sua personalità e complessità, come si costruisce? Vediamo in proposito alcuni consigli della scrittrice Flannery O’Connor (1925-1964) pubblicati in una raccolta di suoi scritti (Nel territorio del diavolo, Roma, Napoli, Theoria, 1993, ora anche Minimum Fax, 2003 e 2010).

SPUNTO 1. PARTIRE dal PERSONAGGIO*

Spesso in un buon racconto è proprio il carattere del personaggio a determinare lo sviluppo dell’azione. Mentre, in questi racconti, mi sembra quasi che lo scrittore abbia prima pensato all’azione, e poi rimediato alla meglio un personaggio in grado di compierla. Facendo il contrario, di solito, le cose riescono meglio. Se cominci da una personalità vera, da un vero personaggio, qualcosa accadrà per forza; e non c’è bisogno di sapere che cosa sia prima d’iniziare. Anzi, devi scoprire qualcosa di nuovo dai tuoi racconti, perché se non ci riesci tu, sarà difficile che ci riesca qualcun altro. (p.78)

ESERCIZIO 1

Questioni di dettaglio. Siamo abituati a pensare che un racconto nasca da un’idea o da un fatto; provare, invece, a costruire una storia a partire da un particolare colto in un personaggio.

SVOLGIMENTO

cfr. Costruire una storia-Questioni di dettaglio

 

SPUNTO 2. DARE CORPO*

La narrativa opera tramite i sensi… La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare… Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore (p. 66)

ESERCIZIO 2

L’aggettivo nascosto. Pensare a un tratto distintivo (contenuto in un aggettivo) che caratterizzi un personaggio e che emerga solo da ciò che fa o che dice. Alla lettura del racconto, il gruppo dovrà indovinare l’aggettivo nascosto.

SVOLGIMENTO

cfr. Sulla stessa barca – l’aggettivo nascosto

 

 

SPUNTO 3. MOSTRARE*

Scrivere narrativa non è tanto questione di dire cose, quanto piuttosto di mostrarle. Affermare tuttavia che la narrativa procede per particolari non significa limitarsi ad accumularli meccanicamente l’uno sull’altro. I particolari devono rientrare in un disegno complessivo e ogni particolare va messo al servizio dell’intento del narratore. (p.66)

ESERCIZIO 3

Descrivere (nei tratti fisici o psicologici) una persona che tutti conosciamo. Alla lettura del racconto, il gruppo dovrà indovinare di che persona si tratta

SVOLGIMENTO

cfr. Sulla stessa barca – ritratto di Fiorella

 

SPUNTO 4. GIUSTO ma INATTESO*

Mi sono spesso chiesta cosa faccia funzionare e tenga insieme un racconto, e sono giunta alla conclusione che probabilmente si tratta di qualche azione, di qualche gesto particolare, dissimile da tutti gli altri, a segnalare dove pulsa il cuore del racconto. Dovrebbe essere un’azione o un gesto assolutamente giusto eppure assolutamente inatteso; dovrebbe essere sia in carattere che fuor di carattere; dovrebbe alludere al mondo e insieme all’eternità… un gesto che trascenda… qualunque scontata categoria morale alla portata del lettore. Dovrebbe essere un gesto che in qualche modo stabilisca il contatto con il mistero (pp.82-83)

ESERCIZIO 4

Più unico che raro. Spesso la carica seduttiva dei racconti della O’ Connor  si regge su gesti spiazzanti dei suoi personaggi, che non offrono un facile significato al lettore, eppure lo chiedono. Sarà difficile riuscire in questo esercizio,ma si può cominciare provando a creare un personaggio che sia tipico nella sua unicità.

SVOLGIMENTO

cfr. Sulla stessa barca – più unico che raro
SPUNTO 5. PARLARE con PERSONAGGI e AZIONI*

Una qualsiasi espressione astratta di compassione devozione o moralità in un brano di narrativa è solo una spiegazione in più… non potete completare un’azione drammatica lacunosa aggiungendovi una spiegazione del significato alla fine, in mezzo o all’inizio… quando scrivete narrativa state parlando con personaggi e azioni, non di personaggi e azioni (p.49)

ESERCIZIO 5

Un articolo di cronaca ci parla “di” personaggi, cercando di spiegarci il perché delle loro azioni. Un racconto parla “con” i personaggi, narrando i fatti “attraverso” il loro punto di vista, cercando di entrare nelle dinamiche delle loro motivazioni . Partendo da questo spunto della O’Connor, l’esercizio consiste nel provare a riscrivere in una logica di “finzione” un fatto di cronaca preso dai quotidiani.

SVOLGIMENTO

cfr. Sulla stessa barca – il fattore umano

*Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo, Roma, Napoli, Theoria, 1993

 

Personaggio ed emozioni

SPUNTO

“Non si può creare un personaggio vivo attaccandogli qualità e difetti e deducendone poi il romanzo, bisogna invece esprimere impressioni sperimentate. Anche un’impressione semplice come la gioia è troppo complessa per essere inventata, se non ci si vuole accontentare di dire del proprio eroe «era felice», che non esprime niente di specificamente individuale. Nessuna gioia assomiglia a un’altra. È proprio questa differenza, la vita di questa gioia che bisogna esprimere […]. Bisogna esprimerla attraverso le conseguenze, le reazioni dell’individuo. E allora non si avrà neanche bisogno di dire «era felice», la gioia nascerà da se stessa, con la sua individualità, come quella gioia che si prova e che nessuna parola può esprimere perfettamente. Se si trova che la parola gioia esprime bene quella del proprio eroe vuol dire che è artificiale, che non si ha niente da dire.”

(A. de Saint-Exupéry, Lettere di giovinezza all’amica inventata, Firenze, Passigli, 1998)

NOTA

Le indicazioni di Saint Exupéry si collocano nello stesso solco tracciato da Flannery O’Connor: lo scrittore non deve parlare di emozioni, ma fare emozionare il lettore e per raggiungere questo scopo la via è sempre quella della concretezza, legata alla “individualità” che ogni singola emozione porta con sé. La tonalità emotiva di un testo, quindi, è prodotta da particolari, a volte insignificanti. Anche il ritmo della frase, fondamentale per suscitare la complicità affettiva del lettore, dipende da minimi segnali, come la virgola. Ce lo ricorda Carver (1938-1988), che a sua volta cita lo scrittore russo Babel (1894-1940): “Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto” (Il mestiere di scrivere, Torino, Einaudi, 1997, p.73

 

ESERCIZIO

Facendo tesoro di quanto osservato da Saint-Exupéry, rappresentare un personaggio colto in un suo momento “felice”.

SVOLGIMENTO

nessuna gioia assomiglia ad un’altra

Personaggio e spazio

SPUNTO

Devo cominciare col parlarle di un personaggio che lei non può conoscere: si tratta di un usuraio. Potrà figurarselo bene, quel volto pallido e scialbo cui vorrei che l’Accademia mi permettesse di dare il nome di faccia lunare? Somigliava all’argento dorato quando ha perso la doratura. I capelli del mio usuraio, grigio cenere, erano diritti e lisci, e accuratamente pettinati. I tratti del volto, impassibile come quello di Talleyrand, sembravano fusi nel bronzo. Gialli come quelli di una faina, gli occhi, piccoli e quasi senza ciglia, non sopportavano la luce ed erano difesi dalla visiera di un vecchio berretto; il naso a becco era tanto butterato sulla punta che lo si sarebbe paragonato a un succhiello. Aveva labbra sottili come quelle degli alchimisti o dei vecchietti dipinti da Rembrandt o da Metzu. Parlava a bassa voce, in tono dolce, senza andare mai in collera. La sua età era un mistero: non si riusciva a capire se fosse invecchiato prima del tempo o se avesse avuto cura di risparmiare la sua giovinezza per poterne usufruire sempre. Nella sua camera, tutto era lindo e frusto, e, dal panno verde della scrivania allo scendiletto, essa era simile al freddo santuario di quelle vecchie zitelle che passano la giornata a lustrare i mobili. D’inverno, i tizzoni del focolare, sempre sommersi da una montagna di cenere, fumavano senza dar fiamme. Le sue azioni, dal momento in cui si alzava fino agli accessi di tosse di ogni sera, erano soggette al ritmo regolare di un orologio a pendolo: era una specie di uomo meccanico, che il sonno ricaricava. Se toccate un millepiedi mentre avanza su un pezzo di carta, esso si ferma e fa il morto; similmente il nostro personaggio si interrompeva a metà di un discorso e rimaneva in silenzio, al passare di una carrozza, per non forzare la voce. Come Fontenelle, risparmiava ogni gesto vitale e concentrava tutti i suoi sentimenti umani nel suo Io. Così la sua vita scorreva senza far più rumore della sabbia di un orologio antico.

H. Balzac, Gobsek, Milano, Rizzoli, 1974

NOTA

In questo brano abbiamo un tipico esempio di narrazione ottocentesca. Oggi raramente ci si trova di fronte a descrizioni così esaustive, ma questa pagina è indicativa di due modalità di rappresentazione del personaggio. 1) Il “realismo atmosferico”. Il protagonista è come al centro di una sfera (una cipolla), da cui le fattezze del suo corpo, la sua postura, i suoi gesti, la sua voce, i suoi vestiti, i suoi oggetti, la sua stanza, la sua casa, la luce, l’ambiente in cui vive… tutto conferma i suoi tratti distintivi. 2) Il personaggio è un “tipo”, le sue caratteristiche non sono solo prerogativa di un particolare individuo, ma qui appartengono alla categoria nota nella cultura occidentale come “avaro”.

ESERCIZIO

Immaginare e descrivere l’appartamento o una stanza di uno di noi corsisti, lasciando intuire di chi si tratta.

SVOLGIMENTO

Una stanza,un personaggio.

Personaggio e tempo

SPUNTO

Non può dormire. Qualcosa lo tormenta. Ma non riesce a capire cosa. Fatto sta che da due ore si rigira nel letto, lui che, come dice Paola, dorme a comando. La guarda, addormentata sul fianco. Dalla massa dei capelli scuri, ora tinti, emerge nella semioscurità il profilo della guancia, ancora piena e morbida. I suoi grandi occhi sono nascosti dalle palpebre, ma Duccio li immagina, azzurri, appena ingrigiti dagli anni. E d’improvviso capisce. È per quel pomeriggio. Esattamente vent’anni prima. Il pomeriggio in cui tradì Paola. Con la moglie di un suo caro amico, per giunta. Poi tornò a casa, si fece la doccia, mangiò con lei, scherzò, guardarono la tv. Quando andarono a letto, lui si addormentò subito. Dunque è così che vanno le cose, pensò, al risveglio: nessun rimorso, nulla cambia. Si può tradire e farla franca, anche con se stessi. Si può tranquillamente convivere con i propri peccati.
Non l’ha più fatto. Aveva perfino dimenticato che fosse accaduto. Ora ricorda. Guarda Paola e vorrebbe urlare. Lei si sveglia, lo vede seduto sul letto. «Cosa ti succede, come mai sei sveglio?» domanda. «Ho avuto un incubo» risponde lui. «Ho sognato che ti tradivo con Franca, sai, la moglie di Giorgio.» Lei si gira dalla sua parte. Gli accarezza la mano. «Grazie per averlo chiamato incubo» dice. Lui sorride, si sdraia nuovamente. Lei continua ad accarezzargli la mano e subito lui si addormenta. Si spengono i lampioni nella piazzetta. Ora la stanza è buia. Nell’oscurità gli occhi di Paola sono aperti. Un po’ meno azzurri, un po’ più grigi.

G. Romagnoli, Navi in bottiglia, Milano, Mondadori, 1993, p.15

NOTA

A partire dalla fine dell’Ottocento, il personaggio non viene più “presentato”, ma semplicemente “mostrato”. È quello che fa e che dice, sono una cicatrice che nasconde, un particolare del suo vestito, un gesto che ripete a raccontarci di lui. Il narratore, in genere, preferisce lasciar capire piuttosto che spiegare. Tuttavia, come abbiamo detto, noi percepiamo sempre il personaggio come una persona, con dei genitori, una abitazione, un lavoro, degli amici e, soprattutto, con una vita alle spalle. Spesso questo suo passato, vissuto e non detto, potrebbe rendere chiaro il perché di certi suoi comportamenti. Su questo gioca il narratore, che utilizza i dati in suo possesso come carta vincente nella partita, fatta di reticenze, ammiccamenti e depistaggi, col lettore. Capita così che, dopo una faticosa serie di interrogativi e congetture, un flashback (in italiano una “analessi”) sveli finalmente a chi legge l’anello mancante alla sua comprensione.

ESERCIZIO

Costruire un racconto, in cui un particolare relativo alla storia passata di un personaggio venga finalmente rivelato in un flashback finale.

SVOLGIMENTO

vai a saperlo

Essere/sembrare

SPUNTO

Un giorno uscivo dal supermercato con mia moglie, che è un’italiana. Avevamo fatto tanta spesa da riempire due carrelli. Dopo aver caricato il tutto nel portabagagli della macchina, mia moglie mi spinse i due carrelli da riportare per recuperare le due 500 lire.
M’incamminavo con i miei due carrelli, quando sentii dietro le spalle un “ssst !” accompagnato da uno schioccare di dita. Mi girai e vidi un signore sulla cinquantina farmi segno con l’indice di avvicinarmi, ed abbozzare il gesto di spingere il suo carrello verso di me. Lo guardai con un’espressione che mia moglie descrisse poi come carica di lampi e fulmini.
Comunque il mio sguardo doveva essere stato eloquente, perché lo vidi trattenersi il suo carrello e portarselo per conto suo.
Senz’altro, visto il colore della mia pelle e il gesto d’affido dei carrelli da parte della mia signora, il “sciur” aveva fatto la somma deduttiva: negro + carrelli = povero extracomunitario che sbarca il lunario.
Tornando alla macchina, vidi la mia dolce metà, che conoscendo la mia permalosità, si contorceva dalle risate. Mi misi poi a ridere anch’io.
Ora ogni volta che andiamo a fare la spesa, lei mi spinge, ammiccando, il carrello con voce scherzosa: «Ehi bel negro, vuoi guadagnarti 500 lire?».

K. Komla-Ebri, Imbarazzismi, Milano, Ed. Dell’Arco – Marna, 2002, p.5

 

NOTA

L’ambiguo gioco tra l’essere e il sembrare assume una grande importanza nel lavoro dei nostri incontri. Proviamo a vederne alcune sfaccettature, utilizzando i nostri quattro scenari  della cittadinanza di cui abbiamo parlato nella Breve nota introduttiva che li precede nell’Antologia e presenti  nella parte finale di questi Materiali oltre che nello schema che la chiude. Un uomo (o una donna) raccolto da un barcone o in un centro di accoglienza potrebbe essere una persona importante, istruita, magari ricca, ma in quel contesto non è in grado di mostrarlo. Il suo essere è ridotto all’immagine che l’altro gli vuole dare.
Negli scenari di “Non inclusione” e “Non esclusione”, come in questo breve racconto di Kossi Ebri, lo straniero deve continuamente lottare col suo “sembrare”, perché il suo aspetto (colore della pelle, uso della lingua…) è costantemente oggetto dei pregiudizi dell’altro, a cui impediscono di vedere ciò che lo straniero è “veramente”. Solo nella finale situazione di “Inclusione”, ma non sempre, il migrante può essere apprezzato per ciò che è e vale. Solo allora egli può affrancarsi dalle sue apparenze o accoglierle liberamente, per assumere le identità che vuole e non quelle imposte dal pregiudizio.

ESERCIZIO

Scrivere una storia in cui l’aspetto e l’atteggiamento del personaggio non corrispondano alla sua reale identità.

SVOLGIMENTO

lei non sa chi sono io

 

Personaggio assente

SPUNTO

Invece di raccontarvi la mia storia, vi parlo dell’assenza; vi dico ciò che mi manca, i miei vuoti e i miei sogni. È perché la mia vita è altrove e perché questo altrove è incrinato dalla tristezza ordinaria che io mi aggrappo –e voi con me- ai panni della follia e del sogno.

T. Ben Jelloun, Le pareti della solitudine, Torino, Einaudi, 1990, p.70

NOTA

Certi personaggi possono essere assenti (perché morti, o attesi, o immaginati…) ma sono fondamentali nell’impianto della storia: anzi, è proprio la forza gravitazionale del vuoto da loro creato a trascinare tutti gli elementi narrativi.
Di questi personaggi si parla. Si dice, si sogna, si ricorda, si fantastica. La loro presenza-assenza incombe spesso su tutta la narrazione, magari senza mai comparire o irrompendo sulla scena solo nel finale, come Moby Dick nell’omonimo romanzo di Melville, o Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad. L’assente è fatto delle parole che di lui vengono dette. Per questo può essere immortale.

 

ESERCIZIO

Due personaggi (A e B) parlano, in un dialogo, al telefono…, di una persona assente (C), la cui identità è svelata solo alla fine del racconto.

 

SVOLGIMENTO

personaggio assente

A tu per tu

SPUNTO

Per evitare di essere scoperta ho scelto la latitanza. Per scoprire quel che voglio scoprire ho scelto la latitanza.
È notte. Sono seduta davanti allo schermo. C’è un’e-mail per me. La apro. Dice: Libertà, solo per una notte.
Anni fa saresti venuta nella mia bottega sul finire del pomeriggio, dopo aver detto a tua madre che andavi a fare una visita di carità.
Al suono del campanello ti saresti trovata sola per un momento nella bottega vuota, a guardare le armature, i soggoli, le gambiere e le parrucche sulle lance, simili a teste mozzate.
Sull’insegna c’è scritto VERDE, nient’altro, ma tutti sanno che lì dentro succedono cose strane. La gente entra indossando la propria identità ed esce nei panni di qualcun altro. Dicono che Jack lo Squartatore fosse un cliente assiduo.
Indugi, sola nel negozio vuoto. Io emergo dal retro. Cosa vuoi?
Libertà per una notte, dici. Solo per una notte, la libertà di essere un’altra.
Ti hanno vista arrivare?
No.
Allora posso abbassare le tende e accendere il lume. La pendola fa tic tac, ma solo nel tempo reale. Chi sbirciasse da fuori vedrebbe soltanto ombre vaganti: il profilarsi minaccioso della testa di un orso, il balenio di un coltello.
Dici che vuoi essere trasformata.
È qui che comincia la storia. Qui, in queste lunghe righe di Dna portatile. Qui prendiamo i tuoi cromosomi, ventitré coppie, e modifichiamo la tua altezza, gli occhi, i denti, il sesso. Questo è un mondo inventato. Puoi essere libera solo per una notte.
Spogliati.
Liberati dei vestiti. Liberati del corpo. Appendili dietro la porta. Stanotte possiamo andare ben oltre il travestimento.
È solo una storia, dici. Proprio così, e anche la vita lo è: una storia inventata, un racconto dell’orrore, un giallo, la strana storia di te e me.
L’alfabeto del mio Dna plasma certe parole, ma non racconta la storia. Devo raccontarla io.
Che cosa devo continuare a raccontarmi?
Che c’è sempre un nuovo inizio, una fine diversa.
Posso cambiare la storia. Io sono la storia.
Comincia.

J.Winterson, Powerbook, Milano, Mondadori, 2002, pp.11-12

NOTA

I personaggi hanno due modi per materializzare l’assente: o parlano “di” lui o parlano “con” lui. In un caso usano la terza persona, nell’altro la seconda. In questo modo il rapporto con chi manca si fa diretto: può svolgersi in un colloquio a una sola voce, in una preghiera, nelle lettere di un romanzo epistolare o in una serie di telefonate, di sms o e-mail… Il destinatario delle conversazioni non deve essere necessariamente un personaggio. Può essere il lettore stesso, che, chiamato in causa per ricevere le istruzioni su come affrontare la storia, finisce inevitabilmente col farne parte. Questo avviene in particolare in questo incipit del romanzo di Jeanette Winterson (1959), in cui chi legge è costretto dalla voce narrante della ambigua maga che guida le fila del testo a immedesimarsi nella protagonista e a “trasformarsi” con lei.

 

ESERCIZIO

Instaurare un dialogo con un assente (o un’assente), usando la seconda persona, in una lettera, un soliloquio, un ricordo, una domanda di aiuto…

SVOLGIMENTO

a tu per tu

Coppie

SPUNTO

Il personaggio […] verrà pertanto definito da un fascio di relazioni di rassomiglianza, di opposizione, di gerarchia e di organizzazione […] che esso stabilisce […] successivamente e/o simultaneamente, con gli altri personaggi ed elementi dell’opera, e ciò in un contesto vicino (gli altri personaggi dello stesso romanzo, della stessa opera) o in un contesto lontano (in absentia: gli altri personaggi dello stesso genere).

P .Hamon, Semiologia, lessico, leggibilità del testo narrativo, Parma, Pratiche, 1977, p.94

NOTA

Ogni personaggio è sempre il risultato di una dinamica relazionale, è sempre situato in un campo di forze con altri personaggi (presenti o assenti nel testo). A volte questo rapporto è bipolare e in questo caso la presenza di un secondo personaggio serve a rafforzare quella del protagonista, facendo un tutt’uno con lui per complementarietà o per opposizione.
Alcuni poli oppositivi sono a fondamento dei giudizi e pregiudizi del nostro mondo occidentale (maschile/femminile; servo/padrone; bene/male; civilizzato/selvaggio; naturale/artificiale, concreto/astratto…). Tra di essi si instaura un legame indissolubile che, dal punto di vista narrativo, si concretizza “in coppie” di personaggi, la cui vita in simbiosi può privilegiare gli aspetti complementari del loro carattere (come nelle situazioni in cui il protagonista è accompagnato dalla sua “spalla”, vedi. ad esempio in Don Chisciotte e Sancio Panza di Cervantes o in Agilulfo e Gurdulù de Il cavaliere inesistente di Calvino) o gli aspetti antagonistici (come nelle infinite storie di nemici irriducibili che popolano il nostro immaginario).
Un breve accenno merita il discorso del “doppio”, dove la complementarietà o più spesso il conflitto tra identità è all’interno dello stesso personaggio. Questo tema è classificabile in tre grandi varianti, in cui assume a) gli aspetti di una metamorfosi (ad es. quella del romanzo omonima di Kafka, o de Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hide, di Stevenson, o di personaggi del fumetto e poi del cinema come Batman o altri supereroi…); b) le forme di un sosia (come nell’omonimo romanzo di Dostoevskij, o nel William Wilson di Poe…); c) il doppio può assumere anche le sembianze di una parte del personaggio (come la sua ombra in Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di Chamisso, o il suo naso come nel racconto omonimo di Gogol…).

ESERCIZIO 1

Individuare le dinamiche di una “coppia”, tra cui agiscano rapporti di complementarietà

SVOLGIMENTO

 A complementare di B

ESERCIZIO 2

Individuare le dinamiche di una “coppia”, tra cui agiscano rapporti di opposizione.

A opposto di B

SVOLGIMENTO

ESERCIZIO 3

Provare a “sdoppiare” un personaggio in una delle tre forme individuate (metamorfosi, sosia, parte).

SVOLGIMENTO

A uguale a B

ESERCIZIO 4

Il migrante, inteso come personaggio, si presta molto ad essere il protagonista di storie di “doppio”, perché la sua situazione è di una persona spesso collocata “nel mezzo” (tra due territori, culture, lingue, ruoli, affetti, desideri…) e questo può generare molte storie…

NESSUNO SVOLGIMENTO

Esame di un racconto non presente nell’antologia

Proponiamo un testo prodotto da un/a corsista, che ha preferito non fosse messo nell’antologia.

Spunto per una storia
Mi chiamo Candi e sono congolese. Vorrei tanto trovare una stanza tutta per me perché non reggo più la coabitazione in una casa troppo piena di gente, con chiasso, musica a tutte le ore, etc. Ho bisogno di un ambiente un po’ tranquillo per studiare, devo concentrarmi, ho bisogno di tornare a casa la sera in un posto un po’ mio. Cerco una stanza da affittare onestamente, ho provato in tanti modi…, ma appena mi vedono tergiversano. Oppure mi propongono prezzi vergognosi per dei locali indecenti. Non capisco il perché… : ho un permesso di soggiorno, studio, lavoro metà giornata in un bar… accetto ogni lavoretto mi capiti, anche se malpagato. Sono una persona onesta. Parlo decentemente l’italiano…, parlo il francese, l’inglese. Possibile che il fatto di essere neri spaventi ancora… ? nel 2017? A Milano? No, ci deve essere qualche altra spiegazione. L’altro giorno ero in biblioteca per procurarmi dei libri che mi servivano per un esame: c’erano anziani che leggevano il giornale… bambini seduti per terra che sfogliavano libri pieni di figure… abbastanza gente in quell’orario insolito. Sono uscita e mi sono seduta su una panchina… mi è venuta addosso una tristezza… : forse lei se ne è accorta, forse ha pensato che stessi piangendo, fatto sta che si è seduta vicino a me e, non so neanche come, abbiamo iniziato a parlare: io sentivo tanta nostalgia di mia madre, lei delle sue figlie. È la prima volta che mi capita di raccontare i fatti miei a una che non sia un’amica o una sorella, a una persona di qui: dovevo essere proprio scossa. Ed è avvenuto un fatto che ha dell’incredibile: la signora P. mi ha offerto una stanza nella casa dove abita, prezzo bassissimo (praticamente una partecipazione al pagamento delle bollette e basta), posso anche cucinare…, l’unica cosa è che non potrò portare nessuno da lei senza il suo permesso, ma questo mi sembra più che giusto. La signora è vecchiotta, mi ha spiegato che è sola, ha figlie e nipoti all’estero, e a volte questa solitudine le pesa, fisicamente non si sente più tanto in gamba. La casa è popolare, a Milano sud, io starei “nella cameretta dove sono cresciute le bambine, ci sono anche i mobili: letto, tavolo, armadio… “. Quando la signora va all’estero a stare un po’ con una figlia o con l’altra, io mi dovrei occupare di tenere in ordine la casa, curare le piante… una bazzecola. Domani vado a vedere questa sistemazione, non riesco a crederci. Lei mi piace, ha un’aria tranquilla e quando mi parla mi guarda negli occhi: sembra una banalità, ma è sempre più difficile guardarsi negli occhi, molto spesso si abbassa lo sguardo, o si fissa un punto lontano. Forse posso fidarmi.

[La storia è basata su un fatto vero, l’ho solo un po’ romanzata per quanto riguarda la modalità dell’incontro (d’altronde è un corso di scrittura creativa). Non finisce bene nella realtà: alcuni vicini non gradiscono la presenza di una ragazza così chiaramente e visibilmente straniera, e oltretutto molto schiva; dopo un po’, nonostante Candi faccia di tutto per non attirare l’attenzione, denunciano che la signora ospita una persona a pagamento in una casa popolare. L’istituto case popolari, di solito abbastanza irreperibile per le richieste di manutenzione, riparazione ascensore quando è rotto, etc., risponde mandando un addetto che non crede alla versione della signora, le fa presente il regolamento delle case popolari, e la consiglia vivamente di sloggiare l’ospite per non incorrere in multe. La signora, pur dispiaciuta, cede. Questo è quel che è successo, ma, ovviamente, la storia si può sviluppare in tanti modi]

Note

a proposito di Spunto per una storia

Cittadinanze

Quello delle “cittadinanze”, al plurale, può essere il filo conduttore della storia. Tutti qui sono alla ricerca di cittadinanza: di un luogo dove essere riconosciuti, dove “esserci per qualcuno”:
◉ Candi: cerca un luogo “tutto per sé”, dove coltivare la sua identità
◉ l’anziana signora: la stanza vuota dei figli rappresenta un vuoto relazionale da riempire, per essere ancora qualcuno per qualcuno
◉ i bambini in biblioteca: inventano lo spazio delle loro avventure, dove interpretano se stessi
◉ le persone che frequentano abitualmente il bar, perché lì tutti “sanno chi sei”
◉ gli inquilini del condominio delle case popolari: che “difendono” il loro territorio; qui la cittadinanza assume la sua funzione di “esclusione”
Candi e la sig.ra P
– Sono i poli di attrazione di tutta la storia e hanno tra loro una forte interdipendenza: una figlia in cerca di madre /una madre in cerca di figli (toglierei quindi i viaggi all’estero e amplificherei la solitudine della madre). Si potrebbe raccontare questa ricerca di entrambe, magari con un episodio (es. un tentativo di approccio, fallito, con altre persone)
– I ricordi dell’una e dell’altra potrebbero intrecciarsi con la trama principale
– Si potrebbero approfondire i caratteri delle due protagoniste, tenendo presenti (ma non rendendoli visibili né didascalici) elementi di complementarietà, di somiglianza tra loro.

 

Il punto di vista
– Userei la terza persona, ma metterei al centro della storia la anziana signora e non Candi. In questo modo: a) Al centro della storia non c’è un problema sociale, di cronaca, ma esistenziale. La cittadinanza assume un valore più universale. b) Mettendo al centro la sig.ra P, paradossalmente si dà più importanza a Candi, perché è lei che, occupando la camera vuota, aiuta a risolvere i problemi di emarginazione e solitudine della donna e non viceversa.

Gli spazi
– Ci sono quelli “coabitati” e quelli “identitari”. I primi sono a) la stanza “piena di gente” da cui vuole sfuggire Candi, b) il bar, che però può avere i suoi tavoli e angoli in cui l’individuo si riconosce, c) gli spazi in comune del condominio (immagino, ad esempio, uno scontro tra inquilini nel vano dove raccogliere la pattumiera dell’edificio, o in cortile dove stanno le biciclette e giocano i bambini, o una discussione a proposito di un mozzicone di sigaretta sulla rampa delle scale, l’ascensore è già stato sfruttato in altri racconti…), d) gli uffici dell’Istituto Case Popolari. Descriverlo.
– Gli spazi identitari possono essere: a) la cameretta offerta a Candi, b) la casa di Candi nella sua terra, c) una eventuale casa dell’infanzia della sig.ra P, d) gli spazi immaginari dei bambini, le cui storie si possono intrecciare con quelle vere della trama principale. Anche qui i particolari possono creare “effetto di realtà” e aprire allusioni, storie in cui il lettore si identifica, è spinto a fare inferenze, a collaborare.

I personaggi
– a) “la gente”, intesa come i “cittadini”: i frequentatori della casa superaffollata da cui vuole fuggire Candi (magari una amica con cui Candi ha una discussione, a proposito di…) i frequentatori della biblioteca (l’anziano che ci va a sfogliare le pagine degli atlanti, dei fumetti, dei codici di procedura penale, dei vecchi giornali…), i vicini di casa…, quello che parla per pregiudizi, quello che vorrebbe capire, mediare…, i rapporti tra loro, non solo con la “straniera” Candi
– b) i “custodi” degli spazi (bibliotecari, baristi, amministratori, portinai, ispettori…), guardie giurate, che sono come i “gestori” della cittadinanza (i “depositari”, spesso indegni ma non necessariamente, dei valori); vanno obbediti (sempre?)
– c) gli “esclusi” (chi sta peggio di Candi), ad esempio Candi fa sempre l’elemosina ad un ragazzo italiano, che vive per strada, tutte le volte che lo incontra, lui le dice che sta trovando lavoro…);
– d) gli “assenti” i figli della signora, i famigliari di Candi che stanno in Congo (in una telefonata si sente quello che dice Candi – o la sig.ra P, – ma non la loro voce). Sono spesso “oggetti” del desiderio: quello che manca e la cui ricerca porta avanti la storia. Sono assenti, ma fondamentali (proprio per questo, come capita spesso anche nella vita reale…)
– e) gli “antagonisti”, che impersonano gli ostacoli da superare. Non devono essere “i cattivi”, altrimenti la storia diventa una storiella.
– I personaggi, infatti, devono essere complessi (non tutti, naturalmente, non quelli che fanno da tappezzeria). È bene che ci sia qualcosa che “non torna”, qualcosa di ambiguo, che sembra stonare, oppure un particolare che appare insignificante, accessorio, e che invita il lettore a cercare una soluzione (ad esempio, Candi ha i capelli tinti…; oppure, all’inizio del racconto Candi ha i capelli tinti, la signora no, alla fine succede il contrario, oppure nessuna delle due si tinge i capelli. Perché?). Questo è importante, perché il lettore non si rassegna ad ascoltare una storia senza cercarci un senso e lasciare aspetti incongrui dà spessore alla narrazione. Il problema è saperlo fare.

La trama
– I blocchi narrativi, così come è stata posta la storia, sono: a) una stanza che non va bene, b) la ricerca di un’altra stanza, c) in biblioteca, l’incontro di Candi con la anziana signora, d) la situazione famigliare della sig.ra P, d) la casa in assenza della sig.a P, e gestita da Candi, e) l’opposizione dei vicini, f) l’intervento dell’Istituto case popolari, f) lo sfratto di Candi
– Questo ordine cronologico può, deve, essere modificato. Per esempio togliendo o aggiungendo sequenze. Oppure agendo sull’ordine temporale, partendo dallo sfratto finale, o da una situazione intermedia (tenendo presente che il punto di vista potrebbe essere quello della sig.ra P). Oppure ampliando degli episodi a scapito di altri. Ma questo va deciso quando sono più chiare altre scelte
– Il finale. Può restare negativo, ma basta un particolare (avevamo detto il tingersi o non tingersi i capelli… ma non voglio qui suggerire altro) a lasciare aperta e problematica la storia. Addirittura un gesto, una frase (inaspettata o accennata lungo la narrazione, dove era restata “invisibile”), possono capovolgerne il senso.

La scrittura
– Come iniziare, come descrivere, come far parlare i personaggi. Si vedrà. Intanto: leggere e rileggere un autore (una autrice) che si ama. Per entrare nel ritmo delle sue frasi e trovare il piacere di scrivere “con lui/lei”.

Suggerimenti di un/a corsista, che preferisce l’anonimato:

“Sai di cosa sento bisogno nella storia della signora P. e di Candi? Di un pizzico di fantasia o meglio qualche elemento fantastico che porti la trama verso la conclusione. Per esempio: dove è scritto “Sono uscita e mi sono seduta su una panchina… mi è venuta addosso una tristezza… ” Quest’ultima frase è quasi un luogo comune. Perché non trasformarla in un evento? Per esempio:
accanto a Candi (che pensa ai suoi problemi e ha bisogno di parlare con qualcuno) sulla panchina si siede una donna che comincia a chiacchierare… Passano i minuti e quella donna parla e parla e parla ininterrottamente, senza mai ascoltare Candi; la donna fa delle domande a Candi ma non sente le risposte. A un certo punto Candi si alza per andare via, non vuole perdere il suo tempo, non si sente bene con quella donna. La lascia parlando da sola.
Due signore sono sedute su un’altra panchina. Una di loro dice a Candi: “Insopportabile, vero? Ha fatto bene ad andare via.”
“Chi è quella donna?” domanda Candi alla signora
“È una che viene sempre qui e attacca bottone con tutti. Si chiama Tristezza”
Solo allora Candi capì che era pronta ad abbandonare la tristezza. Era pronta. Avrebbe provato nuove strade.

Ci sono altri punti dove introdurre il fantastico.
… L’importante è che bisogna accentuare all’inizio della storia che Candi si lamentava della jella nella sua vita e non sapeva cosa fare. Dopo aver abbandonato la tristezza, Candi si sente responsabile delle cose che andavano male e che la rendevano triste. Così come ha cacciato via la tristezza, sente che può cacciare pure la jella. E la sua vita comincia a cambiare in meglio. Lei finisce per capire che un atteggiamento positivo attira eventi positivi. Aiuta in questo senso la signora P. facendo sì che l’anziana signora veda che nonostante l’età e le difficoltà, può trovare il piacere di andare al parco (naturalmente evitando di sedersi accanto alla donna chiacchierona); può ritirare libri nella biblioteca del loro quartiere e tornare al vecchio piacere di leggere; Candi e la signora P. diventano amiche; la signora P. racconta a Candi che aveva vissuto in Africa quando era giovane e si sentiva diversa perché era solo lei ad essere bianca dove lavorava. La signora P. assume Candi come badante. Così Candi può vivere tranquilla e dividere la sua giornata tra i suoi interessi personali e le necessità della signora P.
Le due, a poco a poco, cambiano l’atmosfera caotica che si respirava dove vivono.”

Le voci

Impronte vocali

SPUNTO

– Chi è? – domandò Louise
– Sono io, Allen
– Oh, Allen… Entra pure
L’uomo entrò nella stanza. – Sono venuto a vedere come te le la passi. dopo il divorzio…
– È gentile da parte tua. Sto benissimo.
– Vorrei poterlo dire anch’io – rispose.
– Come? Non ho sentito.
– Ho detto che vorrei stare benissimo anch’io.
– Le cose non vanno troppo bene, allora? – chiese la donna.
– Sento la tua mancanza, Louise.
– Mi dispiace, ma ora credo sia meglio che tu te ne vada.

da N.Kress, Inizio, sviluppo e finale, in AAVV, Il grande manuale di scrittura creativa, Milano Ed. Nord, 1999, p.522

NOTA

Una narrazione non è solo un concatenarsi di fatti, ma anche un intreccio di voci e pensieri. Non è una linea, ma ha una dimensione tridimensionale. Non è un motivetto, ma una sinfonia. Anche se spesso non ce ne accorgiamo o sottovalutiamo questo fatto, nella realtà: 1) ogni parola è pronunciata con un tono di voce, può esprimere, per esempio, ironia, sarcasmo, supponenza, stupore, rabbia, dolcezza (…); può suscitare antipatia, compassione… Tali stati d’animo si sovrappongono ai contenuti manifestati, rafforzandoli o contraddicendoli (svelandone la falsità). 2) Ciascuno di noi ha un timbro di voce diverso e inconfondibile (come lo sono le impronte digitali), attraverso il quale riconosciamo le persone. Il nostro modo di comunicare, poi, ha un ritmo, una sua cadenza. 3) E infine ci sono le inflessioni più o meno gergali, dialettali, che segnalano la provenienza, la cultura, la professione, il ceto sociale, la generazione di appartenenza di chi sta parlando.
Come rendere questa stereofonia nel racconto? Attraverso accorgimenti che in una gamma di possibilità che qui esemplifichiamo in uno schema, va dalla chiara presenza delle parole (dette o pensate) da personaggi e narratori fino alla loro scomparsa nel sottile filo del discorso.
Facciamo un esempio:A. frequenta il nostro corso. È molto brava e simpatica, ma è sempre in ritardo. Finalmente eccola arrivare.
Discorso diretto
◉ Tutti la accolsero con un sorriso un po’ ironico, indicando il posto che le avevano tenuto. A. ricambiò il saluto e si sedette. Pensò: “Anche oggi sono in ritardo. Che ci posso fare? È il mio carattere. La prossima volta, però, arriverò in orario”.
Discorso indiretto
◉ Tutti la accolsero con un sorriso un po’ ironico, indicando il posto che le avevano tenuto. A. ricambiò il saluto e si sedette. Pensò che anche quel giorno era arrivata in ritardo. Che ci poteva fare? Era il suo carattere. La prossima volta, però, sarebbe arrivata in orario”.
Discorso indiretto libero
◉ Tutti la accolsero con un sorriso un po’ ironico, indicando il posto che le avevano tenuto. A. ricambiò il saluto e si sedette. Pensò che Anche quel giorno era arrivata in ritardo. Che ci poteva fare? Era il suo carattere . La prossima volta, però, sarebbe arrivata in orario”.
Discorso diretto libero
◉ Tutti la accolsero con un sorriso un po’ ironico, indicando il posto che le avevano tenuto. A. ricambiò il saluto e si sedette. Pensò: “ Anche oggi sono in ritardo. Che ci posso fare? È il mio carattere. La prossima volta, però, arriverò in orario.

ESERCIZIO

Provare a immaginare parole e pensieri di personaggi presenti in fotografie, come fossero le nuvole di fumetti.

SVOLGIMENTO

fumetti

Il punto di vista onniscente

SPUNTO

DUE CITTÀ INGLESI dell’OTTOCENTO
COKETOWN LONDRA

Era una città fatta di mattoni rossi, o meglio di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere lo avessero permesso; ma, per come stavano le cose, era una città innaturalmente rossa e nera, come il volto dipinto d’un selvaggio. Era una città di macchinari e di lunghe ciminiere, dalle quali strisciavano perennemente interminabili serpenti di fumo, che non si srotolavano mai. C’era un canale nero e un fiume che scorreva, arrossato da tinture maleodoranti, e c’erano enormi blocchi di costruzioni piene di finestre in cui si sentiva tutto il giorno un tintinnio tremolante e in cui il pistone della macchina a vapore andava su e giù con monotonia, come la testa d’un elefante colto da una pazzia malinconica. La città aveva molte grandi strade tutte uguali l’una all’altra, e molte piccole strade ancor più uguali l’una all’altra, abitate da persone uguali l’una all’altra, che uscivano ed entravano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso rumore sugli stessi marciapiedi, che avevano tutte lo stesso lavoro e per le quali ogni giorno era uguale al giorno precedente e a quello futuro, e ogni anno era la copia dell’anno passato e di quello ancora di là da venire.

C.Dickens, Tempi difficili, Milano, Garzanti, 1977, p. 23

Attento. Tieni la testa a posto: ti servirà. La città in cui ti conduco è vasta e intricata, e tu non ci sei mai stato prima. Puoi immaginare, da altre storie che hai letto, di conoscerla bene, ma quelle storie ti hanno illuso, accogliendoti come un amico, trattandoti come se fossi uno del posto. La verità è che tu sei un alieno, in tutto e per tutto, arrivato da un altro tempo e da un altro luogo. Quando ho catturato il tuo sguardo la prima volta e tu hai deciso di seguirmi, probabilmente pensavi di arrivare qui e sentirti a casa. Ma adesso ci sei davvero, in quest’aria fredda, tagliente, trascinato nell’oscurità piú nera, e inciampi su un terreno accidentato, senza riconoscere nulla. Scrutando a destra e a sinistra, strizzando gli occhi contro il vento gelido, ti accorgi di aver imboccato una strada sconosciuta di case buie piene di gente sconosciuta. […] Il nevischio ti punge le guance, piccoli sputi taglienti e gelidi che sembrano di fuoco, braci ardenti nel vento. Incominciano a farti male le orecchie. Ma ti sei lasciato sviare, e adesso è troppo tardi per tornare indietro. È un’ora livida della notte, cinerea e quasi leggibile, come pagine intatte di un manoscritto bruciato. Avanzi arrancando nella nuvola del tuo respiro esausto, e continui a seguirmi. L’acciottolato sotto i tuoi piedi è bagnato e sudicio, l’aria è gelida e acre d’alcol e di sterco che si scioglie pian piano. Da qualche luogo nelle vicinanze arrivano attutite voci ubriache, ma dal poco che riesci a capire non sono certo gli incipit forbiti di un grande dramma romantico; al contrario, ti ritrovi a confidare in Dio che le voci non si avvicinino troppo. […]

M.Faber, Il petalo cremisi e il bianco, Torino, Einaudi, 2003

 

NOTA

Punto di vista non focalizzato, onnisciente, N › P

(Narratore › Personaggi)

Qui abbiamo due diverse visite guidate, in una, chi fa da cicerone appartiene all’Ottocento, nell’altra ai nostri giorni. In entrambi i brani il Narratore è onnisciente, accompagna il lettore, sa tutto di tutti, MA in due modi diversi. La voce narrante di Dickens è come se usasse un drone sapiente, quella di Faber ci fa indossare degli occhiali di realtà virtuale.

SPUNTO

E tra codesti più forti suoni udii adesso dei tonfi cupi, il cui significato (per sola forza d’udito, ché, come già detto, il mio corpo non subiva stimoli o sollecitazioni) mi apparve subito indubbio: essi avevano chiuso la bara che mi conteneva e ne stavano martellando i chiodi. […] Essi mi stavano portando all’ufficio funebre. Ed io ero divorato dal panico: già mi sembrava che l’aria mi mancasse, nel mio chiuso, e d’altra parte capivo bene che entro pochi minuti ogni tentativo sarebbe risultato inutile, quand’anche riuscito, poiché i rumori esterni avrebbero soverchiato ogni mio segnale quand’anche possibile.

T.Landolfi, Le labrene, in Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelta da Italo Calvino, Milano, Rizzoli, 1982, p. 74

NOTA

Punto di vista focalizzato interno a un personaggio, N = PIn questo brano di un racconto di Landolfi è rappresentata una delle situazioni più terrificanti che un individuo possa immaginare: essere sepolto vivo. Il narratore lo fa assumendo un punto di vista interno al personaggio. E in questo modo ne trasferisce tutta l’insopportabile angoscia sul lettore, che si trova chiuso dentro la stessa bara. L’espediente qui adottato consiste nell’uso della prima persona, in cui si sovrappongono “l’io” di chi narra con quello di chi legge. Sarebbe comunque errato pensare che una focalizzazione interna alla storia possa essere resa solo in questo modo. Anche la terza persona potrebbe funzionare, anche se creerebbe una maggiore distanza tra il sepolto vivo e il lettore (gli apparve subito indubbio: essi avevano chiuso la bara che lo conteneva e ne stavano martellando i chiodi). Al contrario, l’uso del “tu” abbatterebbe ogni difesa del lettore, inducendolo ad assumere su di sé la situazione di cui è vittima il personaggio.
L’impiego del punto di vista interno non serve solo a sperimentare forme più dirette di percezione della realtà, ma anche a impersonare la prospettiva dell’altro, defamiliarizzando i nostri schemi interpretativi del reale. Ciò può avvenire “vedendo” i fatti dall’angolazione di un personaggio testimone e non protagonista dei fatti, oppure ad essi marginale, o, addirittura attraverso gli occhi e la mente di qualcuno inaffidabile, come un bugiardo o una persona con disturbi mentali.

SPUNTO

I tavolini della saletta della colazione adesso sono tutti occupati da persone che mangiano, sole o a coppie o a piccoli gruppi. C’è una ragazza dalla pettinatura verticale che manovra le posate con gesti stilizzati, un tipo con schiena e braccia da sollevatore di pesi che fa girare nel burro una pannocchia; un nero lungo e sottile vestito color crema che picchietta il cucchiaino sull’orlo di una tazza da tè. C’è Ted vicino a una finestra, e Liza gli arriva da dietro, gli dà un colpetto sulla spalla.

A. De Carlo, Macno, Milano, Bompiani, 2005, p. 47

NOTA

Punto di vista non focalizzato, esterno a un personaggio, N < P

Adottando un punto di vista esterno agli avvenimenti, il narratore si impone il limite di saperne meno dei suoi personaggi. La sua presenza, allora, è paragonabile a quella di una telecamera fissa, che, nella sua immobilità, registra tutto quello che passa sotto il suo obiettivo senza privilegiare nessun fatto o individuo. In particolare, in questo brano di De Carlo (1952) vengono annotati una serie di dettagli che occupano, per pochi secondi, il nostro campo visivo, come se li vedessimo con un potente teleobiettivo. In questo modo non è possibile cogliere né la fisionomia dei personaggi, né il contesto che farebbe capire la reale intenzione dei loro gesti. Spetta a noi, in quanto lettori, trovare, se ci sono, i nessi che diano un senso a ciò che succede.

ESERCIZIO 1

Tu come la vedi? Adottare più punti di vista per raccontare uno stesso luogo.

SVOLGIMENTO

tu come la vedi

ESERCIZIO 2

Descrivere un luogo da una prospettiva visiva insolita, che implichi anche una condizione esistenziale, sociale o marginale (un operaio che lavora su una gru, un mendicante seduto sul marciapiede, un ragazzo che fa consegne in bicicletta…).

NESSUNO SVOLGIMENTO

ESERCIZIO 3

Anche una prospettiva auditiva particolare, per esempio quella di un/a ragazzo/a che lavora a un call center, col rituale delle sue domande e la prevedibilità delle risposte dei clienti, può far riflettere su una particolare condizione sociale.

NESSUNO SVOLGIMENTO

ESERCIZIO 4

“Saper immaginare che cosa si prova ad essere qualcun altro, all’infuori di se stessi, questo è il nocciolo della nostra umanità. E’ l’essenza della compassione, è l’inizio dell’etica” (lo scrittore McEwan sul Guardian). Lo sforzo di vedere la vita con gli occhi dell’altro è più faticoso se quest’ultimo è un disonesto, un criminale, un bugiardo… Certo non è un modo per giustificarlo, ma senz’altro per capirlo. Provare a raccontare una storia assumendo un punto di vista inaffidabile.

NESSUNO SVOLGIMENTO

SPUNTO

Sempre così affannati, e con lunghi arti che spesso agitano. E come sono poco rotondi, senza la maestosità delle forme compiute e sufficienti, ma con una piccola testa mobile nella quale pare si concentri tutta la loro strana vita. Arrivano scivolando sul mare, ma non nuotando, quasi fossero uccelli, e dando la morte con fragilità e graziosa ferocia. Stanno a lungo in silenzio, ma poi tra loro gridano con furia improvvisa, con un groviglio di suoni che quasi non varia e ai quali manca la perfezione dei nostri suoni essenziali: richiamo, amore, pianto di lutto. E come dev’essere penoso il loro amarsi: e ispido, quasi brusco, immediato, senza una soffice coltre di grasso, favorito dalla loro natura filiforme che non prevede l’eroica difficoltà dell’unione né i magnifici e teneri sforzi per conseguirla.
Non amano l’acqua, e la temono, e non si capisce perché la frequentino. Anche loro vanno a branchi, ma non portano femmine, e si indovina che esse stanno altrove. Ma sono sempre invisibili. A volte cantano, ma solo per sé, e il loro canto non è un richiamo ma una forma di struggente lamento. Si stancano presto, e quando cala la sera si distendono sulle piccole isole che li conducono e forse si addormentano o guardano la luna. Scivolano via in silenzio e si capisce che sono tristi.

A. Tabucchi, Una balena vede gli uomini, in id. Donna di Porto Pim, Palermo, Sellerio, 1983, pp. 89-90

NOTA

Tabucchi tiene questo brevissimo racconto in equilibrio tra il gioco dell’intelligenza e l’esercizio della compassione. Qui il punto di vista è infatti duplice: a) è percettivo, si riferisce allo sguardo, che è materialmente capovolto, perché gli uomini, i loro gesti, le fasi della caccia, le loro barche (“le piccole isole che li conducono”) sono visti da sotto in su, dagli immaginari occhi delle balene nel fondo del mare, b) ma nello stesso tempo il punto di vista è concettuale, perché il narratore si fa carico degli ipotetici pensieri delle balene. Ne nasce una contrapposizione tra due mondi, divisi non solo dalla superficie dell’acqua, ma da due differenti modi di concepire la vita, caratterizzati da una parte da affanno, sgraziata magrezza, nervosismo isterico, violenza, insicurezza, fragilità dei rapporti, goffaggine amorosa, solitudine, tristezza; dall’altra parte da placidità, rotonda maestosità, mansuetudine, sensualità, tenerezza, solennità, essenzialità. È la tecnica dello “straniamento” che ci costringe a vederci attraverso gli occhi dell’altro e a ripensare in chiave critica quello che siamo abituati a considerare “normale” e “universale”.

ESERCIZIO

Raccontare la realtà, assumendo un punto di vista marginale. Lo “sguardo” sul mondo di un animale (un cane al guinzaglio di un dogsitter, un pollo in batteria…), di un oggetto (la carrozzina di un disabile, un indumento che galleggia nel Mediterraneo…) può “defamiliarizzare” i nostri automatismi percettivi, mostrando ciò che non siamo più capaci di vedere.

SVOLGIMENTO

Borderline

SPUNTO

– Dove va il signore? – chiese il cocchiere.
– Dove vuoi! – disse Léon spingendo Emma nella carrozza.
E la pesante vettura si avviò.
Prese giù per la Rue Grand-Pont, attraversò la Place des Arts, il Quai Napoléon, Pont Neuf e si fermò di colpo davanti alla statua di Pierre Corneille.
– Avanti! – gridò una voce di dentro. La carrozza ripartì e, dopo l’incrocio La Fayatte, lasciandosi portare dalla discesa, entrò al gran galoppo nella stazione ferroviaria.
– No, a diritto! – gridò la stessa voce.
La carrozza uscì dai cancelli e, poco dopo, arrivata sul corso, ricominciò a andare lentamente al trotto, tra i grandi olmi. Il cocchiere si asciugava la fronte, si mise il cappello di cuoio tra le gambe e la guidò fuori dai viali laterali, sul bordo dell’acqua, vicino al prato.
Andò lungo il fiume, sulla strada alzaia acciottolata a secco e, ancora avanti, dalla parte di Oyssel, al di là delle isole.
Ma all’improvviso la carrozza partì di slancio attraverso Quatremares, Sotteville, la Grande-Chaussée, la Rue d’Elbeuf e fece la terza fermata davanti al Jardin des Plantes.
– Avanti, avanti! – gridò la voce ancor più infuriata.
E riprendendo subito la corsa, la vettura passò per Saint-Sever, per il ponte, quindi per Place du Champs-de-Mars e dietro i giardini dell’ospizio dove qualche vecchio vestito di nero passeggiava al sole lungo una terrazza tutta verde di edera. Risalì il Boulevard Bouvreuil, percorse il Boulevard Cauchoise, poi tutto il Mont-Riboudet fino alla collina di Deville.
Tornò, e allora, senza programma né direzione, cominciò a vagabondare a caso. Fu vista a Saint-Pol, a Lescure, al monte Gargan, alla Rouge-Mare e in Place du Gaillard-bois; poi in Rue Maladrerie, in Rue Dinanderie, davanti a Saint-Romain, a Saint-Vivien, a Saint-Maclou, a Saint-Nicaise, là davanti alla Dogana, alla Basse-Vieille-Tour, alle Trois-Pipes e al Cimetière Monumental. Di tanto in tanto, il cocchiere, da cassetta, gettava sguardi disperati alle osterie. Non comprendeva che furore di locomozione spingesse quegli individui a non volersi mai fermare. Qualche volta cercava di arrestarsi, ma subito udiva dietro di sé esclamazioni di collera. Allora frustava a più non posso i due ronzini tutti sudati, senza preoccuparsi delle scosse, sbattendo di qua e di là, noncurante di quello che poteva accadere, demoralizzato e lì lì per piangere di sete, di fatica e di tristezza.
Sul porto, in mezzo ai carri e alle botti, per le strade e alle cantonate, la gente sgranava tanto d’occhi per lo stupore davanti a quella cosa, così straordinaria in provincia: una carrozza con le tendine abbassate, che appariva e scompariva di continuo, chiusa più di una tomba, sballottata come un vascello.
A un certo momento, sul mezzo del giorno, in piena campagna, quando il sole dardeggiava più forte contro i vecchi fanali argentati, una mano nuda uscì di sotto le tendine di tela gialla e gettò via un pugnello di pezzetti di carta, che si dispersero al vento e ricaddero più lontano, come farfalle bianche, su un campo di trifoglio rosso tutto in fiore.
Poi, verso le sei, la carrozza si fermò in una stradina del quartiere Beauvoisine, e ne discese una donna che camminava con il velo abbassato senza voltare la testa.

G.Flaubert, Madame Bovary, Milano, Mondadori, 2010, pp. 270-71

NOTA

Uno scrittore, soprattutto alle prime armi, mette generalmente un grande impegno nel dire le cose, nel saper descrivere fatti e persone, arricchendoli di particolari, scegliendo aggettivi eleganti e giri di frasi elaborate. In realtà scrivere un racconto non è come stendere un verbale, in cui conta la registrazione di tutto ciò che è accaduto. La ricchezza e bellezza di un mondo possibile creato da un autore e apprezzato da un lettore non stanno solo nelle informazioni che contiene, ma nell’intrigo che le avvolge. Chi racconta una storia, come abbiamo già detto, si impegna in un gioco col lettore, fatto di mosse e tatticismi, in cui quello che viene scritto è spesso meno rilevante di quanto è taciuto. Lo si vede molto bene in questo brano preso da Madame Bovary di Flaubert (1821-1880), in cui un amplesso lasciato immaginare si dimostra più intrigante di uno descritto. Quello che lo scrittore francese mette in pratica a metà dell’Ottocento, verrà teorizzato una settantina d’anni dopo da Hemingway (1899-1961) nella sua celebre formula, presa dall’architettura, del “less is more” (meno vale di più), visualizzata nell’immagine dell’iceberg: “Cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg: i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’ importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno”(intervista rilasciata al “Paris Review” nell’estate del 1958).

ESERCIZIO

Provare ad applicare a un racconto da voi scritto la regola del “less is more”, cercando di far capire senza dire

SVOLGIMENTO

 less is more

SPUNTO

« Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie », disse Christine. « Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me, riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto. Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una canottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso l’espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria: sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri ». Mi guardò con aria un po’ misteriosa, aspettando una mia interlocuzione. « Ebbene? », chiesi io, « dov’è il mistero? ». « La seconda fotografia », disse lei. « Era la fotografia per intero. Sulla sinistra c’è un poliziotto vestito da marziano, ha un casco di plexiglas sul viso, gli stivaletti alti, un moschetto imbracciato, gli occhi feroci sotto la sua visiera feroce. Sta sparando al negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo dopo che io facessi clic era già morto ». Non disse altro e continuò a mangiare. « Mi dica il resto », dissi io, « ormai completi il racconto ». « Il mio libro si chiamava Sudafrica e aveva un’unica didascalia sotto la prima fotografia che le ho descritto, l’ingrandimento. La didascalia diceva: Méfiez-vous des morceaux choisis»

A.Tabucchi, Notturno indiano, Palermo, Sellerio, 2004 (prima ed. 1984) pp.101-2

NOTA

“Qualunque cosa essa dia a vedere e quale che sia la sua maniera, una foto è sempre invisibile: ciò che noi vediamo non è lei” (R.Barthes, La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980, p.8). Nonostante in genere si pensi il contrario, fotografare è sempre creare un ambiguo rapporto con la vita. Nel momento in cui la si rappresenta, la si manipola, fissandola dentro un punto di vista visivo, isolandola dentro i confini spaziali di una cornice, escludendola dal passato e dal futuro che c’è stato e ci sarà dopo lo scatto. È questo il prezzo da pagare per rendere narrabile il reale, ma ciò che è stato lasciato fuori dall’inquadratura è ciò di cui l’inquadratura ha bisogno per essere compresa. Per questo ogni fotografia (ma anche ogni quadro) è un frammento di una storia che la nostra immaginazione può creare e inevitabilmente crea.

ESERCIZIO

Scegliere una fotografia che, secondo voi, possa aver fissato uno degli infiniti aspetti della cittadinanza ed illustrarlo, immaginando il racconto che l’immagine nasconde.

SVOLGIMENTO

la cittadinanza in uno scatto

L'autore

Remo Cacciatori

Remo Cacciatori, attualmente insegnante in pensione, è stato docente di scuola media superiore e animatore di numerosi progetti nell’ambito della formazione e dell’editoria scolastica, per la quale ha pubblicato antologie e curatele. Professore a contratto dal 2007 al 2016 presso Università degli Studi di Milano, si occupa di problemi di teoria del romanzo e di narrativa del Novecento.