“Diario di una malattia” risale agli anni in cui vivevo a Berlino e racconta un’esperienza vissuta tra il maggio del 1998 e il novembre del 1999. Scritto originariamente in tedesco, l’ho auto tradotto nel febbraio del 2018 e confezionato intercalando la scrittura con mie fotografie a tema.
Ve lo proponiamo in tre ‘puntate’ per riprodurre almeno in parte il dispiegarsi degli eventi in un tempo lineare. Le immagini abbinate sono tratte dal testo originale.
Prima ‘puntata’ – Buona lettura!
Dedicato a Steffen, che ne è protagonista,
al mio caro papà e al grande amico poeta Enrico Ratti che ci hanno lasciato da poco.
I
E´ ricoverato in ospedale e ha la leucemia. Me l´ha detto lui stesso oggi, telefonandomi da lì. Non avevo mai preso tanto sul serio il suo non-sentirsi-bene degli ultimi mesi e adesso mi ritrovo così: senza parole, gli occhi pieni di lacrime, dentro di me si diffonde un dolere profondo.
Vorrei potermi togliere di dosso questa corazza che mi sono procurata con tanta fatica e duro lavoro e permettermi finalmente di essere debole anch’io, per una volta, almeno.
Ma chi sarà in grado di sorreggermi?
“Ti voglio bene” aveva lasciato proprio ieri sulla mia segreteria telefonica.
Lo andrò a trovare domani. Riuscirò a restare ancora quel ‘raggio di sole’ che sono sempre stata per lui?
Le lacrime possono scorrere indisturbate ora, di modo che per domani non ne rimangano più, spero.
Ho imparato bene la lezione impartitami tanti anni fa da mio fratello, che una volta mi aveva infastidito così a lungo fino a quando ero scoppiata in un pianto a dirotto. Alcune ore più tardi mi aveva confidato di averlo fatto apposta, affinché io non piangessi durante i funerali di nostro nonno quello stesso giorno; non sopportavo di piangere in pubblico.
Allora aveva funzionato.
Maggio 1998
II
Prima settimana senza visite – dopo la nostra passeggiata di domenica scorsa. Era una bella giornata di sole, un po’ ventosa, ma piacevolmente mite. Avevamo camminato fino ai giardini di fronte al Deutsches Theater mentre lui teneva un lungo discorso sulla sana alimentazione.
Poi ci eravamo messi a sedere su una panchina all’ombra: lui leggeva a voce alta storie di Max Goldt, io, sdraiata con la testa sulle sue gambe, lo ascoltavo tenendogli una mano e accarezzandogliela dolcemente.
“Siamo una bella coppia” aveva commentato e aveva ragione. Avevamo riso molto insieme.
Il giorno seguente gli era venuta la febbre alta e un forte mal di gola.
Perciò niente più visite, solo rare e stentate telefonate, che non lasciano altro che frustrazione e una sensazione di impotenza. Sento la sua mancanza. I nostri incontri sono così intimi, così familiari, quasi come se non si interponesse alcuna malattia tra di noi e non ci fosse niente di strano nel suo aspetto esteriore.
Desidera che gli legga dai miei diari per ricordargli i tempi in cui ci siamo conosciuti, quasi tre anni or sono.
Giungo 1998
III
“Parla con le mie cellule” ha detto in conclusione alla mia visita, mentre arrivava l’ascensore.
Me lo aveva già chiesto una volta al telefono e, esattamente come allora, gli ho risposto che è meglio farlo insieme. A cosa servirebbe se lo facessi io soltanto?
Secondo me avrebbe più senso cercare di sentire cosa ci vuole comunicare questa malattia, ma ne ha ancora troppa paura e forse è semplicemente troppo giovane per provarci.
Io ero pronta a questa ricerca oggi.
Invece ho passato il tempo a coccolarlo e a raccontare e raccontare. Le mie descrizioni evocavano delle storie che lui si godeva ad occhi chiusi, quasi assopito. Era una di quelle volte in cui le parole fuoriescono da sole e io stessa sembro non conoscere quei racconti che ascolto con lo stesso interesse e stupore di chi mi sta di fronte.
Non ci eravamo visti per dieci giorni.
Giungo 1998
IV
Sono in viaggio in S-Bahn dopo due giorni trascorsi con lui a casa dei suoi genitori, in campagna. Piove e fa stranamente freddo per questa stagione; atmosfera che si addice al nostro distacco.
Mi sento malinconica, non realmente triste: non è un commiato definitivo, ma un viaggio – il suo – verso l’ignoto. Qui a Berlino non gli danno grandi speranze di sopravvivenza purtroppo, perciò vuole andare a Dresda per sentire il parere di altri medici e magari affidare a loro il suo precario destino.
Ha fatto bene ad entrambi vederci in una cornice più normale con molta vicinanza e libertà di movimento e due notti trascorse insieme: io sul letto di fortuna, fatto di stuoie sottili e coperte, arrangiato sul pavimento vicino al suo. Durante il giorno e anche di sera siamo andati a passeggiare nel bosco, raccontandoci delle storie. Abbiamo risvegliato ricordi assopiti e rivisitato il nostro passato comune, trascorrendo tanti momenti meravigliosi insieme!
“Per me sei come una compagna di giochi d’infanzia” mi ha detto, mentre ci sedevamo per terra e discorrevamo. “Con la quale puoi anche giocare al dottore” ho aggiunto io e ci siamo messi a ridere entrambi.
Luglio 1998
V
Ieri sera abbiamo parlato a lungo al telefono, come nelle serate precedenti. Durante una di queste conversazioni avevo intuito che in futuro avremmo potuto avere delle divergenze di opinione e glielo avevo anticipato. Questa intuizione è divenuta per la prima volta realtà.
Stavamo parlando della volontà di continuare a vivere o di morire ed io ero dell’avviso che, qualunque decisione avesse preso in proposito, sarebbe stata quella giusta. Lo esortavo a chiedersi se il cammino che stava percorrendo nella sua forma attuale fosse arrivato a destinazione e quindi non ci fosse più necessità per lui di rimanere qui. Se così non fosse, poteva scegliere di continuare a vivere.
Suonava facile, troppo facile. Forse per questo era un po’ irritato. Si sentiva in qualche modo attaccato dalle mie parole e aveva bisogno di proteggersi.
All’improvviso ho visto la malattia non più come manifestazione di conflitti dell’anima, che possiamo cercare di appianare, ma come la più pesante e definitiva fase evolutiva di un percorso.
E non esiste livello più estremo di questo.
Luglio 1998