DOR DE CASA

DOR DE CASA

DOR, doruri: 1. forte desiderio di vedere o rivedere qualcosa o qualcuno amato, di ritornare a un’abitudine preferita; nostalgia; brama. 2. stare di spirito di colui che tende, aspira, desidera qualcosa; struggimento. 3. sofferenza dovuta all’amore per qualcuno o qualcosa che si trova lontano.  4. dolore fisico attribuito al forte desiderio erotico

La parola DOR è speciale, è il modo profondo con il quale i romeni sottolineano il dolore per ciò che desiderano e che le manca. Se in italiano dici “ Mi manca la mia casa, la mia terra, la mia patria”, in rumeno si dice “ Mi-e dor de casa, de pamantul meu, de patria mea”.

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Ho la consapevolezza che il momento giusto arriverà presto. Tornerò a casa, nonostante le migliaia di difficoltà che dovrò affrontare. La mia terra mi sta chiamando, mi desidera, anche se i miei colloqui con lei sono sempre più rari. Mi propongo di partire, anche per un breve viaggio; serve per ricaricarmi di quella energia che solo la terra natale può regalare, quello spasmo benedetto che attraversa il mio corpo risvegliando tutti i sensi addormentati dalla quotidianità abitudinaria nel paese che mi ospita da ben ventuno anni.

Questo paese ospite è un paese meraviglioso, riscaldato dal Sole più splendente che possa esistere, con panorami mozzafiato, montagne altissime e foreste immense, circondato dal mare che, a prima vista, mi ha dato l’impressione di un intervento Divino. Le onde si infrangono sulle scogliere mentre nelle narici penetra l’odore di un risotto alla “pescatora” e di una frittura di calamari. Entro nel ristorante e ordino solo un piatto di riso, non potrei mangiare di più. Il dolore dovuto alla separazione sta diventando ingestibile. Ovunque guardo, noto le differenze. Le strade, qui, sono intrise di storia antica: Roma Caput Mundi. Le ville che costeggiano le strade sono invase da cascate di bouganville e alberi maestosi.  Sui marciapiedi, nel centro storico, alberi di agrumi mettono in mostra la loro fantastica mercanzia, inconsapevoli dell’effetto che riescono a far suscitare in me. Quel sentimento di stupore, la prima volta che ho notato le arance appese sui rami, così, come se fossero dei bei fiori, lo ricordo anche adesso. Quando ero bambina, nel mio paese, un’arancia poteva rappresentare il regalo di Natale, se la mamma riusciva a essere abbastanza combattiva nella lotta per comperare qualche misero chilo di arance.

Qui, tutto è perfetto: le case, le persone, le strade, i magazzini.

Amo l’Italia per quel che rappresenta: sole, amicizia, amore, caratteristiche che mi hanno attratto sin dall’infanzia e che mi hanno fatto desiderare di visitare e vivere qui.

A volte, però, i ricordi della mia terra penetrano dolorosamente, formando un vuoto nel cuore pieno di ammirazione per questo paese meraviglioso. È risaputo che i ricordi infantili sono quelli che difficilmente possono essere cancellati dalla memoria. Ritornano con la potenza distruttiva simile al Diluvio Universale. Già, le lacrime che sgorgano dai miei occhi arrossati potrebbero ricoprire interi continenti, far sommergere terre primordiali, oscurare cieli azzurri e limpidi e travolgere l’intera umanità nel buio eterno e freddo del dolore.

In autunno mi manca l’odore delle mele cotogne, quelle che raccoglievo mentre mi avviavo verso scuola e che pulivo dalla peluria giallastra e annusavo a pieni polmoni. Nessuna merenda era più soddisfacente di quella cotogna. Ritornando a casa, trovavo mia nonna in cucina, intenta a preparare la marmellata che avrebbe accompagnato tutti i miei risvegli mattutini, per tutto il periodo invernale. L’odore della marmellata si mescolava con quello dell’uva raccolta con la quale venivano riempiti i contenitori che avrebbero trasformato il tutto in mosto e ulteriormente in vino. Con un bicchiere schiacciavo l’uva che era salita fino al bordo della botte e raccoglievo il succo dolce pungente dell’uva. Bevevo con un piacere che nessuna bibita in commercio attuale può regalarmi.

Dovevo alternare i compiti della scuola con l’aiuto che dovevo dare alla nonna per la preparazione della zacusca, una specie di caponata di melanzane, con cipolle, peperoni e pomodori, che doveva rappresentare la nostra scorta invernale di conserve.

Ad ottobre compravamo tre sacchi di cavoli con i quali preparavamo la verza in salamoia, materie prima nella preparazione delle sarmale, involtini di carne e riso ricoperti nelle foglie trasparenti della verza.

Oltre agli odori e ai sapori autunnali, nella mia memoria si mescolano gli odori primaverili, quelli che pungono il naso e fanno starnutire. L’aria fresca si mescolava con il polline rilasciato dai fiori appena sbocciati sugli alberi ancora spogli di foglie. La neve sciolta si trasformava in fango quasi impossibile da attraversare senza farlo penetrare nelle scarpe, però tutto ricordava la rinascita, il nuovo inizio, il risveglio alla vita e non aveva più importanza se i stivali si riempivano di fango. Da lì a breve avrei avuto un paio di scarpe nuove, aperte e leggere.

L’inverno che aveva dato il suo ultimo respiro con una furiosa nevicata finita così come aveva iniziato, rapidamente e senza preavviso, ci lasciava senza scorte di legna per il fuoco, però aveva il suo fascino intramontabile, che non sono riuscita a sentire a Roma. Quando nevicava, uscivamo tutti a sentire i grossi fiocchi che cadevano come ali di angelo sulla terra già ricoperta di altri strati di neve. Il silenzio notturno mi permetteva di sentire il rumore timido dei fiocchi che, leggeri, poggiavano uno sull’altro, e se camminavo, la neve calpestata produceva dei rumori acuti, che nella mia mente si trasformavano nelle note di una canzone di Natale.

Arrivava il Natale con i suoi colindatori, ragazzi e ragazze che, in gruppi, passavano di casa in casa recitando i canti di Natale. Il tutto odorava di sarmale e di cozonaci, panettoni a forma di filone di pane, appena sfornati.

Questa allegria mi manca. A Roma, tutto è commerciale, il Natale e il Capodanno, la Pasqua e tutte le altre feste religiose.

Per la Pasqua facevamo le uova colorate e le faccio anche a Roma, con le vernici speciali che mi arrivano ogni anno dalla Romania. Però le sensazioni che vivo qui sono diverse da quelle che vivevo in Romania, nel periodo Pasquale. L’incontro con gli amici, nel cortile della chiesa, durante la settimana della passione di Cristo, le preghiere e i canti, le candele accese e la notte fuori casa a festeggiare la risurrezione di Cristo.

Le notti fuori, quelle notti di festeggiamenti per il compleanno di qualcuno della nostra comitiva, quelle notti in cui ascoltavamo la musica a volume massimo, con le casse che rimbombavano e facevano tremare le finestre, momenti in cui ballavamo fino a quando le gambe ci mollavano, ebbene, quelle notti mi mancano. In quelle notti nascevano storie e morivano altre storie. In quelle notti parlavamo dei nostri progetti, strillando per sovrastare il rumore assordante della musica gracchiante che fuoriusciva dagli altoparlanti malandati.

I ricordi degli aromi e dei rumori, dei colori e dei suoni, dei sentimenti e delle sensazioni vissute nel mio paese d’origine, galleggiano nella mia memoria. Le ansie degli esami universitari, gli incontri casuali per strada e l’agglomerazione mattutina nella metropolitana che attraversava la città per portarmi all’Università, tutto ciò mi fa sentire un nodo nello stomaco.

Ritorno a Bucarest e al posto della città agglomerata che avevo lasciato più di vent’anni fa, alla mia partenza per l’avventura di una nuova vita che aveva il contorno della città eterna, Roma, trovo una nuova città, con costruzioni imponenti e megastrutture commerciali, grattacieli nel centro storico che adombrano le vecchie costruzioni ad alto rischio sismico ma impossibili da demolire. La gente che cammina per strada è diversa da quella che ho lasciato alla mia partenza, parla anche in modo diverso, utilizzando un gergo a me incomprensibile, pieno di neologismi e parole prese in prestito dalle altre culture oppure dai nuovi orizzonti virtuali, della vita in Web. Sono vestiti bene, i negozi sono sempre pieni di nuovi acquirenti e il livello della vita è migliorato in modo considerevole. Faccio parte di una popolazione che ama le sue radici ed è fiera della sua origine, una popolazione di persone belle e che amano la cultura, in ogni sua sembianza. Una popolazione curiosa e sempre alla ricerca delle risposte ma che ama in modo profondo il proprio paese.

Ora noto le differenze, vedo che la città è molto curata, anche nei minimi dettagli e che la gente è molto rispettosa di ciò che la circonda. In ogni angolo della strada ci sono dei posti specialmente creati per far giocare i più piccoli, con altalene e scivoli vivamente colorati e che hanno un loro fascino particolare. Ai vecchi parchi, isole paradisiache nel centro urbano della capitale romena, sono state portate delle migliorie e continuano ad effettuare lo scambio di ossigeno necessario alla città per respirare aria più o meno pulita. Sotto un cielo sorridente, con un sole che fa brillare come stelle diamantine la superficie del lago, al centro del parco Carol, che si chiamava “Della Libertà”, ci sono tanti bambini che giocano o passeggiano, fanno i giri del parco con le biciclette oppure con i pattini a rotelle. Le mamme o le nonne spingono le carrozzine con dentro bambini dai visetti paffutelli e rosei, giovani e meno giovani che passeggiano mano per mano e ragazzi che studiano un’ultima lezione prima dell’interrogazione oppure leggono qualche pagina dell’ultimo bestseller uscito nelle librerie. Verso l’uscita, all’ombra degli alberi secolari, si trova il teatro estivo da dove si sentono le musiche allegre dello spettacolo diurno rivolto ai bambini.

Proprio al centro del parco, su un’altura creata per dare l’impressione di magnificenza, erge il Mausoleo del Soldato Ignoto, senza le spoglie del soldato ignoto, mausoleo dalla storia più strana che possa esistere: elaborato e costruito dal governo comunista, per accogliere le spoglie del soldato ignoto, era diventato luogo di riposo eterno dei capi della nomenclatura dittatoriale e doveva essere anche luogo di sepoltura di Ceausescu. Una mescolanza di granito nero e rosso, di un’altezza vertiginosa, è stato derubato dagli sciacalli. Messo sulla lista dei monumenti da demolire per far posto a una Cattedrale, è stato salvato e riabilitato come monumento storico.

Questo mausoleo fa parte della mia storia perché qui venivo spesso, insieme a mio fratello o ai compagni di classe, per ammirare la fiamma eterna che bruciava all’interno della stella e per infastidire i soldati che facevano la guardia, in posizione perfettamente rigida e che non potevano rispondere in alcun modo alle nostre domande. Per questo motivo, avevamo una serie infinita di barzellette da raccontare, sperando di riuscire a strappare almeno un sorriso, ma non riuscivamo a fargli neanche battere una ciglia. Erano momenti esilaranti e ogni volta che ritorno a Bucarest trovo un motivo qualsiasi per attraversare il parco e soffermarmi davanti al mausoleo.

Trovo tutto cambiato, persone e luoghi ma cerco di ritornare a sentire il palpito della vita arcaica, antica, della storia indiscutibilmente vera e profonda dei miei antenati, i daci.

Parto per un lungo viaggio e mi avvio verso Sarmisegetusa, capitale e importante centro socio-politico ma anche religioso dei miei antenati. Esistono due parti distinte, Sarmisegetuza UlpiaTraiana è quella più conosciuta, che ospita le vestigia della presenza dei romani nella zona. Ma quella che più mi interessa è Sarmisegetuza Regia, la vera capitale antica. Riesco ad arrivare con molta difficoltà all’interno di una fitta foresta e mi avvio verso l’entrata attraversando una salita costellata di pietrisco che brilla sotto la luce fioca che penetra tra i rami fitti degli alberi, padroni del posto. La mia amica, Giliola, mi attrae l’attenzione sul silenzio della foresta e sul fatto che nessun animale, uccello o insetto riesce a vivere all’interno della foresta. Cammino sulle orme dei miei antenati, calpesto le stesse pietre che formano la via verso il centro della foresta, respiro l’aria pulita fornita dagli alberi secolari che circondano la zona e ascolto il sussurro del fiume serpeggiante. Non c’è neanche un alito di vento e il silenzio è assordante: non un battito di ali, non un cinguettio allegro, neanche un essere animale passeggia per quella stranissima foresta ancestrale che era stata scelta come centro strategico, dimora dei capi e del sacerdote-dio. Dopo una lunga e ripida salita, arriviamo nella ampia radura che ospita un tempio di somiglianze megalitiche, considerato tuttora come spazio energetico vitale. Tutto trasuda storia e verità ancora non svelate completamente, enigmi collegati a un popolo speciale, forte e fiero, l’ultimo rimasto in piedi di fronte alla potenza conquistatrice dell’Impero Romano.

Torniamo indietro verso Bucarest, io felice di aver visitato questo posto, riproponendomi di ritornare a visitarlo ancora e ancora, di far sapere ai miei conoscenti che posti magici ha il mio paese di origine.

A casa incontro vecchie conoscenze, vicini di casa oppure compagni di scuola che mi appaiono completamente cambiati. Probabilmente anche io sembro cambiata, non sono più la giovane donna, appena licenziata dall’Università, che ha lasciato la sua vita e il suo paese per iniziare una nuova avventura, a Roma. Tutti mi ripetono la stessa cosa: «Hai una cadenza strana quando parli, sembri più un’italiana che una rumena».

Mi sento diversa, è vero, non sono più parte completa di questo mio paese. Le mie radici sono cambiate, ampliando il terreno in cui sono affondate. Una parte traggono il nutrimento iniziale, quello formativo dello spirito e del carattere, nel terreno fertile e ricco della Romania mentre un’altra parte delle mie radici traggono il nutrimento dal terreno buono, dolce e accogliente della bellissima Italia. Non sono un’italiana ma non sono più neanche romena. Tutto è cambiato. Stando lì ho capito che l’Italia mi manca, con il sole quasi permanente, con il chiasso della gente e con la lingua italiana piena di significati e sinonimi, che mi permette di esprimere qualsiasi cosa voglia raccontare, con una ricchezza indescrivibile. Mi mancano i miei figli, metà italiani e metà romeni, che amano l’Italia più di loro stessi ma sono pronti a combattere contro chiunque parli male della Romania. Mi mancano le onde che si infrangono sulle scogliere e delle quali l’Italia non scarseggia, mi manca l’aria respirata a pieni polmoni nelle mattine di primavera, quando tutta la natura si risveglia e i giardini lussureggianti delle ville che portano in bella vista tutto ciò di cui possono vantarsi.

Mi manca l’uomo della mia vita, mio marito, italiano. Mi manca il mio angoletto di Romania che, in fin dei conti, ho ricreato da sola a Roma: un piccolo angoletto con tutti gli odori appartenenti alla Romania.

In Romania c’è il mio passato ma il mio presente si trova qui.

La mia casa è ovunque mi porta il cuore e il mio cuore batte forte sia per la Romania sia per l’Italia.