Se c’è una cosa che io proprio non so fare è raccontare la realtà. In verità, devo ammetterlo, sono tante le cose che non so fare, forse troppe, ma raccontare la realtà non mi viene proprio. In passato, mi ricordo, quando mi alzavo la mattina presto, tipo alle cinque, mi prendevo un caffè e poi mi mettevo a scrivere delle storie che nessuno leggeva. Ho scritto una su un riportato, un’altra su un bibliotecario con l’ossessione della polvere, anche quella su un inondato che si aggira per le strade del suo paese completamente allagato, ma non c’è niente da fare, la realtà non mi viene proprio, a raccontarla. Che poi, cos’è questa realtà a cui tutto tende e tutto assorbe? Certe volte, mi pare di capire, la carichiamo di così tante cose che alla fine sembra esplodere come un palloncino vuoto, la realtà. E noi restiamo lì, immobili, senza sapere come afferrare quell’aria scoppiettante che si spande nello spazio e copre tutti gli interstizi della vita quotidiana. Bisogna aggiungere, però, se vogliamo essere realisti, non è mica tanto affascinante questa realtà per mettersi seduto davanti alla scrivania a raccontarla. Eppure, sono successe tante cose interessanti negli ultimi anni vicino al posto dove lavoro, solo che come si fa a raccontarle? Da dove cominci? Io non lo so.
Una volta, anzi, proprio dopo il terremoto dell’ottobre 2016 mi avevano chiamato da una radio per testimoniare secondo il mio punto di vista quello che era appena successo (che io, detto per inciso, non li ho mai avuti, i punti di vista, o se ce li ho avuti non mi sono accorto) e io, in quel momento, non sapevo cosa dire di questo terremoto. Potevo dire che era stata una cosa tremenda e spaventosa vedere crollare anni di storia e di bellezza, ma che altro avrei potuto aggiungere? Mi sembrava non avesse senso, così come mi sembrava non avesse senso raccontare che in quel momento mi trovavo in una biblioteca al quarto piano e che avevo sentito una sensazione da capogiro, ma ero rimasto lì e i libri venivano giù dagli scaffali. Questo avrei potuto raccontarlo alla radio, per essere realisti, ma non vedevo il senso, come ho già detto. Si sa già che quando c’è un terremoto e tu stai in una biblioteca al quarto piano, o anche in una libreria, i libri vengono giù come niente dagli scaffali (sarà successo la stessa cosa con altri prodotti, penso alle bottiglie di birre o ai barattoli di pomodoro). Siccome, però, io ho a che fare con i libri ed ero in biblioteca, come ho già detto anche questo, erano venuti giù loro, i libri. Magari avrei potuto dire questo alla radio, che erano venuti giù i libri e che sulle pareti si era aperta qualche crepa qua e là. Poi avevo pensato che altre persone, lo stesso giorno alla stessa ora, si erano viste crollare il tetto di casa sulla testa e io, invece, parlavo di libri che erano venuti giù dagli scaffali. Che vuoi che sia? Mi chiedevo. Li prendi, uno alla volta, e li metti a posto. Pensavo, mica scappano via i personaggi dei libri se si sentono tremare un po’ per via di un terremoto, sicché, quando mi avevano fatto la domanda alla radio sono rimasto lì un po’ in silenzio e siccome la radio non ammette i silenzi, allora hanno detto che c’era un problema nel collegamento e avevano dato la parola a uno esperto che lui sì, aveva da dire delle cose.
Più o meno la stessa cosa era successa quando un tizio si era messo a sparare alla gente per strada. Mi ricordo la voce nasale del sindaco che chiedeva ai cittadini di chiudersi in casa perché c’era un folle che sparava ai passanti. Sembrava strano e lui, il sindaco, aveva fatto bene ad avvertire le persone. Subito dopo la notizia si è diffusa persino oltreoceano, mi chiamavano gli amici: “Ma è vero che vi sparate?” Dopo qualche ora mi chiamò la direttrice di un giornale per chiedermi di scrivere una colonnina su quella realtà lì. Io stavo per dirle che era successo tutto così in fretta e che non ero mica capace di scrivere subito su questa faccenda del pistolero, che prima bisognava rifletterci. “I giornali non hanno tempo per rifletterci, cosa ti costa scrivere una colonnina?” Costare, non mi costava niente, il problema era affrontare quel fatto in un tempo ridotto. Se mi avessero chiesto di scrivere sugli abitanti di Mercurio o di Venere me la sarei cavata meglio; scrivere su una tragedia successa due ore prima nella tua città o in quella accanto, insomma mi sembrava abbastanza complicato. Tra l’altro se tu devi scrivere su un determinato delitto accaduto in passato, forse riesci a darle un contesto, ma è difficile farlo quando la pistola è ancora calda, se vogliamo usare la metafora della pistola calda. Comunque, mi feci coraggio, giusto per non farmi dare per fesso, e ce la feci a riempire una colonnina sul pistolero-lero-lero. Non ricordo bene cosa scrissi, ma il richiamo era andato sulla prima pagina.
Qualche mese dopo, invece, scrissi un racconto su un signore, sempre ben vestito, che la mattina, prima di fare colazione, esce dalla porta e conta i mattoni della facciata di casa sua (abita nel centro storico, in una casa con i mattoni a vista). Poi rientra, fa colazione e infine va al lavoro. Mi sembrava fosse molto realistico come tema, allora ho deciso di spedire il racconto a un altro giornale, pieno di realtà anche questo, ma non mi hanno mai risposto. Un po’ mi dispiace, perché in fondo mi sono affezionato a quest’uomo che ogni mattina, verso le sette e un quarto, me lo trovo a contare i mattoni di casa. Mi sono talmente affezionato che quando lo vedo non lo saluto neanche, per timore di interrompere la conta. Credo che sia un buon modo di iniziare la giornata, ma questa realtà qui, mi pare di capire, non interessa a nessuno.