Buosso Thioune Benussi
Cuori di sabbia
CACIT 2011
Melita Richter
Li hanno chiamati un “fenomeno” – gli scrittori migranti, scrittori tra, oppure italofoni, o, Italiani per vocazione, a volte indicati come appartenenti alla letteratura della migrazione, a quella dell’esilio, della diaspora… Hanno cercato di classificare le loro opere, individuando nelle pagine fresche di stampa pubblicate da piccole case editrici, i temi esotici che ci ammaliano con profumi, suoni e colori dei paesi lontani, culturalmente, storicamente, linguisticamente. Gli esperti letterati, sociologi, antropologi e dotti delle discipline interculturali erano compiaciuti quando gli autori “migranti” si cimentavano con il sempre pagante concetto di nostalgia e di solitudini, di fughe, disperazioni e spaesamenti, di difficoltà di integrazione, di misunderstandings culturali, di stereotipi, razzismi e imbarazzismi vari. E hanno indagato a lungo sulle loro identità ibride, meticcie e ” in formazione”. Poi, il fenomeno è cessato di essere tale, le migrazioni non sono più classificabili come espressioni di “emergenze”, sfuggono alle classificazioni rigide. La nuova realtà di un’Italia multietnica e multicolore si presenta ormai iscritta e radicata nel tessuto della società, si riflette nelle sue piazze, nelle strade, nelle famiglie, negli atenei, nelle istituzioni e in tutti i luoghi vitali delle brulicanti metropoli, come negli sperduti paesini delle periferie. E bussa alla porta della Letteratura. Il “fenomeno” ha cessato di esistere e gli esperti hanno notato che gli autori semplicemente scrivono dei libri, ormai da soli, senza l’aiuto di mani esperte di giornalisti italiani, coautori delle loro opere prime. Scrivono romanzi, racconti brevi, lunghi, pure dei saggi e recensioni, sanno cimentarsi nell’ambito del giornalismo, nella critica dell’arte, del film, della fotografia, formano compagnie letterarie, di poesia, sono diventati essi stessi editori di riviste letterarie on line, promuovono antologie… Non è più un’eccezione incontrarli nelle serate di presentazioni dei libri – dei loro libri – come ospiti autori, come commentatori, o nelle serate di poesia, nelle scuole e nelle aule universitarie. Nonostante quest’ultima cosa capiti meno frequentemente. Allora è scoppiato un “nuovo fenomeno”, quello della presenza sull’orizzonte letterario nazionale della seconda generazione di scrittori migranti o, come alcuni la chiamano, la Nuova letteratura.
E qui, oltre a dover decostruire la parola “fenomeno” il che risulta facile, visto che non vi è niente di fenomenale nel fatto che dopo la prima e solida “ondata” dell’immigrazione nel paese e la successiva stabilizzazione del processo aiutato anche dalla ricomposizione del quadro familiare (per descrivere questo passo decisivo si usa il termine giuridico ri-congiungimento familiare), vi sono dei figli di immigrati nati in Italia, per cui è ovvio che le porte dell’espressione letteraria, come pure di altre forme d’arte si schiudano ai giovani di “seconda generazione di immigrati”. Termine scomodo e impreciso per molti che richiederebbe un ampio dibattito. Infatti, ben presto dovremo pensare di rapportarci con le “terze generazioni”, e allora cadrà del tutto ogni ragione di enumerare le generazioni di cittadini nati in questo paese. Anche oggi quando parliamo di questi giovani, non sta più in piedi il termine “immigrati”. Perché loro sono nati in Italia, sono cresciuti qui e hanno frequentato le scuole italiane, scrivono in italiano diventato la loro lingua-madre. Soprattutto non hanno vissuto l’esperienza della migrazione e non ne sanno molto del trauma dello spostamento da un continente, o da un paese all’altro. Non hanno sofferto gli “smottamenti” culturali, identitari e linguistici che lo spostamento innesca. Non ne sanno molto, a meno che la famiglia non glielo trasmetta, di questi passaggi, non sempre indolori. Però, ogni trasmissione attutirà le afflizioni, blandirà l’intensità del senso di inadeguatezza, ometterà gli ostacoli posti all'”entrata nella città” e risparmierà alle nuove generazioni quello che hanno passato i loro padri e le loro madri.
I giovani letterati che portano un vento fresco alla Nuova letteratura, non sono gli scrittori delle migrazioni né tantomeno gli scrittori migranti di seconda generazione. In termini sociologici, si considerano migranti solo coloro che appartengono alla prima generazione di persone che hanno vissuto questa esperienza in prima persona.
Igiaba Scego, nata in Italia da genitori somali espatriati nel 1969 dopo il golpe di Siad Barre – così comincia la sua biografia – autrice che si auto-definisce appartenente alla “generazione incerta”, espressione che meglio di tutte esprime la sensazione reale della “seconda generazione di scrittori migranti”, ha indagato sul tema che la tocca da vicino e che per noi risulta istruttiva. Per lei è stata una sorta di sfida indagare su un tema che di fatto la riguarda da così vicino. “Infatti, io sono proprio una scrittrice di seconda generazione, nata in Italia da genitori migranti e un po’ migrante nel cuore (per non parlare poi nel fisico). La mia formazione culturale è italiana, la lingua in cui scrivo è italiano (non per scelta ma per corso naturale)… ma il mio vissuto è legato a doppio filo con la madrepatria del cuore, ossia quella Somalia martoriata dei miei genitori”.
Inoltre, la Scego avverte il rischio che incombe sugli scrittori migranti sia di prima che di seconda generazione:
La mia più grossa paura è ora essere ingabbiata in un’ etichetta, ossia Scrittrice migrante. Lo sono e non lo sono. Non mi piacciono le etichettature, perché quando penso alla scrittura migrante io penso a una scrittura che parla di immigrazione, ma non vorrei limitarmi a questo. Credo che gli scrittori migranti – di prima, di seconda, incerta generazione –, che provengono da altre parti del mondo, non vogliano limitarsi a scrivere soltanto di immigrazione. Trovo che a volte parlare di migrazione possa diventare una gabbia. Personalmente vorrei parlare sia di migrazione ma anche d’altro… a volte purtroppo noi autori di nascita non italiana siamo ingabbiati dalle nostre origini.
Bousso Thioune Benussi ci risparmia simili dilemmi e paure. Almeno in quanto alla sua scrittura. Per diramare i dubbi e tutte le possibili analisi degli esperti, lei cancellerà il rischio di essere ingabbiata nella casella di scrittrice migrante. Ma nutriamo qualche dubbio che il fatto la libererà da quella cifra, anche se monca “di seconda generazione”. Nell’introduzione a questo racconto, Bousso sosterrà: “I miei personaggi sono personaggi. Punto. Vivono una vita loro. Io li seguo, li creo è vero, ma poi sono loro a farsi una storia. Da autrice divento spettatrice”.
Il suo è il processo creativo non ancorato all’esperienza autobiografica e neppure ingabbiato al tema che uno si potrebbe aspettare da una figlia di immigrati di prima generazione; niente a che fare con gli struggimenti identitari, le appartenenze incerte, i mondi lontani, le rotture culturali. Neppure un riflesso di quell’Africa nera da cui partirono i genitori, il Senegal, nel quale è sempre tornata da bambina e da adolescente a trovare i nonni, a giocare con i coetanei, a conoscere il paese… Niente mondi esotici, o meglio sì, ci sono orizzonti vasti e plurali nell’idenitikit dei suoi personaggi baciati dai riflessi di altre appartenenze che illuminano i volti di Luna e di Israel.
E di Sahel.
Già, i nomi parlano. Israel, figlia d’Israele di pelle ambrata, da ciglia nere e una cornice di riccioli neri, e Luna, di pelle chiara, capelli ramati e occhi color smeraldo, di lontane origini irlandesi, discendente di un George O’Neill e di una …. sirena!
Bousso ci introduce in un universo fantastico solo in apparenza. Ben presto, con le frasi vive che sanno di respiro breve e con parole sciolte e sincere, ci accompagna in un mondo adolescenziale ricco di sentimenti di forte intensità, come solo il mondo degli adolescenti sa essere. Un mondo che consentirà la crescita ai suoi personaggi accostandoli all’esperienza della sublimazione dei sensi, ma non li priverà della limpidezza dell’espressione. E di questa limpidezza Bousso è maestra. Allo stesso tempo, con la straordinaria leggerezza della penna, l’autrice tratterà i “grandi temi” come la morte, il lutto, l’assenza della persona amata, la nascita di un amore vero, pulito, a volte minaccioso alla libertà della persona, quasi cannibalesco, che permetterà di scoprire all’io narrante le pene della gelosia, della competizione amorosa e l’ombra della sopraffazione. Un io narrante che si rovescia, capovolge, muta, fugge da sé e si ritrova, prende posto dell’altra, nell’altra, la sostituisce. La sostituisce pure in amore, le dona la chance di essere lei tutto ciò che è (stata) l’altra. Ci saranno i primi baci, i velati imbarazzi per la vicinanza dell’altro corpo, le prime sigarette e i ghirigori di fumo, le citazioni di Shakespeare, i rifugi e le arrampicate, le notti di un cielo stellato e gli smottamenti di sabbia nel cuore… Adulti? Genitori? quasi assenti. Come sognano gli adolescenti quando si immergono nelle prime indimenticabili storie d’amore. Per sicurezza e per protezione delle proprie passioni. Se assenti, i genitori non guastano la narrazione, né influiscono sul corso della storia; saranno i nonni i più vicini ai personaggi che si raccontano. Essi sono innocui, comprensivi, pieni di saggezza di vita che tentano di trasmettere.
E’ una bella storia la storia di “Cuori di sabbia”, con la sua tensione interna che rende la lettura partecipe. Con la suspense discontinua e il finale risolutivo. All’interno di questa cornice, i monologhi mutano in dialoghi con facilità quasi liquida e si espandono sulla pagina che li assorbe, ma resta anche bianca. L’autrice è attenta al gioco estetico. Lo spazio è rispettato, quello della pagina e quello della vita dei personaggi. E’ un racconto intenso. Ci asteniamo da ulteriori commenti, in un certo senso Bousso ce lo chiede. Infine, ci è stato regalato un racconto sull’amicizia. Tutto parte da lì e tutto si esaurisce in questo concetto universale. Ci sono dei sentimenti e le parole nelle quali Bousso crede profondamente. “Ci sono parole che solo a sentirle esprimono qualcosa”.
Le parole le sono state amiche dall’infanzia. E ricordiamo: quando ha scritto questo racconto, aveva soltanto sedici anni. Infine, ammetterà: “scherzi a parte, non è stato semplice”.
Trieste, novembre 2011