Interventi

Scritture migranti: il caso degli autori lusofoni in Italia (terza parte)

Capitolo 4

4.1 L’idea di italianità che muta

Inizia dunque a farsi strada l’idea del nuovo cittadino italiano come identità plurima[1] che altro non è se non la somma delle proprie diverse appartenenze.

Il bisogno d’appartenenza è parte della natura umana. Ci accomuna tutti.

Siamo pronti a trasformare e rimodellare tutto di noi, dalla nostra estetica, al modo in cui agiamo, pensiamo e ci presentiamo agli altri pur di rientrare nei giusti canoni, nella scatola perfetta preconfezionata.

Ho imparato fin da piccola che praticamente nulla di ciò che sono e ciò che appaio, risulta convenzionale ai più.

O forse è la combinazione di ciò che sono a confondere.

Ho imparato ad essere coraggiosa abbastanza da difendere e reclamare a gran voce ciò che di me si vede, che sono donna e che sono nera/eritrea. Fiera è la parola…quasi un mantra..

Solo col tempo ho trovato le ovaie di reclamare anche ciò che di me non si vede, che sono milanese (di origine non controllata ovvio) e che sono lesbica (di origine controllatissima).

Ho capito l’importanza di crearsi la propria casella in cui rientrare perfettamente, per poi distruggere anche quella non appena siamo pronti ad un nuovo passo avanti…

A questo punto i pronomi “noi e voi” non possono più essere usati contro di me per farmi sentire scomoda nella mia stessa pelle e ospite nel mio stesso paese.

Sono parte di un movimento, lavoro per il diritto di cittadinanza e i diritti lgbt.
Un documento (la cittadinanza) certo non risolve ogni cosa, ma è un ottimo punto di partenza..

Faccio il meglio che posso, con le carte che mi sono state concesse, e a guardare bene, sono delle carte niente male.

Fiera è ancora una parola che mi appartiene, ma RESILIENZA è la parola che descrive il mio modo di essere italiana.

Donna. Nera. Lesbica. Eritrea. Milanese. Figlia di immigrati.

Seconda generazione ma seconda a nessuno!

Medhin Paolos[2]

4.2 Gli scrittori di seconda generazione e l’italiano come unica possibile lingua di scrittura.

Mentre per gli scrittori migranti scrivere in italiano è una scelta con tutte le implicazioni ad essa legate, per gli autori di seconda generazione non si tratta di scelta. Essendo nati, o comunque scolarizzati in Italia, la lingua scritta per loro è indubitabilmente l’italiano, non si tratta dunque di una lingua scelta, ma dell’unica lingua possibile.

Secondo Graziella Favaro l’apprendimento dell’italiano da parte di alunni di origine straniera ha due ragioni apparentemente contrapposte ma in reltà complementari. Essi infatti utilizzerebbero la L2 sia per essere invisibili, cioè per esigenza mimetica, che per diventare visibili, per ricostrure la propria identità nella L2[3].

Spesso la conoscenza dell’altra lingua è esclusivamente orale o comunque legata all’espressione orale, è la lingua degli affetti, della vita familiare, l’italiano invece è la lingua che si utilizza fuori casa ed è quella in cui si scrive.

A tal proposito Igiaba Sciego si esprime così:

… Infatti, io sono proprio una scrittrice migrante di seconda generazione, nata in Italia da genitori migranti e un po’ migrante nel cuore (per non parlare poi del fisico). La mia formazione culturale è italiana, la lingua in cui scrivo è l’italiano (non per scelta, ma per corso naturale)…ma il mio vissuto è legato a doppio filo con la madrepatria del cuore, ossia quella Somalia martoriata dei miei genitori. Indagare su questo tema mi sembrava un’opportunità sia per me stessa, sia per gli altri: esperti, professori universitari, ricercatori, insegnanti, studenti, scrittori o semplici curiosi…

Cosa fa di me e dei miei pochi compagni (pochi ancora per poco) così diversi dagli scrittori di prima generazione. Prima di tutto la nascita. Spesso gli scrittori di seconda generazione sono nati qui, nel Bel Paese. O se non sono nati, ci sono venuti da molto piccoli (pochi della decade ’70-’80 sono frutto di matrimoni misti). Siamo figli di quella generazione di migranti approdata in Italia negli anni ’70-’80. Abbiamo frequentato le scuole italiane, abbiamo avuto una formazione culturale italiana, abbiamo vissuto parte della nostra vita in un habitat italiano (dico parte perché la casa per uno scrittore di seconda generazione non è un habitat italiano o lo è solo in parte). Quindi siamo italiani in tutto e per tutto.

La doppia appartenenza in questi scrittori non è sempre vissuta serenamente, spesso anzi il percorso che porta ad un’accettazione di questa identità plurima è accidentato e difficoltoso.

Il conoscere, più lingue e più culture sicuramente è una ricchezza che però non viene sempre vissuta come tale soprattutto durante l’infanzia e l’adolescenza.

All’epoca scrivevo sempre temi riguardanti la mia italianità, la mia cosiddetta anima bianca. Io di anime ne ho tre: la bianca, la nera, la grigia. Quando stavo a scuola quella che predominava era la mia anima bianca. Scrivevo racconti legati alla storia del Bel Paese, mi ricordo quelli dedicati al Risorgimento, a Garibaldi. La mia era un’esigenza forte – ora, con il senno di poi lo capisco – di affermare il mio Io. Volevo dimostrare a me stesso, a tutti, che potevo essere uguale agli italiani. Conoscevo la loro storia la loro geografia, le tradizioni, la letteratura quanto loro se non di più. Un gioco con me stesso o forse contro me stesso. Questa ricerca dell’anima bianca ha poi ceduto il posto alla scoperta dell’anima nera, delle mie isole, della mia Capo Verde.

Con il tempo ho capito che in me dominava il grigio pero… sì, la mia anima è anche grigia. È un colore che non ha una buona nomea. […] Per me invece il grigio è vita. Se uno ci riflette un attimo, il grigio è l’incontro del bianco con il nero, è la fusione, la via di mezzo, comprende tutto[4].

4.3 Jorge Canifa Alves

Jorge Canifa Alves è nato nel 1972 a Mindelo, isola di São Vicente, Capo Verde.

Nel 1979 raggiunge la madre già da qualche anno in Italia.

È dunque, a tutti gli effetti quello che si suol dire un italiano di seconda generazione.

Questa doppia appartenenza viene affermata e difesa sia teoricamente, sua l’affermazione: due culture sono meglio di una, hai un orizzonte più ampio, più possibilità di scelta, che praticamente con l’impegno nell’associazione Tabanka, con la sua attività di collaborazione col portale italianipiù[5] ma anche con la sua attività teatrale. É stato anche vice presidente della Consulta per il V municipio di Roma per l’emigrazione.

Dopo una permanenza di tre anni in Spagna tra il 2009 ed il 2011, torna a Roma dove vive attualmente.

Ad oggi ha pubblicato due raccolte di racconti: Racconti in altalena, Edizioni dell’Arco, 2006 e  Il Bacio della sfinge, Fuoco Edizioni, 2008, il saggio Claridade. La coscienza illuminata di Capo Verde, Fuoco Edizioni, 2011 ed un libro di poesie Kronos’90: poesie in bianco nero e grigio, Frecciadoro edizioni, 2012.

Jorge Canifa Alves assieme ad altri giovani scrittori italiani di origini altre quali ad esempio Igiaba Sciego e Cristina Ali Farah, sta compiendo nella letteratura quel percorso di rivendicazione della propria italianità senza se e senza ma che la sua generazione è chiamata a percorrere in tutti i campi da quello letterario, a quello musicale (Amir Issaa, Jerusa Barros), a quello politico, si pensi a tal proposito alle campagna per il diritto alla cittadinanza L’Italia sono anch’io o al fatto che, finalmente, i giovani di seconda generazione comincino a vedersi rappresentati anche nelle istituzioni (Khalid Chaouki eletto alla Camera dei Deputati nelle liste del PD).

Difficile riuscire a non farsi confinare nello scaffale degli scrittori esotici in cui spesso vengono confinati pur con le migliori intenzioni, soprattutto posto che le influenze dichiarate sono tutt’altro che esotiche.

…possiamo dire che nella tua sperimentazione stilistica della seconda raccolta ( Il bacio della sfinge ) sperimenti anche dal punto di vista visivo? Legami con la poesia futurista?

Beh, sì qualcosa della poesia futurista c’è… mi è entrato dentro attraverso Aldo Palazzeschi; c’è la ricerca della sintetica visualità di Ungaretti; c’è il visivo-onirico di Dalì; ma più di tutti c’è Italo Calvino con i suoi pilastri: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità… amo la visibilità di Calvino, e se consideriamo che il mondo culturale odierno corre sul binario rapidità-visibilità del cinema (ad esempio), vediamo bene come non si possano non condividere le idee di Calvino a tale proposito[6].

4.3.1 Conversazione con Jorge Canifa Alves

Di seguito riporto la trascrizione dell’intervista rilasciatami da Jorge Canifa Alves il 25/02/2014:

Tu come ti senti rispetto a tutto questo discorso critico sulla letteratura della migrazione?

Noi (Igiaba Sciego, Cristina Ali Farah ed io) ci siamo sempre battuti contro questa cosa della cosiddetta letteratura della migrazione.

Cosa vuol dire letteratura della migrazione? Assolutamente niente, per noi che siamo nati qua oppure che siamo arrivati qua da piccoli. Non ha molto senso perché letteratura della migrazione è qualcosa che tu scrivi con uno sguardo altrove o proveniendo da altri posti. A noi della seconda generazione (come ci chiamano) io, Igiaba o Cristina, che scriviamo non ci calza molto bene addosso.

Spesso scriviamo storie anche di paesi lontani, anche del nostro paese (di origine), ma allora dovrebbe essere definita letteratura della migrazione anche quella di Emilio Salgari che scriveva storie ambientate in India pur non essendoci mai stato? No. Lui è definito comunque un autore autoctono, un autore italiano alla stessa stregua dovremmo essere definiti anche noi. Scrivere con una mentalità fuori non vuol dire essere uno scrittore della migrazione scrivere essendo solo un migrante, anche perché le nostre anime dopo lungo tempo qui in Italia, dopo una vita qui in Italia sono anime italiane in qualche modo.

In un lavoro che ho effettuato qualche anno fa (evidenziavo che) il comune denominatore di questi scrittori, tra i quali rientro anch’io, è quello di un incontro con le altre culture partendo da un punto, che nel nostro caso è l’Italia, ci troviamo a descrivere realtà ambientali e culturali completamente diverse da quelle che sono l’Italia. Quindi l’ho definita più che letteratura della migrazione una letteratura dell’incontro con l’altro, una specie di meet literature, una meeterature.

Vedi anche nei racconti di Igiaba dove spesso, in alcuni libri (cfr. Igiaba Sciego, Oltre Babilionia, Roma, Donzelli, 2008) incontra personaggi marocchini o argentini o francesi o Cristina Ali Farah che parte dall’Ungheria e rientra in Italia e riesce… o anche il best seller di Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio che cos’è se non l’incontro di varie realtà culturali?

Letterature della migrazione dà la sensazione più di qualcosa che non c’entra con noi, sembra qualche cosa che viene da fuori per essere qualcosa solamente di una nicchia, solamente per quella sezione di lettori o di scrittori, invece noi vogliamo incontrare altre realtà culturali, altre realtà che non siano solamente letterarie ma anche nel campo della pittura, della musica allargandosi un po’ negli ambienti totali.

Mi sembra di aver capito che tu fai anche teatro…

Si

Esiste dunque una produzione per il teatro in fieri?

In realtà ho già scritto in passato insieme ad altri autori italiani.

Insieme ad Anna Fresu e a Cristina Ali Farah ho scritto lo spettacolo Valigie che era un po’ il voler mettere insieme le realtà della migrazione attuale, dei migranti che vengono da fuori verso l’Italia e quella degli italiani che si sono trovati, in momenti particolari della loro storia, a dover necessariamente uscir fuori dal territorio nazionale era un voler incontrare queste cose.

Nel 2006 ho scritto uno spettacolo che poteva parlare invece della realtà culturale capoverdiana, di un’aspetto del mio paese, lo spettacolo è Gli Affamati, ho scritto questo spettacolo cercando di far vedere che certi problemi di un paese non sono solo di quel paese, o comunque ci sono molti fattori che nascono altrove.

In questo caso si parlava di una storia prettamente capoverdiana del 1943 però le radici erano in Europa. Quello che accadeva in Europa durante la seconda guerra mondiale produceva degli effetti anche a Capo Verde in quel periodo.

Ho collaborato alla stesura ed anche alla realizzazioned dello spettacolo Outsiders, uno spettacolo di giovani ragazzi capoverdiani che in questo caso voleva in realtà parlare di giovani e dei problemi dei giovani di seconda generazione qui in Italia, giovani tagliati fuori, come si evince dalla parola Outsiders, tagliati fuori da quello che è il contesto italiano. Giovani che nascono qui in Italia, crescono qui in Italia, arrivano a diciotto anni e improvvisamente si trovano ad essere stranieri perché non hanno una carta, un permesso di soggiorno, neanche il permesso di soggiorno riescono ad avere!

Oppure essendo usciti per qualche caso particolare dall’Italia si ritrovano ad avere tantissimi problemi.

…sì per via dell’interruzione della residenza…

Sono cose risapute e da cui non si esce,  dal problema dello ius soli a tanti altri.

Adesso invece sto collaborando alla produzione di un altro spettacolo che probabilmente uscirà a giugno su tutto quello che è condivisione .

É un aspetto che in Italia ed in Europa si sta perdendo la condivisione di ciò che appartiene a tutti.

Partiamo da un pezzo di pane che è un alimento comune in tutto il mondo e si cerca di spiegare il mondo della migrazione attraverso il pane.

Improvvisamente non si riesce a produrre quel pane in quel contesto e allora si deve addirittura arrivare sulla luna per produrlo …

[…]

Tu sei arrrivato bambino giusto?

Quindi sei madrelingua creolo…

Mah questo per me è un problema sai?

Io mi definisco madrelingua italiano perché io il creolo lo mastico con molta difficoltà… è come quell’italiano degli argentini…il mio è un capoverdiano degli anni ’70 che non c’entra quasi più niente col capoverdiano attuale perché la lingua si evolve in continuazione…[7]

Infatti ti chiedevo questa cosa perché mentre in autori arrivati già adulti si nota anche una musicalità diversa, nella costruzione della frase, per quanto corretta, nellla tua scritttura, invece, non si nota questa particolarità, pur analizzandola approfonditamente non ne ho trovato traccia e questo è evidentemente normale poiché non v’è motivo per il quale dovrebbe essere presente, sarebbe invece un artificio se ci fosse.

Mi chiedevo invece qual’era il tuo rapporto con il creolo o con il portoghese, adesso in età adulta, quando e se li utilizzi…

Il portoghese quasi niente, è una lingua che non sento proprio mia[8].

Il creolo lo utilizzo raramente: con la mia famiglia quando vado a Capo Verde naturalmente e qualche volta con degli amici qui a Roma…

Ultimamente ho provato a mettere in creolo la mia produzione poetica, in collaborazione con un mio amico musicista Adão Ramos stiamo provando a fare anche una canzone.

[…]

Quindi per quanto riguarda il rapporto con l’altra lingua possiamo dire che tu non la usi correntemente, non c’è una sfera familiare in cui viene utilizzata.

No

So che Maria de Lourdes Jesus organizzava, già nel 1995, con un’associazione di donne capoverdiane, corsi di lingua per i bambini proprio allo scopo di tenere vivo il legame con la cultura d’origine.

Vedo che spesso il rapporto con la lingua dell’altra parte è abbastanza conflittuale…

Io mi sono sempre battuto anche su questa cosa, la lingua è sì lo specchio di un popolo, ma non è tutto. Ci si avvicina alla propria cultura (d’origine) anche attraverso altri aspetti, io dico sempre: non fermiamoci sulla lingua, ci sono altri aspetti come la cucina del posto, la cultura…

Con questa associazione (Tabanka) per cui ha lavorato anche Maria de Lourdes abbiamo seguito dei progetti di acculturizzazione, di avvicinamento alla propria cultura (di origine) perchè spesso la difficoltà di un bambino a relazionarsi alla cultura dei genitori è legata all’incapacità di vedere gli aspetti culturali del paese d’origine dei propri genitori.

Ho visto che molti bambini anche nelle scuole dove insegnavo prima avevano difficoltà a parlare della propria cultura perchè nelle scuole italiane, prima, non se ne parlava delle culture altrui, poi perché non avendo dei punti di riferimento culturali non potevano scambiare le loro opinioni culturali con gli altri bambini.

Quello che noi abbiamo fatto invece è stato proprio quello di dire: Guarda! La tua cultura non è inferiore a quella italiana, è diversa…

…certo! Avete fornito una rappresentazione positiva…

Sì, quindi li abbiamo riportati nella cultura capoverdiana attraverso il mostrare loro l’esistenza di autori, di video, di quant’altro potesse, in qualche modo stimolare il ragazzo, l’alunno ad addentrarsi di più nella propria cultura anche attraverso la musica e tante altre cose…

I giovani attraverso la musica entrano molto volentieri nella cultura d’origine dei genitori.

Ho notato che tu scrivi prevalentemente racconti, è una casualità o la tua è una scelta consapevole?

È una scelta consapevole.

Sto scrivendo un romanzo e spero che prima o poi qualcuno me lo pubblichi… non è vero che lo sto scrivendo, l’ho scritto ed è già in mano alla casa editrice […]

Però la scelta del racconto breve è una scelta consapevole, dovuta a diversi fattori: sia ad una questione personale che di gusto narrativo, perché molti anni fa, alle scuole medie ho avuto la possibilità di conoscere e di sposare l’idea del racconto di Italo Calvino che è il mio autore italiano preferito.

La leggerezza e il movimento sono due cose  che mi hanno sempre affascinato nei racconti di Calvino e anche la brevità.

Con il racconto breve dai una sensazione immediata.

Ho sempre paragonato il racconto e il romanzo ad un film e alla pubblicità.

La pubblicità è immediata, ce l’hai, la vedi.

Non devi neanche perdere troppo tempo nel ricostruire le fasi, ce l’hai, la vedi ed è tua.

Anche il racconto in qualche modo è così, sono quelle nove cartelle al massimo che ti danno la sensazione di un momento, di un attimo.

L’ho scelto anche in considerazione del tempo in cui viviamo, tempo in cui non hai effettivo tempo materiale di fermarti a leggere un libro, un romanzo e il racconto lo leggi anche stando in pullman, in metropolitana senza il problema “Oddio adesso mi perdo un particolare!”.

Dunque è stata una scelta che ho fatto consapevolmente anche se adesso penso che il momento sia ormai maturo per un romanzo.

Purtroppo vedo moltissimi autori contemporanei che scrivono romanzi senza saperli scrivere. Un romanzo secondo me è una cosa da vivere, un romanzo lo devi vivere, ci devi fare anche anni e anni dentro per poter entrare nei vari personaggi. Non scrivi solamente perché ti viene detto di scrivere un romanzo […] perché si sente alla fine che non c’è sostanza.

Io qualche cosa ho scritto, due o tre romanzetti ce li ho, devo assemblare i pezzi. Ci sono cose che sto scrivendo, anzi più che scrivendo metabolizzando da oltre vent’anni e so che quando scriverò sarà perché l’ho voluto in quel modo, quel personaggio ha vissuto con me in quei vent’anni nel bene e nel male […] so come è fatto se fa quella deteminata cosa…

Non è una cosa tanto per scrivere…

[…]

È un romanzo, in questo caso, particolare perché è una sperimentazione, è l’incontro di vari racconti (come ti dicevo io preferisco il racconto) che poi si uniscono ad un filo conduttore. C’è un filo conduttore che è quello di personaggio che cerca un’altra collocazione, un altro personaggio e nel mezzo ci sono tanti piccoli racconti, quindi si dovrebbe leggere nel complesso perché i racconti hanno un significato particolare che si scopre alla fine.

[…]

Il Bacio della sfinge è una sperimentazione artistica, è la ricerca di uno stile quindi trovi anche accostamenti di parole che in un contesto generale possono anche non aver significato però è una creazione artistica tipo: il vecchio che cammina col cappello di panna sulla spalla

4.3.2 Un autore italiano: Jorge Canifa Alves

Quali sono dunque i requisiti che vanno rispettati affinchè si ritengano italiani un autore o la sua opera?

Possiamo ritenere che Jorge Canifa Alves li soddisfi?

Non sappiamo se, allo stato attuale delle cose, sia in possesso o meno della cittadinanza italiana, ma riteniamo che senza ombra di dubbio sia autore italiano e che non abbia alcun motivo per essere relegato nello scaffale della letteratura della migrazione poichè, l’unica migrazione di cui si è reso protagonista è stata quella di un italiano in Spagna.

Tuttavia analizzando i racconti che ha finora pubblicato, assieme a molte altre influenze, troviamo anche un forte legame con la cultura d’origine che ritorna sia nell’ambientazione capoverdiana di La casa di acqua, Oltre la luna, Le ombre della luna[9], L’alieno, Palermo[10]che nei riferimenti culturali.

A tal proposito si veda il racconto Ramon di evidente ambientazione latinoamericana, in cui compare l’ELN della Colombia assieme a Che Guevara e dove, in un clima onirico, si gioca col nome della protagonista che diventa di volta in volta Solidea, Dea del Sole ed infine Sole.

Accanto a Che Guevara (riferimento eminentemente latinoamericano) compare Amilar Cabral ( riferimento assolutamente africano ) e la protagonista ha lo strano desiderio di “voler restare ma dover partire”, come dice Baltasar Lopes e…Ma chi è questo Baltasar Lopes? Boh! È come se avessi avuto a che fare con lui, in Africa[…][11]

Troviamo quindi anche la capoverdianità di Baltasar Lopes e dei temi claridosi, richiamo evidente anche in Le ombre della luna[12] che riporta immediatamente alla memoria opere come Os flagelados do vento leste[13] di Manuel Lopes.

Troviamo anche una forte attenzione al tema della negritudine che emerge chiaramente soprattutto in racconti come L’ultimo attimo o Sulla rotta degli squali .

Da me interrogato a tal proposito Jorge Canifa Alves ha così risposto: spesso scrivo con l’occhio (o la mente) di chi mi sta intorno… l’episodio che segue è descritto con occhio occidentale che però occidentale non lo è più e che, probabilmente non sa neppure cosa sia una carnagione scura, essendo ambientato il racconto in un futuro apocalittico dove non esiste più l’uomo come lo conosciamo oggi… chi racconta è un griot de futuro che racconta a memoria, mi sembra che dica qualcosa come:” ti racconto la storia così come lo hanno raccontato a me… così dovrai raccontarla tu”… come se il primo raccoglitore della storia fosse, appunto, un occidentale, il buon-occidentale che nella sua innocenza non vede il filo di razzismo nascosto nella frase qui di seguito riportata.

…Scura di carnagione ma pur sempre una splendida dea

 […]

La mia splendida capoverdiana…[14]

Invece in Sulla rotta degli squali la prospettiva da cui si affronta la questione è diversa: ma non è facile per un immigrato emergere in questa società, dove comunque prima di pensare alla palla devi pensare al pane da guadagnare ogni giorno…impresa tanto difficile quanto scuro sarà il colore della tua pelle[15].

 A tal proposito così l’autore spiega il cambio di prospettiva: Questo racconto invece è scritto con l’occhio di un giovane della seconda generazione che vede le difficoltà dei propri coetanei ad inserirsi in una società (quella stessa del buon-occidentale, soprariportato) dove prima o poi devi scontrarti con una società che ti considererà sempre straniero perché diverso nella tua conformazione fenotipica… Ricordo di una signora somala di Roma, ad esempio, che aveva dato ai suoi figli nomi italiani perché almeno al telefono avevano più possibilità di trovare lavoro: “al telefono con un nome italiano sei italiano al 100% anche se sei nero… magari poi vorranno vederti per un colloquio di lavoro… se ti presenti invece, e direttamente, senza essere passato per il telefono, magari neanche te lo fanno il colloquio perché vedono che sei nero”… triste ma vero!!!

Interessante notare come alcuni racconti si intreccino anche a distanza di anni ad esempio in Un’abbraccio di terra nella raccolta Il bacio della sfinge (2008) ritroviamo la casa di aqua che nell’omonimo racconto pubblicato due anni prima all’interno di Racconti in altalena (2006), era il riparo della bambina protagonista che viene ritrovata e riconosciuta dal figlio di questa.

Ho provato a chiedere all’autore se l’intento fosse proprio quello di trasmettere un’idea di continuità:

Sì, c’è continuità… Casa di acqua, prima generazione di migranti verso l’Italia… Un abbraccio di terra, seconda generazione, legato a quel desiderio dei giovani nati o cresciuti in Italia di ritornare nella terra natia. Un abbraccio di terra nasce da un gioco-prova sperimentazione all’interno di un laboratorio di scrittura creativa tenuto da Vincenzo Cerami all’Università La Sapienza… Non c’è una trama, nessuno sviluppo narrativo… la trama semmai esiste nell’episodio precedente di La casa di Acqua, in quest’abbraccio si sviluppa solo una visione descrittiva… Questa è la terra in cui ha vissuto mia madre e te la descrivo, senza pretesa, sembra dire l’occhio del narratore… continuità generazionale.

Troviamo anche diversi riferimenti alla realtà vissuta quotidianamente dall’autore come ad esempio la serie di racconti dedicati al resoconto del torneo di calcio vinto dalla rappresentanza capoverdiana ( Sulla rotta degli squali; Undici squali; Emergenza squali: è caccia senza frontiere; Il trionfo capoverdiano; Finale, Capo Verde – Marocco… la leggenda!; Il ritorno degli squali) che ben descrivono l’entusiasmo ed il senso di riscatto dell’intera comunità capoverdiana che si ritrova e ritrova l’orgoglio della propria capoverdianità, come spesso succede, proprio intorno ad un campo da calcio.

 I riferimenti al MundiaLido sono legati ad avvenimenti reali?

Realissimi, è la descrizione di ogni attimo del torneo dal punto di vista di un capoverdiano che non aveva mai vinto niente… senti l’unione di un popolo… i personaggi sono reali, anche nei nomignoli…

So che il torneo esiste realmente ciò che mi chiedo è se ciò che racconti sia realmente accaduto o meno e, se si, in quale edizione?

 Sono i miei ragazzi, quelli del 2007… ero stato operatore culturale per una colonia estiva di ragazzi capoverdiani nel 2001, e lì avevo conosciuto dei ragazzini straoridnari che mi avevamo riportato ad amare il calcio. Nell’estate del 2001 avevano affrontato anche squadre locali semiprofessioniste e avevano vinto partite impensabili… mi ero innamorato di loro e li avevo seguiti… nel 2007 alcuni di quei campioncini finivano nella selezione capoverdiana in Italia e vinsero il MundiaLido (LIDO, perché si svolge a Ostia Lido), con il cuore e le lacrime… a pagina 92, trovi l’articolo che scrissi per Internazionale (da “INTERNAZIONALE” 6/12 luglio 2007 – n° 700)

4.3.3 Due racconti inediti

Il romanzo in preparazione è dunque costituito da più racconti brevi tenuti assieme da un filo conduttore ma che già a se hanno un senso compiuto.

In Il bambino e l’arcobaleno, l’ambientazione è andalusa, il clima è onorico mentre tristemente aderente alla realtà è il pregiudizio verso il diverso mostrato dai genitori dei bambini, è necessario il cambiamento di prospettiva portato dalla spiegazione del padre di Alejandro dell’impossibilità di vedere i colori di suo figlio perché questo venga, utopisticamente, superato.

Da notarsi come venga messa in evidenza qui, come in altri racconti (ad esempio in La zingara[16]) la maggior apertura alla diversità dell’altro da parte di chi, già considerato diverso, accetta che vi siano punti di vista e modi d’essere che si discostano da quello del proprio gruppo di riferimento o da ciò che si considera la norma.

In La Zingara è la madre di una famiglia straniera, che a sua volta subisce il pregiudizio della comunità in cui vive, ad andare oltre il pregiudizio ed agire mossa da una sana solidarietà.

Allo stesso modo in Il bambino arcobaleno è il padre di Alejandro, bambino che non vede i colori dunque non è influenzato da questi nei suoi giudizi, a spiegare alla mamma di un altro bambino, che lo richiamava ad adeguarsi all’atteggiamento di rifiuto e timore del diverso di quello che avrebbe dovuto essere il suo gruppo di appartenenza, perché i criteri di esclusione del diverso che gli vengono proposti sono inaccettabili.

Decisamente più reale il racconto successivo, Un pranzo di natale clandestino, con alcuni riferimenti sicuramente presi dalla realtà (Barbara Hofmann è  infatti fondatrice e presidente di Asem[17], la famiglia Marzot potrebbe essere quella di Marzio Marzot).

Ambientato tra il Mozambico e l’Italia evidenzia ancora una volta le differenze tra il primo mondo ed il terzo, la violenza con cui la fortezza-Europa si chiude in se stessa e nei suoi privilegi e la necessità continua di personaggi-ponte che stando sia da una parte che dall’altra che aiutino le comunità ad aprirsi all’altro. 

4.4 Conclusioni

Questo lavoro è un tentativo di sistematizzazione della letteratura della migrazione prodotta da autori di origine lusofona in italiano.

Ho provato ad analizzare la cosiddetta letteratura della migrazione, intendendo per letteratura della migrazione quella prodotta sia da autori di origine italiana emigrati in altri paesi che quella prodotta da autori di origine altra immigrati in Italia, concentrandomi soprattutto sugli autori di origine lusofona che scrivono in prosa.

Tra gli autori italografi di origine lusofona ho prima teoricamente poi, mi auguro, anche praticamente individuato due gruppi: gli scrittori migranti o di prima ondata e quelli di seconda generazione.

È sembrato corretto stabilire come discrimine tra scrittori migranti e di seconda generazione il fatto che avessero effettivamente compiuto una migrazione, ho dunque ritenuto esatto non definire migrante chi è figlio di migrante.

Gli autori presi in esame per il primo gruppo sono stati: Fernanda Farias de Albuquerque, Julio Monteiro Martins, Christiana de Caldas Brito e Claudiléia Lemes Dias, ritenendo che potessero essere esemplificativi non intendendo però in alcun modo escludere da questo gruppo nomi come Alvaro Santo o Paula Siega poiché ad esso appartengono di diritto.

Nell’analizzare questi autori si è potuto notare che, ad esclusione di Fernanda Farias de Albuquerque per la quale però si adottano criteri di analisi differenti in quanto facente parte di quegli autori che ancora necessitavano di un coautore madrelingua, tutti hanno vissuto quella che si suole chiamare migrazione intellettuale. Non sappiamo quanto questa costante sia casuale o meno ma ne prendiamo atto.

Il secondo gruppo allo stato attuale è costituito dal solo Jorge Canifa Alves al quale si spera si aggiunga al più presto qualche altro nuovo italiano di  origine lusofona a dimostrare ulteriormente che il processo di arricchimento di questo nostro paese continua proficuamente.

Sarebbe interessante poter approfondire ulteriormente l’argomento, sia dal punto di vista della linguistica, per quanto riguarda gli autori migranti, analizzando l’influenza della lingua madre sulla lingua in cui scrivono, che della sociolinguistica soprattutto per gli autori di seconda generazione, per i quali il rapporto con la lingua e la cultura d’origine è sempre frutto di un percorso, a volte accidentato, di accettazione e consapevolezza che diviene rivendicazione del proprio  diritto all’alterità e riconosciuto come valore positivo l’apporto di questa alla realtà italiana.

Posto dunque che il concetto di italianità è tuttora mutevole ed in via di definizione, trovo sterile la chiusura alle contaminazioni propugnata da qualche timoroso purista ed inevitabile includervi gli apporti dei nuovi italiani in quanto ormai parte delle infinite sfaccettature di questo variegato paese.

Appendice

Vengono di seguito riportati, per gentile concessione dell’autore, due racconti inediti che andranno a far parte del romanzo di prossima pubblicazione.

 Il bambino e l’arcobaleno

Guarda bene i tuoi compagni e noterai che

sono tutti diversi tra loro, e questa differenza è

una bella cosa. /…/ Il miscuglio è un arricchimento

reciproco. /…/ Ogni faccia è un miracolo, è unica.

(Tahar Ben Jelloun – Marocco) 

 Alejandro era rimasto a lungo a guardare quel suo primo arcobaleno, nel cielo di giugno, assalito da una strana curiosità… curiosità dubitativa! Lui non ci trovava nulla di assolutamente speciale eppure gli avevano detto il contrario, cioè, che un arcobaleno era un qualcosa di meraviglioso e che vederlo riempiva di gioia, tanta gioia! Ma lui non ci trovava niente di speciale, di bello? Niente. Niente di niente. Un arco vuoto che riempiva il vuoto bianco del cielo!

Sì, era rimasto deluso dall’attesa ma poi un passero nero aveva attirato la sua attenzione e aveva preso a corrergli dietro con lo sguardo dimentico già di quella piccola delusione.

Il sole, visto che non riusciva ad attirare l’attenzione del bambino, prese un batuffolo di nuvola e cancellò l’arcobaleno dal cielo… era la prima volta che un bambino si annoiava tanto, o meglio, non provava felicità davanti ad un arcobaleno! Mentre cancellava l’arco colorato gettò uno sguardo sul giardino di via de las Palmeras e vide il piccolo Alejandro correre avanti e indietro, con le braccia oltre la testa, sotto archi artificiali di acqua che ricadevano ridendo sul prato e sui fiori. Correndo rideva di cuore, di una felicità quella stessa che solo posseggono le anime innocenti mentre fanno qualcosa di veramente straordinario per loro. Correva come se stesse inseguendo il mondo, come se stesse inseguendo uno di quei sogni che non si afferrano neppure nel sonno ma che, comunque, sono capaci di farti provare le emozioni più grandi. Rideva come se mille fate stessero giocando con lui, come se fosse ubriaco di felicità.

Il sole non capiva. E neppure il padre di Alejandro capiva il motivo di tanta gioia, ma lo lasciava fare, lo lasciava stare sotto quella piacevole pioggia artificiale, in quella già calda mattinata di giugno, perché non lo aveva mai visto così felice.

Forse però lo capivano altri bambini che cominciavano a uscire di casa e a riversarsi nel giardino dove il fresco dell’acqua era sicuramente da preferirsi alla calura che si celava in casa. Huercal-Overa era un’oasi nel mezzo del deserto estivo dell’Andalusia.

Il caldo era sempre troppo opprimente e insopportabile e quegli spruzzi d’acqua rappresentavano una benedizione divina per i bambini, ma anche per gli anziani e per la popolazione in generale.

Alejandro era di passaggio lì con la sua famiglia. In realtà erano diretti a Granada ma sua madre aveva avuto le doglie del parto già a Puerto Lumbreras, e così avevano deciso di fermarsi a Huercal-Overa dove esisteva, per fortuna un ottimo ospedale…

Non era pensabile lasciare un bambino tutto il giorno in ospedale, così suo padre lo aveva portato a fare un giro lì nei dintorni.

Il caldo ancora non usciva di casa quando arrivarono al giardino; una grossa nuvola minacciava di rovesciare la sua acqua sul paesino, mentre l’arcobaleno, che aveva attirato l’indifferente attenzione di Alejandro, sostava sull’umida frase: “beh, forse, ha già piovuto!”.

Alejandro era rimasto a gambe penzoloni per un bel po’ seduto sulla panchina, accanto a suo padre e con i pensieri su quella meraviglia di arcobaleno che poi tanta meraviglia non era e stanco aveva trovato altro con cui non annoiarsi.

Ora, altri bambini giocavano con lui, sotto l’acqua, sotto lo sguardo attento dei loro genitori. E si divertivano da matti… con poco, anzi con niente i bambini avevano saputo inventarsi dei giochi divertenti: rincorrersi bagnati, giocare a mosca-cieca-umida e a nascondino protetti dall’invisibilità dell’acqua.

L’arrivo degli altri bambini aveva messo addosso al sole una gran voglia di ridipingere l’arcobaleno con tutti i suoi colori per divertire tutti loro, ma ci era rimasto un po’ male per l’indifferenza di Alejandro… come poteva un bambino della sua età, cinque o sei anni circa, non amare l’arcobaleno? Una cosa così meravigliosa e piena di colori? Come era possibile, tutti i bambini amano l’arcobaleno!! E pensando e ripensando sul da farsi, trovò geniale disegnare dei mini-arcobaleni tra un arco di acqua e un altro… ecco cosa poteva attirare l’attenzione di Alejandro considerando che era piacevolmente attirato dall’acqua… al sole piaceva pensare che emozionandosi per gli archi d’acqua, in realtà stesse provando felicità per i suoi mini-arcobaleni colorati.

Sì, tutti i bambini erano felici per i suoi mini-arcobaleni… anche Alejandro lo era! Ma si vedeva che in realtà quello che lo attirava di più era l’acqua e non i mini-arcobaleni… forse perché l’acqua poteva toccarla! Certo, l’acqua aveva sostanza, poteva essere toccata e meglio percepita dai sensi dei bambini, per questo attirava l’attenzione più di qualcosa che solo si poteva afferrare con la vista…ancora una volta, il sole, si ritirò a pensare un momento.

Intanto i bambini giocavano a schiacciare l’acqua saltando nelle piccole pozzanghere del giardino mentre, effettivamente, anche i mini-arcobaleni perdevano importanza e passavano già di moda e nessuno faceva più caso a loro…fortuna che il sole era stato rapido a tornare con una nuova idea: rendere tattile, rendere plastico l’arcobaleno.

Aveva ripreso con sè tutti i sette colori primari e si era nascosto con questi dietro il tronco di una palma… dietro il quale, dopo qualche minuto, corse a nascondersi proprio Alejandro mentre iniziava la conta di uno dei suoi nuovi amichetti.

Tutti i bambini erano stati già tanati, quando da dietro l’albero uscirono due ombre di corsa… Il sole che era alle loro spalle non lasciava vedere i loro volti cosicché arrivarono entrambe le ombre a fare tana libera tutti senza essere identificati… Uno era Alejandro e l’altro… l’altro… l’altro era un bambino nuovo… un bambino di colore… anzi di colori. Sette per la precisione erano i colori che rivestivano la sua pelle: (i sette colori dell’arcobaleno), i sette colori dell’arcobaleno!

Il bambino Arcobaleno e Alejandro divertiti per aver fatto tana saltavano contenti gridando: “tana, tana, tana, tana”, mentre tutti i bambini erano paralizzati e quasi spaventati da quel nuovo bambino, da quel bambino tanto strano!

I genitori dei bambini, notando tanto silenzio improvviso, preoccupati, cominciarono ad alzarsi dalle panchine o ad uscire di casa cercando ciascuno il proprio figlio e… come lo trovavano si rasserenavano un po’ e tornavano ai loro impegni… o meglio avrebbero voluto tornare ai loro impegni! Cosa attirava tanto l’attenzione dei loro figli e li faceva stare in quello strano silenzio, senza bisbigli, grida, litigi e risa? Uno dei bambini, il più piccolo tra di loro, inizio a piagnucolare puntando il dito verso una direzione precisa: il bambino Arcobaleno!

E fu proprio allora che uno dei genitori si accorse del bambino strano e straniero… e allora… richiamò allarmata il proprio figlio! Anche gli altri genitori si erano accorti del nuovo bambino e tutti si erano sbrigati a richiamare il proprio figlio o a portarlo via con la forza, lontano dallo strano essere, dallo sconosciuto pericolo.

In pochi secondi Alejandro solamente era rimasto accanto al bambino Arcobaleno, e insieme non saltavano più, solo si domandavano stupiti perché tutti stessero andando via, perché venivano richiamati a casa se in casa non si poteva stare per il caldo insopportabile che faceva e, poi, non era ora né del pranzo, né della cena! Poi ridendo si erano seduti su di una panchina sicuri che presto sarebbero tornati tutti.

Uno dei genitori chiamò, da lontano un uomo distratto nel leggere il giornale, e lo informò allarmato che suo figlio stava giocando con un bambino dai vari colori e che probabilmente aveva una malattia della pelle, contagiosa, sottolineò. L’uomo, il padre di Alejandro, levò gli occhi verso suo figlio che giocava tranquillo, sulla panchina, con il suo nuovo amichetto.

Il sole cercava ancora di capire! Aveva creato qualcosa di straordinario per tutti i bambini e questi invece di divertirsi si erano spaventati, proprio come gli adulti che, quelli si sa, oramai non sanno più stupirsi né interagire con la fantasia… ma loro i bambini, avrebbero dovuto esplodere di felicità davanti all’arcobaleno creato con forma di bambino, uno di loro! Come potevano restare paralizzati dalla paura davanti ad un qualcosa di così meraviglioso come un arcobaleno che potevano, ora toccare e con cui potevano giocare? Solo quello che prima nutriva tanta indifferenza verso i sette colori, ora, sembrava provare gioia giocando con questa sua creatura!

Alejandro!, lo chiamò suo padre. Il bambino corse da suo padre con il suo nuovo ed unico amico… corsero insieme sotto l’acqua schiacciando tutte le pozzanghere che incontravano. Ridevano molto divertiti quando arrivarono dall’uomo, il quale non fece altro che chiedere loro quante pozzanghere avessero schiacciato? I due risposero che non le avevano contate ma che sarebbero tornati a schiacciarle e a contarle. L’uomo sorrise e li lasciò correre via.

Il sole non capiva come mai Alejandro continuasse a giocare con la sua creatura mentre tutti gli altri erano rimasti pietrificati dalla paura.

Una madre, si avvicinò all’uomo e visibilmente alterata gli chiese se fosse pazzo a lascia giocare suo figlio con quel coso colorato.

L’uomo chiese alla donna se lei per caso non fosse colorata, se non avesse colore! La donna disse che non era la stessa cosa, aveva un unico colore della pelle e non sette come quello sconosciuto! L’uomo, allora si alzò e pensieroso richiamò suo figlio!

Anche questa volta, i due bambini arrivarono correndo e ridendo e gridando “quindici, quindici” le pozzanghere calpestate.

La donna al loro arrivo aveva tentato di allontanarsi rapidamente, ma l’uomo l’aveva afferrata per il braccio e… aveva chiesto a suo figlio di che colore fosse il cielo! Bianco, era stata la risposta. Di che colore le montagne? Nere. E le case? Grigie. La donna? Grigia. E lui, Alejandro? Grigio. E il suo nuovo amico? Grigio. Molto bene, fece il padre e disse loro di tornare a giocare.

La donna non capiva. Il sole non capiva.

L’uomo spiegò che suo figlio non sapeva distinguere i colori… non sapeva giudicare le cose o le persone per il colore, ma per le sensazioni, le emozioni che questi sapevano trasmettergli. Un bambino è un bambino in qualsiasi parte del mondo, indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dai tratti somatici, da cosa indossa… non ha schemi mentali e riesce ad andare oltre le apparenze, oltre l’aspetto, oltre…

L’arcobaleno del cielo non regalava ad Alejandro nessuna emozione perché era solo una sfumatura di colori nella tonalità di grigio ed era anche irraggiungibile, mentre l’acqua poiché priva di colori poteva essere colorata con tutti i colori che la fantasia gli suggeriva al solo contatto.

Alejandro, e finì suo padre, aveva tutti i colori del mondo nella sua testa, ma non li usava per guardare e discriminare, bensì per nutrirsi di emozioni.

Il sole andava ricordando allora perché avesse dipinto la terra con i sette suoi colori primari e con le reciproche loro sfumature invece di utilizzare un solo colore: per regalare emozioni ai suoi abitanti!

La donna un po’ si vergognò di essere stata tanto superficiale. Guardò suo figlio e gli disse di correre a giocare con gli altri due bambini… Gli altri genitori, che avevano seguito il discorso dell’uomo, pure vergognandosi di aver giudicato prima di conoscere, rilasciarono i loro bambini… e nessuno di loro aveva più paura di giocare con il bambino arcobaleno, anche perché suo padre, il sole, dipinse tutti i bambini con i sette colori di suo figlio.

Il giardino non fu mai così colorato e pieno di allegria come quel giorno a Huercal-Overa mentre decine di bambini arcobaleno correvano sotto spruzzi d’acqua calpestando divertiti le pozzanghere del giardino.

Un pranzo di Natale clandestino

Ma metti in mano all’Africa il pane che ti avanza

/…/ e vedrai come ti riempie il nulla che ti

restituisco dai miei banchetti di briciole.

Per me tutto il pane che mi dai è quanto

tu vomiti, Europa!

(José Craveirinha – Mozambico) 

Ernest Mwana aveva dovuto attraversare un continente ed il Mediterraneo per scoprire la più grande delle tragedie: l’umanità negli europei era morta e seppellita.

In quel primo anno di Italia aveva sentito di uomini, di pescatori non prestare soccorso a migranti, ad altri uomini morenti di fame e di sete, in alto mare; aveva sentito di paesi europei, proprio come nell’epoca nazista, discutere di quanto fosse opportuno espellere i Rom, europei anch’essi, dai propri confini; aveva sentito di giovani europei massacrati di botte o uccisi solo per avere la pelle nera.

Ernest Mwana era terribilmente deluso da quello che aveva sempre visto come un paradiso dove avrebbe risolto tutti i suoi problemi. Vedeva la gente per strada che pensava solo alla qualità del regalo più bello da donare; vedeva il natale scendere tra le strade e le piazze con tanta ipocrisia da sentirne il peso addosso; vedeva un natale senza quell’aurea di umanità, di magia e di semplicità che Barbara Hofmann gli aveva insegnato a vivere in quei suoi anni mozambicani.

Barbara Hofmann!

Quanto tempo era passato dacché non la vedeva… Barbara era la mamma di tutti… per Ernest Mwana invece era qualcosa di più: era il suo angelo… gli aveva salvato la vita… un giorno di undici anni prima.

Forse quel giorno era Natale… per questo il cielo gli aveva inviato quell’angelo sul suo cammino… Ernest aveva poco più di cinque anni, ma ricordava tutto come se quei momenti stessero camminando ancora su carboni ardenti. I guerriglieri erano arrivati nel cuore della notte e avevano seminato terrore ovunque nel villaggio.

Case che bruciavano.

Gente che urlava e fuggiva.

Guerriglieri che gridavano e sparavano.

Bambini che tremavano e piangevano incapaci di comprendere del perché di tanto rumore, di tanta ferocia.

Ernest si era ritrovato sulle spalle di suo padre che correva veloce verso la foresta. Vedeva sua madre correre loro dietro e poco oltre l’inferno nel suo villaggio.

Avevano corso per diversi minuti a perdifiato poi… suo padre si era improvvisamente fermato e così anche sua madre. Uno di quegli orchi della notte era lì davanti a loro e con terribile brutalità aveva trafitto il cuore di suo padre con un pugnale, poi aveva sparato a sua madre e infine, senza fermarsi davanti all’innocenza di un bambino, lo aveva pugnalato.

Il giorno dopo, forse era Natale, era arrivato, nel villaggio distrutto, l’angelo svizzero. Barbara Hofmann spesso si recava tra quelle genti per portare loro un sorriso e un po’ di speranza e… quel giorno il suo sorriso era morto con l’intero villaggio e vagava sconcertata tra i morti cercando, insieme a quelli della croce rossa, qualche sopravvissuto magari rimasto ferito. I soccorsi internazionali stavano già andando via quando, improvvisamente, una piccola speranza si era accesa nei suoi occhi azzurri e aveva volto lo sguardo verso la foresta, forse qualcuno si era salvato! Si era messa, casualmente, sullo stesso cammino di Ernest e lo aveva trovato moribondo accanto ai cadaveri di sua madre e di suo padre. Non ci aveva pensato un attimo, gli aveva fasciato la ferita con la camicia tolta all’uomo e poi correndo lo aveva portato nel villaggio e da qui, guidando con una mano la moto e tenendo con l’altra il bambino, aveva rincorso per diversi chilometri la Croce Rossa. Giorno e notte poi era stata accanto al bambino fino a che non aveva riaperto gli occhi.

Barbara Hofmann era indubbiamente il suo angelo. Anche perché non lo aveva abbandonato a se stesso, ma se ne era preso cura nel suo centro accoglienza per bambini, a Beira.

Per molti anni Ernest, come altri bambini coinvolti in quella sporca guerra degli adulti, aveva portato le cicatrici non solo addosso ma anche nella sua anima. Non mangiava, aveva paura degli adulti, del buio e del fuoco e, spesso, si svegliava nel cuore della notte urlando e piangendo con dei lacrimoni che pezzavano il cuore anche a quell’angelo svizzero che gli dormiva accanto e che con infinita pazienza e amore lo aveva portato a superare molte delle sue paure e ad avere ancora fiducia negli adulti.

Ernest era rimasto nel centro di accoglienza per diversi anni, condividendo lo spazio e il suo angelo con molti altri bambini che erano stati abbandonati dalla miseria o schiaffeggiati dalla violenza gratuita di altri adulti, e imparando ad amare le cose per la loro semplicità; aveva imparato che un bambino senza un rene, o senza un occhio, o con il volto deformato poteva considerarsi un bambino felice se avesse avuto la fortuna di incontrare quella donna dalla pelle bianca e dagli occhi azzurri che un giorno aveva abbandonato tutto: dal suo incarico manageriale, alla sua amata svizzera e aveva venduto ogni suo avere per poter stare vicino a chi soffriva più di tutti l’ignoranza degli esseri umani adulti: i bambini!, quelli abbandonati a se stessi nella lontana Mozambico, quelli che a sei anni sono già adulti o hanno vissuto più esperienze drammatiche della maggior parte degli adulti europei.

Ernest Mwana aveva una gran voglia di riabbracciare Barbara Hofmann, ma sapeva che questo era difficile se non impossibile in quel momento visto che a separarli erano migliaia di chilometri: lei nell’assolato e ridente centro di Beira insieme a tutti i suoi bambini e lui nella fredda e triste occidente insieme a tutti quei signori benpensanti che litigavano per un posteggio, per la coda al supermercato, per il cane del vicino che abbaiava, per entrare nella metropolitana affollata, per la presenza di altri umani diversi come Rom ed immigrati, per… per… se avessero avuto delle armi a portata di mano, quegli europei, avrebbero reagito come quegli orchi che avevano devastato il suo villaggio e ucciso i suoi genitori?

Ernest Mwana aveva attraversato un continente ed il Mediterraneo per scoprire quanto si potesse stare male in un posto che pur avendo tutto mancava di umanità.

Certo qui avrebbero curato le diverse patologie che si portava dietro da quella tragica notte, avrebbe studiato e sarebbe diventato medico ma… quel sorriso che Barbara Hofmann portava con sé nessuno glielo avrebbe potuto dare… neppure la famiglia Marzot che lo aveva in affidamento e che pure l’amava di uno stesso amore ricambiato!

Barbara Hofmann era il suo angelo.

Ernest Mwana aveva nella mente sempre il suo sorriso, specialmente quel sorriso di quando lei arrivava da un lungo viaggio mentre tutti i bambini le correvano incontro, l’abbracciavano stringendola forte quasi a toglierle il respiro. Quelli erano i veri giorni di Natale per Ernest e per tutti gli altri del centro, quelli di quando arrivava quella donna della speranza, quella mamma di tutti, quell’angelo di Ernest.

Cos’era il Natale se non la magia dello stare tutti insieme condividendo la stessa gioia o lo stesso dolore?, gli aveva sorriso una volta Barbara Hofmann rispondendo a domanda.

Davanti a quella tavola così imbandita, ad Ernest Mwana, veniva voglia di mettere tutto in un sacco e di spedire tutto al centro di Beira, dove aveva imparato il valore della condivisione delle cose con gli altri, dove tutto quel cibo avrebbe potuto sfamare centinaia dei suoi fratelli minori… ma non poteva farlo… doveva sottostare alle regole del cinico e ingordo occidente… aveva una gran voglia di piangere… e lo fece… in silenzio, senza versare una lacrima nonostante trasbordassero abbondanti dal cuore offeso e impossibilitato a fare qualcosa per gli altri. Lui non era un angelo! Barbara Hofmann, lui non era un angelo! Perché non gli aveva insegnato a volare oltre l’egoismo e oltre l’opulenza dell’occidente, perché?

Chiese scusa a tutta la famiglia ma… non ci riusciva a ingozzarsi, affogare in tutto quel cibo quando nel suo paese la gente moriva di fame; quando le mamme abbandonavano i propri neonati perché non avevano più una goccia di latte da dare loro; quando i bambini rovistavano nella spazzatura alla ricerca di qualche buccia di banana per potersi sfamare.

Ernest Mwana era rimasto in silenzio cercando comprensione e complicità negli occhi di qualcuno e… lo aveva trovato… lo aveva trovato negli occhi della signora Marzot.

La donna, con i lacrimoni agli occhi, gli aveva domandato cosa avrebbe voluto fare, visto che Beira era così lontana e… poi, improvvisamente, alla donna era venuta una idea…

Il freddo stringeva la stazione in un abbraccio fastidioso mentre un odore intenso di cose fritte avvolgeva tutta la città come a crearle addosso una cappa, una cupola di vetro…

Ernest Mwana non sentiva né gli odori né il freddo. E come lui tutta la famiglia Marzot… Insieme avevano allestito una grande tavolata dietro la stazione. C’era di tutto: dal brodo caldo di pollo, alle fettuccine fatte in casa; dai broccoli fritti, alla capponata di natale; dalla frutta secca, al vino; dal pandoro, allo spumante; dai piatti rossi, alle candele accese.

Mancavano solo i commensali e…

Ernest Mwana non poteva credere ai suoi occhi… da ogni parte della stazione venivano fuori i bambini del centro di accoglienza di Beira e si avvicinavano alla tavolata di Natale della famiglia Marzot-Mwana, felici e contenti proprio come se li ricordava. Tutti chiedevano se potevano prendere qualcosa, alcuni andavano a chiamare chi si stava perdendo quel dono di Natale. Nessuno riusciva a credere a quello che stava vivendo. Era l’emozione vera di un Natale finalmente ritornato semplice come quando era stato concepito senza quella frenesia commerciale, quell’egoismo e quell’ingordigia di cui era stato rivestito e che aveva deluso Ernest Mwana.

Per un istante il freddo era scomparso anche dai cuori degli europei.

Ernest Mwana era tornato ad essere semplicemente Ernest e correva a piedi scalzi, senza vergogna e senza paura di niente e nessuno, sulla scura terra del centro di accoglienza insieme a tutti gli altri bambini, aspettando l’arrivo imminente di Barbara Hofmann…

La moto del suo angelo comparve improvvisamente all’entrata del centro… Avrebbe voluto aprire le sue braccia e volarle al collo ma… era riuscito a fermarsi per tempo mentre il suo sorriso non riuscendo a frenare era andato a cozzare contro il casco di… non era l’angelo svizzero, bensì un poliziotto il cui avvicinarsi aveva fatto fuggire via alcuni dei commensali. I Marzot avevano preso a parlare con il poliziotto che aveva sottolineato più volte che quella era una tavolata non organizzata, senza permessi del comune e che molti dei presenti erano immigrati e sicuramente qualcuno clandestino ma… era Natale, per un giorno si poteva chiudere un occhio!

Aveva augurato buone feste a tutti mentre il rombo del motore si allontanava, quasi certamente verso il pranzo di natale in famiglia.

Ernest Mwana, ancora una volta, fu nel sorriso di Barbara Hofmann che gli aveva insegnato che non tutti gli adulti erano orchi-guerriglieri senza cuore e… sarebbe stato bello, come diceva spesso Barbara Hofmann, se tutti gli esseri del pianeta, almeno per un giorno si fossero tenuti per mano… le mani sarebbero state occupate da altre mani e non da armi e per un giorno non ci sarebbe stata nessuna guerra in nessun luogo sulla terra!

Ernest Mwana sorrise di nuovo… forse non tutta l’umanità era morta e sepolta… il pranzo di Natale poteva continuare… dietro la stazione… condiviso con chi il Natale lo avrebbe, altrimenti, vissuto solo, al freddo e affamato nell’indifferenza della gente comune.

Ernest Mwana quel giorno sentì le stesse emozioni che sentiva Barbara Hofmann quando abbracciava i suoi bambini: semplicemente un essere che non aveva perso la propria umanità… né nella forma né nello spirito

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Ringraziamenti:

Ringrazio il Prof. Vincenzo Russo per il sostegno puntuale e l’infinita disponibiltà dimostrata e per avermi aiutata a mantenere la rotta, il Prof. Martino Marazzi per avermi fornito i primi spunti per questo lavoro ed avermi maieuticamente convinta che ne sarei stata in grado, Jorge Canifa Alves per la generosità con cui ha voluto condividere i suoi pensieri ed i suoi scritti e la sollecitudine con cui mi ha sempre risposto.

Ringrazio inoltre la mia famiglia per essermi stata vicina in questo lungo e tortuoso viaggio, ma innanzi tutto ringrazio Elia ed Emma senza i quali non avrei mai ripreso la navigazione e che mi hanno più volte aiutata fornendomi nuovi spunti ma anche supportandomi nelle ricerche, a loro è dedicato questo lavoro.

Note

[1] Amin Maalouf, Les Identités meurtrière, Grasset, Paris, 1998

[2] Intervento di Medhin Paolos (che ringrazio per la disponibilità) al termine dello spettacolo  Cittadini in transito di Manuel Ferreira al Teatro Ringhiera di Milano, il 22/02/2014.

[3] Graziella Favaro, La lingua forma la cultura che forma la lingua,  in Tra lingue e culture. Per un’educazione linguistica interculturale, a cura di Fabio Caon, Mondadori, Milano, 2008.

[4] A cura di Ingi Mubiay e Igiaba Scego, Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano, Terre di mezzo, Milano, 2007, pp. 79/80.

[5] http://www.italianipiu.it/  Raccontiamo e facciamo parlare le cosiddette “seconde generazioni”, i figli degli immigrati. Ragazzi e ragazze nati o cresciuti in Italia che si sentono saldamente italiani, ma ugualmente fieri delle loro origini. Ognuno a modo suo

[6] Da uno scambio di mail avuto con Jorge Canifa Alves

[7] Jorge Canifa aveva già affrontato il suo travagliato rapporto con le sue altre due lingue in quando nasci è una roulette, a cura di Ingi Mubiay e Igiaba Scego, Terre di mezzo, Milano, 2007 dove, a tal proposito così si eprime: “…anche con la lingua ho dovuto rimettermi in gioco. Il portoghese l’ho dovuto imparare un a seconda volta, così come il creolo. Però con il creolo me la cavo meglio…” pag. 83.

[8] Nel caso di Jorge Canifa Alves, essendo egli di origini capoverdiane, il portoghese è la lingua del paese europeo colonizzatore motivo per cui il rapporto è ancor più travagliato e la lingua è quella sentita come più estranea fra le tre (italiano, creolo e portoghese).

[9] Racconti in altalena, Edizioni dell’Arco, 2006

[10] Il Bacio della sfinge, Fuoco Edizioni, 2008

[11] Racconti in altalena, Edizioni dell’Arco, 2006, pag.100

[12] ibid

[13] Manuel Lopes, Os Flagelados do vento leste, Vega, Lisboa, 1991(III edizione, la prima risale al 1959)

[14] Racconti in altalena, Edizioni dell’Arco, 2006, pag.51.

Interessante a tal proposito La donna di colore e il bianco in Il negro e l’altro di Frantz Fanon, Il saggiatore, Milano 1965

[15] Il Bacio della sfinge, Fuoco Edizioni, 2008 pag.72

[16] Ibid pag. 42

[17] organizzazione non-profit da lei fondata nel 1991, per aiutare bambini e giovani del Mozambico in situazione di estrema povertà, vittime dell’AIDS, orfani e abbandonati, a ritrovare una vita dignitosa da esseri umani

L'autore

Giusi Sciortino

Classe ’72, siciliana di nascita, milanese d’adozione.

Lavorativamente ha avuto esperienze in diversi campi da quello educativo alla traduzione al commercio.

L’interesse per le lingue e per i processi migratori la accompagna da tutta la vita ed ha determinato anche la scelta dell’argomento per la tesi di laurea magistrale in lingue e letterature straniere (indirizzo linguistico glottodidattico, lingua portoghese).”