Anna Belozorovitch
Il pesce rosso
Il seme bianco, 2017
raffaele taddeo
Questa silloge di Anna Belozorovitch è originalissima intanto perché è un inno alla corporeità, alla compenetrazione dei corpi, poi di riflesso è un canto all’amore che prima che sentimentalmente si esprime attraverso il corpo.
L’originalità della composizione sta proprio nel desiderio di studiare prima dell’atto di amore, nello stesso atto di amore e dopo che cosa suggerisce, esprime il proprio corpo. Perché nella poeta di origine russa c’è la consapevolezza che l’amore intanto c’è in quanto coinvolge i corpi. Ma si noti bene, la raccolta di poesie non è un testo erotico in cui solitamente la predominanza sono le parti sessuali del corpo. In questo caso abbiamo il corpo nel suo insieme che si fa protagonista della relazione in tutti i suoi aspetti.
La silloge è divisa in 4 parti. In effetti la logica della suddivisione sfugge o per meglio dire a me sfugge, forse ad altri sarà palese. Io non vedo sostanziali differenze tematiche fra le 4 sezioni per cui non ne analizzerò le singole parti ma l’insieme.
Per ricollegarci al discorso di prima, si prenda per esempio la prima poesia Seduzione, che si apre in questo modo: “E’ seduzione se mi guardi/ è amplesso se restituisco”.
Lo sguardo, gli occhi sono da sempre topos del veicolo dell’amore. Belozorovitch non sfugge a questi tradizionali modi ma con schemi diversi. Il verso dantesco “e gli occhi non l’ardiscono di guardare” in questo caso viene superato da ”è amplesso se restituisco”. La corporeità gioca tutto il suo fascino amatoriale: “il mio voltarmi è il mio venire/ con le mie spalle ti accolgo”. Anche il girarsi, dare le spalle assumono il linguaggio corporeo dell’amore, perché quelle spalle sanno accogliere. Sempre in questa poesia la dimensione corporea si manifesta totalmente in: “E i «come stai» sono vestiti/ che cadono al nostro incontro”. Lo stesso saluto, la stessa voce sono veicolo dei preliminari dell’amore perché scoprono completamente la persona. Il tono, forse la sua modalità assumono proprio la funzione di richiedere la totale disponibilità. Non mi sembra opportuno fare un’analisi di tutte le poesie, ne parlerò di alcune, poche, ma mi sembra di poter dire che in questa raccolta serpeggi ancora la poetica dell’attesa di cui ho scritto nel supplemento a tutta la produzione fino ad allora fatta da Anna Belozorovitch, che si trova nel n. 42 di el-ghibli. Mi preme prendere in esame ancora due poesie che sono veramente due piccoli capolavori. La prima è usucapione. Originalissima, intensissima nella spiegazione della funzione di tutto il corpo nella dimensione dell’amore. Il corpo viene percepito come non proprio possesso ma appartenente ad un altro. Il proprio corpo non è di propria proprietà. La paura e il timore è che se l’altro si assenta molto l’io possa rientrare in possesso del proprio corpo rivendicandone la proprietà. “A volte, quando allo specchio nuda/ m’asciugo o mi preparo o mi curo,/ mi tiene assieme un unico pensiero:/ che quella superficie è altrui”…”in questa casa senza eredi nulla/ deve mancare in una lunga permanenza./ Occupo, col terrore dell’usucapione”. L’amore è anche il non sentirsi padrone del proprio corpo, è totale dedizione. Proprio in questa attesa con paura riemerge la poetica dell’attesa.
La seconda poesia che è sorprendente è Giorni errati “Il giorno in cui ero più bella tu non c’eri”. La bellezza sembra dire la poeta non ha funzione sociale, perché per chi la possiede non ha valore che altri l’apprezzino. La bellezza intanto vale in quanto è possibile che sia vista, goduta dalla persona amata. “Ma non ci siamo incrociati e sono stata bella invano”…”Altri mi hanno, inutilmente, accolta”. La propria persona non viene messa in scena anche per farsi ammirare da altri, la scenografia della propria bellezza, della bonarietà del proprio carattere viene dissipata da altri, come se fossero persone sbagliate: “ Eri assente e il mio scherzare è andato in mani errate”.
Un’altra poesia sebbene si leghi in qualche modo a topos poetici tradizionali, poesia trobadorica, Petrarca, si configura in modo originalissima. Nella tradizione la realtà che circonda conosce l’amore e ne è quasi testimone: “sì ch’io mi credo ormai che monti et piagge/ et fiumi et selve sappian di che tempre/sia la mia vita, ch’è celata altrui”. (Petrarca – Solo e pensoso). In Anna Belozoroviotch avviene quasi un rovesciamento: “In tutto quello che non m’evita, ti cerco”. Tutta la realtà circostante risuona del ricordo dell’amato come se fosse presente: “Anche nel mormorio del traffico sotto la mia finestra/ perché è fatto anche di te, in movimento,/ vicino o lontano – parte di questa città che canta/ il rombo di qualunque cosa tu guidi o ti porta”. È possibile rintracciare l’amato non solo nelle cose, negli oggetti, nelle altre persone, ma nello stesso ambiente pur se non del tutto pacificato come non può esserlo una strada rumorosa e piena di traffico perché in quel traffico rumoroso c’è l’amato o che lo procura o che ne viene poeta mette a fuoco l’importanza della scrittura, che può essere ignorata, può andare distrutta, ma “è una vita a sé, la sua/ sospesa in eterno fra noi due”. Non è chi non ricordi l’introduzione che Pirandello fa al testo teatrale Sei personaggi in cerca d’autore, ove lo scrittore afferma che qualsiasi personaggio della scrittura, teatro o romanzo che sia, vive più dei personaggi reali. In questo caso per Anna Belozorovitch è la scrittura che vive in sé quand’essa è una voce dell’amore per l’altro, anche se voce inascoltata.
Infine voglio prendere in esame la poesia Svuotamento. Non so se la poeta d’origine russa abbia conoscenza degli elementi fondamentali della mistica da quella di San Giovanni della Croce a quella proposta da “L’imitazione di Cristo” di Tommaso da Kempis, ma la poesia Svuotamento sembra essere un modello paradigmatico del senso e del valore del percorso mistico: “Il mio lavoro è sempre stato -/ contro l’azione meccanica del mondo,/…/quello di mantenere un dissanguamento.” Il lavoro del mistico è quello di sottrarre continuamente da sé tutto quello che può tenerlo legato alle cose della realtà (si badi bene alle cose della realtà non alla realtà). Ebbene ecco come si esprime Belozorovitch: “ Pur di sentire il perenne svuotamento/ togliere tempo al sogno e all’atto/ e perseguire – per ucciderlo – l’adesso”. Non si toglie solo tempo all’”atto”, all’azione per rimanere nella contemplazione, che è la sottrazione dell’azione, azione che è una delle tentazioni più forti dell’uomo saputo di sé, ma si toglie tempo anche al “sogno”, in una totale privazione dell’io. A questo punto chi è quel “ti” del ventesimo verso: “ Pure senza volerlo, io ti ho guardato”. Se leggiamo la poesia all’interno del senso della silloge quel “ti” è l’amato ed allora lo svuotamento è il più puro atto d’amore che si possa compiere, perché l’io rinuncia totalmente a sé, persino al sogno, di cui si ha la piena e totale disponibilità etica, per consegnarsi, diremo anima e corpo, al suo amato. In fondo, come insegnano i mistici l’amore è una totale privazione di sé, perché in questo annullarsi si conquista la totale libertà, che poi nell’amare si mette in mano a chi si ama. I mistici a Dio, Anna Belozorovitch al suo amato.
La poesia si chiude con questi bellissimi versi: “Occhi negli occhi, mi dissanguo e penso/ che vivere e basta è non vivere affatto”. La silloge allora acquista il senso di un percorso che dal corpo va nel profondo dell’io per donarsi totalmente all’amato.
Se poi estrapoliamo questa poesia dalla silloge in cui è inserita e la leggiamo come cosa a sé, possiamo dire senza timore d’essere smentiti che è una poesia degna di stare alla pari con un elevato testo mistico, è una sorta di manifesto dello sforzo ascetico per raggiungere la libertà mistica.
27-09-2019