Shirin Fazel Ramzanali
Ali spezzate
Letture poetiche 2018
raffaele
Shirin Fazel Ramzanali ha originariamente raccolto poesie scritte in inglese in vari tempi in un’unica silloge intitolata Wings (Ali). Alcune erano state inviate ad el-ghibli nella lingua con cui erano state composte e, tradotte egregiamente da Andrea Sirotti, erano state poi pubblicate sulla stessa rivista.
Ma l’autrice di Lontano da Mogadiscio, testo per cui era stata conosciuta ed apprezzata dal pubblico dei lettori della letteratura della migrazione, ha voluto riscrivere le varie poesie in lingua italiana. Come sia stato possibile poi il passaggio da Ali ad Ali spezzate, titolo che assume nella versione italiana, non è dato sapere. Se Ali sta ad intendere un volo che si libra nell’aria e ci rimane nella sua efficacia di equilibrio, di scoperta, ma specialmente di libertà, l’assunzione dell’aggettivo “spezzate” induce a pensare che qualcosa nel volo non ha funzionato o non sta più funzionando. Occorrerebbe sapere se la denotazione positiva di Wings corrisponda anche ad aspetti positivi contenuti nella raccolta in lingua inglese o se il sentimento dell’autrice quando ha scritto quelle poesie vertesse verso una positività esperienziale.
Certamente ad una prima lettura della maggior parte delle poesie comprese in Ali spezzate il senso della positività è almeno problematico e forse il titolo si addice maggiormente al senso ultimo della silloge.
Un aspetto fondamentale presente in quasi tutte le poesie di questa raccolta è data dalla costanza della struttura binaria. C’è sempre un prima e un dopo. Un prima romanticamente visto e sempre positivo. Un dopo da deprecare. Questo riguarda, ad esempio la città di Mogadiscio e il suo ambiente. Non è un caso che venga chiamata Xamar, denominazione più legata al contesto religioso islamico. Poi nella seconda parte la deplorazione per la condizione attuale della città, di cui però non indica cause o origini, ma solo dolore e angoscia. La città dove è nata è solo quella che può darte senso alla sua vita: “Tu e solo tu/ puoi farmi piangere e ridere/ far rifiorire i miei ricordi dell’infanzia/ il dolore del presente/ e la speranza per un futuro migliore”.
Anche in Donne in passerella la deprecazione per la condizione attuale è evidente. Emerge però una contraddizione che la poeta non riesce ad evadere. Si ha nostalgia per i vestiti di una volta: il guntiino, l’alindi, lo shoash. Ora in Inghilterra si trovano donne dello stesso paese con lo jalabeeh, [ lo scrivo come è riportato nella poesia] che così dimostrano di non volersi assimilare perché “vogliono proteggere/…/ cultura, tradizione, idioma”.
Sono donne nascoste che al di sotto di questi vestiti mantengono tutta la loro bellezza e i loro profumi. Ciò che si condanna sono gli “abitini e jeans a zampa d’elefante” perché non vi è bellezza e orgoglio nazionale. Il guntiino mostrava parti del corpo e ne esaltava la bellezza. Ora le donne con lo jalabeeh invece sono tutte coperte. Ma chi è più legata alle tradizioni che indossava il guntiino o chi oggi indossa lo jalabeeh?
La struttura binaria si interrompe in una sola poesia che sembra una cartolina ove si fotografa la situazione in una spiaggia.
In questa silloge di Shirin però emergono alcuni temi molto importanti. Un primo è dato dal legame che la poeta ha con la lingua d’origine. Le parole, i suoni, fanno da richiamo ad una fanciullezza, adolescenza ove la vita era più serena. Non è solo il territorio d’origine fonte di vitalità e rinvigorimento, ma anche la lingua: “Il suono di quella lingua ha una memoria/ costruita mattone per mattone,/ può scatenare le mie emozioni profonde/ quelle nascoste/…/ Io fatico quando devo leggere il linguaggio che amo tanto/ scritto in alfabeto adottato da una terra straniera/…/ io amo la poesia/ la ninna nanna di Hooyo [mamma]/”. La poesia viene identificata con i suoni della lingua materna.
Altro tema caratteristico di questa silloge è quello dell’emigrazione. In effetti la raccolta poetica è divisa in tre parti. La prima chiamata “Diaspora”, la seconda “Presi nel mezzo” e la terza “Migranti”. In frontiere ad esempio la poeta mette a fuoco la contraddizione dell’economia capitalistica che permette il passaggio fra un paese e l’altro di tutte le merci, mentre invece gli uomini sono bloccati da “barricate in filo spinato/ dove soldati armati di fucile/ difendono la frontiera”. Anche la terminologia che viene usata per le persone che si spostano vengono da Shirin Fazel condannate: “Immigrato” “Extracomunitario”/ …./ parole che non suonano/ come battiti d’ali di uccelli/ ma parole che marchiano con il ferro rovente/ la pelle degli uomini”. E ancora emerge la struttura binaria a cui si accennava in precedenza: “La mia infanzia mi dava sicurezza/ non ho mai incontrato un “immigrato” “extracomunitario”/ solo persone/…/ tenendoci per mano tutti insieme/ cantavamo a squarciagola/ Giro-giro Tondo/ casca il mondo/ casca la terra/ tutti giù per terra”.
Chi va via dal suo paese deve essere considerato un pazzo? “Pazzo?/ Chi è pazzo/ da lasciare/ casa/ famiglia/ vicinato/ amici?/ Chi vuole/ essere picchiato/ violentato/ nel deserto/ o morire in mare?/ Mentre i nostri oceani nutrono/ i ricchi/ il nostro petrolio/genera ricchezza/ mentre la nostra terra/ viene inquinata/ mentre i nostri/ bambini muoiono di /fame”. Sono ellittiche le cause che spingono a migrare, ma si comprendono anche nella attribuzione delle responsabilità.
La raccolta di queste poesie di Shirin Fazel mostra ancora una volta la consapevolezza dello sfruttamento che una parte del mondo subisce. Ma evidenzia anche il legame che esiste fra la persona che si è allontanata dal suo territorio con quel territorio, con gli affetti che ha dovuto lasciare e con gli aspetti anche comunicativi che in una nuovo spazio non sono più quelli di una volta e risultano sempre alterati. Come dice Jhumpa Lahiri che affronta una nuova lingua si troverà sempre in un mare. Il cui approdo, aggiungo, può essere anche vicino ma il liquido in cui è immerso lo richiamerà sempre ad alla sua lingua materna.
21-09-2019