Stanza degli ospiti

Per il mare aperto

 

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.

Inferno Canto XXVI

 

 

 

Caro Giordano,

non sono a casa mia. Ho dormito qui. Mi è venuta voglia di scriverti. Ho trovato questo pezzo di foglio a quadretti e una penna. È anche macchiato. So che non baderai alla forma.
Sarà come parlarti.

Piove. Di certo fuori c’è profumo di terra bagnata.
Dalla finestra il muro di verde distende le foglie. Come un gatto si allunga quando lo spazzoli. L’acqua è la striglia.
In questa camera c’è odore macerato di umori e malattia.
È  un’estate meticcia. Un tempo originale quest’anno.
È mattina. Il tè fuma nella tazza e Maria muore nel letto.
È anziana lo so.

Mentre mettevo il miele di castagno nel tè, mi è tornata in mente una mail che mi hai mandato qualche anno fa. La cronaca della morte di tua madre, e forse perché adesso ti conosco meglio o forse solo perché anch’io veglio al capezzale di questa donna che mi è cara, ancora di più mi commuove.
Ti scrivo per uno sfogo. So che capirai.

Maria muore. Si è tolta la dentiera non mangia più. La bocca senza armi afflosciandosi ha risucchiato il volto. È un pesce minuscolo nel mare delle lenzuola. Con due occhi grandi, improvvisi. Mai visti.

Come mancasse la luce.

Ha posato i denti sul comodino. Si è arresa.

Noi, la gente che le vuole bene, siamo qua facciamo i turni. Spazziamo in terra. Chiacchieriamo di lavoro, di cosa fare per cena. Le aggiustiamo l’ossigeno. Parliamo del mare che non si riesce ad andare con questo tempo. E Maria muore. Mentre i ragazzi sono stati bene in campeggio. Lei sostenuta da cuscini dietro la schiena, zavorrata alla terra dai tubi che la tengono in vita, ci guarda. Siamo un incubo.

Troppo amaro il tè questa mattina. Meglio aggiungere miele.
Ripenso a quello che hai scritto. Alla serenità tua e della tua famiglia nonostante la morte. Impotenti ma orgogliosi di esserci.
Hai detto che sentivi una specie di gioia perché tutti quelli che le volevano bene erano lì. E anche che qualcosa aveva amplificato le tue percezioni. Sentivi che era contenta di voi.

Credo fosse il dolore che amplificava.

Anche a me capita.

E io ti dico invece che Maria ha negli occhi un lampo di odio. E mentre ci passa in rassegna il suo dolore come grandine di vetro si scheggia sulla mia razionalità e mi taglia dentro.
Il suo disgusto per lo strazio, lo schifo per l’impotenza. La maledizione per un’ennesima terribile prova dopo una vita di merda.
Questo io sento nell’amplificazione creata dal dolore. Posso toccarlo con le mani nell’aria.

Suonano al portone. Scendo. L’antica scala di pietra sopporta bene il peso delle mie fantasie. Fuori c’è profumo di terra bagnata. Da sotto la cerata gialla si affaccia il postino. Firmo un foglio. Non ho fiato per parlare. Piove. Le pozzanghere sono come sempre, anche gli ombrelli, le scarpe della gente, le macchine che vanno. Il priore grasso che tiene la gonnellona alzata mentre attraversa la strada. E altri che muoiono in altri posti.

 Niente cambia per il dolore di un singolo.

 Mi sporgo dal portone a guardare il cielo. Lecco una goccia di pioggia. Non è salata. Non è una lacrima.
A fatica risalgo le scale.
L’odore nella stanza sembra più forte. Maria non ha mutato espressione, le sistemo un po’ il cuscino. Controllo l’ossigeno. Le accarezzo una mano. Niente. Respira. Torno a scrivere.

Prima che morisse tua madre forse hai pensato a quello che avresti potuto fare meglio. È così. C’è sempre qualcosa che avremmo potuto fare meglio. Difficile è seguire le raccomandazioni di Seneca, difficile è ricordare che si può morire in ogni istante, che anche chi amiamo può farlo.
Difficile conciliare la nostra vita con quella di altri.

Ricordo le tue parole. Ad un certo punto hai sentito che c’era qualcosa di strano, come se a tua madre mancasse ancora un’ultima cosa. D’istinto ti sei avvicinato, forse l’hai toccata e poi con stupore ti sei sentito sussurrare  – Vai mamma, hai fatto tutto ciò che dovevi. Vai tranquilla …

E lei proprio dopo averti ascoltato è morta. Per magia è partita. Ha lasciato che il mare oscuro si richiudesse sulla sua combinazione. Tu, il più piccolo dei suoi figli, nemmeno tanto forte, quello meno presente, hai sentito che aspettava da te l’ultimo incoraggiamento, la rassicurazione che eri pronto a lasciarla andare. La sua morte è stato un grazie alle tue parole.

Maria non è mia madre, è la nonna dei miei figli. Non abbiamo mai avuto molta confidenza. Ma le voglio bene. Vorrei anch’io poterla calmare. Vorrei poter strappare la rete che l’ha pescata e darle pace. Guardo attraverso le maglie il suo dolore. Non posso liberarla.

E tutto è così strano. Tutto continua, nessun segno nel mondo dimostra la lotta di questa donna. Io stessa ho fame. Vado al cesso. Dormo. A volte quando siamo in gruppo rido anche. Ma mi pento subito. Forse hai provato anche tu questo disordine nelle emozioni.
Del resto non tutti reagiscono al dolore nello stesso modo. Martedì per esempio, quando sono arrivata qui, la porta era chiusa. Ho aperto con la mia chiave.
Per dirti com’è strano il dolore.
Tu non sei mai venuto in questa casa. Appena apri ti trovi davanti il tavolo della cucina.
Martedì sul tavolo mezzo apparecchiato, c’era anche mio cognato con la sua bella che scopavano. Sulla tovaglia e con la madre moribonda in camera.
È stato quasi da ridere. Anche tu non ti saresti scandalizzato.
Come in un film accelerato, lui si è girato di schiena, ha tirato su i pantaloni, lei ha abbottonato la camicetta, tirato giù la gonna e ha cominciato a sparecchiare.
Non mi è venuta in mente nessuna parola. Li guardavo Giordano, ma mi scappava da ridere e per questo mi sentivo in colpa.

–          Scusa – ha detto lui, mentre con una mano cercava di pettinarsi – Non ti abbiamo sentito arrivare.
–          Mi spiace – ho risposto – non volevo  – Mentre lo dicevo devo aver fatto una faccia molto seria. Ma era per trattenere il riso. Tu lo sai. Non perché li criticavo.

E lui avvilito.

–          È perché sono triste per mia madre che non abbiamo saputo trattenerci …
–          È così …  Conferma la ragazza.
–          Non posso vederla soffrire … Continua lui.
–          Cercavamo solo di tirarci su …

Le parole non mi venivano. Era rimasto un panino schiacciato sul tavolo. Eravamo tutti così ridicoli. Sono andata da Maria. Era assopita, quasi seduta sul mucchio dei cuscini. Sta in quella posizione da più di un mese ormai. È per respirare.

Ognuno ha il diritto di reagire come può al dolore. Sono certa che sarai d’accordo con me.

Tu, che hai scritto di non aver provato dolore quando tua madre ti ha lasciato, al suo capezzale quando era appena morta, hai dovuto raccontarle una storia. Lo hai fatto con le parole dell’Ulisse di Dante, volevi che la tua voce l’accompagnasse per il mare oscuro oppure, volevi che sapesse che, per forza, durante la vita avevi dovuto lasciarla sola seguendo le tue passioni,  assecondando “l’ardore ch’i ebbi a divenir del mondo esperto”. Questo tuo modo di dirle addio spiegandole  mentre perdeva l’ultimo calore, mi ha fatto piangere. Io che non piango mai.

Ho dovuto prendere un altro pezzo di foglio a quadretti, in questo c’è un conto qui nell’angolo.

 Mentre guardo Maria e il crocefisso di gesso che ha accanto, penso che a lei reciteranno preghiere quando se ne sarà andata. Io no. Non so pregare. E poi che dio è uno che fa soffrire tanto anche per morire.

Spero che muoia presto. E di vederti presto. Queste storie fanno troppo pensare. Ed io ho bisogno di bere vino in buona compagnia.
Abbi cura di te.

Sto tornando a casa. Non ho spedito la lettera a Giordano, l’ho buttata in uno di quei cestini per la spazzatura, nel centro storico. Lui non c’è adesso, è partito per non ricordo quale viaggio. Chissà quando l’avrebbe letta. E poi magari lo avrebbe rattristato appena tornato trovare una lettera simile. Quando lo sento gli dico solo che è ora di bere vino. Poi se capita gli racconto a voce. L’ho usato come se fosse qui, per chiacchierare un po’. L’importante è sapere che vive. Mi ha fatto bene.

L'autore

Monica Dini

Monica Dini vive e lavora a Camaiore paese della campagna toscana. Ha pubblicato le raccolte di racconti: Sulle Corde a cura della Società Speleologica Italiana (2006), Leggerezze – Besa Editrice (2009), Lezzo – Tralerighe Libri (2015), Angoli Acuti – Tralerighe Libri (2017). Uno dei suoi lavori è presente nella raccolta di racconti HOTell Storie da un tanto all’ora edita da WhiteFly Press. Ha collaborato fino alla fine con la rivista on-line Sagarana diretta dal Prof. Julio Monteiro Martins, è stata più volte ospite della rivista on-line El-Ghibli diretta dal Prof. Pap Khouma, ha collaborato la rivista Prospektiva di Andrea Giannasi. Alcuni suoi racconti sono apparsi su La Macchina Sognante la cui macchinista è la scrittrice Pina Piccolo. Un suo scritto è presente nel primo numero della rivista DieciCento fondata da Carlos Bolaños e Nicola Feo (2017).