Il progetto descritto in questo articolo è stato presentato per la prima volta nel giugno 2017 all’Université du Québec di Montreal, in occasione della XXIX International Conference for Humor Studies. Successivamente sono state condotte sperimentazioni teatrali a Milano, Roma e Lecce, con migranti di diversa età, scolarizzazione e provenienza, in cui è stato possibile lavorare sulla creazione di un terreno comune, individuando un contesto linguistico culturalmente flessibile. Dai laboratori svolti è nata una compagnia teatrale che ha dato vita a uno spettacolo comico intitolato “Il Sogno di Enea – Se possiamo ridere per le stesse cose non siamo poi così diversi”, che è stato portato in tournée per due mesi (dicembre/gennaio 2017) nei teatri italiani, mettendo in luce le potenzialità dell’umorismo quale mezzo di interazione e inclusione sociale.
Premessa
Il fenomeno migratorio, che da anni investe molti paesi del mondo, vede migliaia di persone spostarsi da un luogo all’altro in cerca di condizioni di vita migliori. Il trasferimento in un paese straniero implica la necessità non solo di inserirsi e di adattarsi ai ritmi e alle esigenze di un differente contesto economico e lavorativo ma anche di comprendere e farsi comprendere all’interno di un nuovo contesto socioculturale, spesso profondamente diverso da quello di origine. Le donne e gli uomini che affrontano questa esperienza, tra l’altro, portano quasi sempre con sé vissuti di vulnerabilità e esclusione, diventando spesso oggetto di discriminazione e stigmatizzazione (Palmer, 2017). Essere accettati dalla comunità che ospita, appare allora una sfida assai importante e complessa, che pone in primo piano la questione dell’incontro e della convivenza tra culture, credi religiosi e lingue diverse (Carpentier & de la Sablonnière, 2013). 1
D’altra parte in Italia, in un periodo come quello attuale, di delicata convivenza tra nuovi arrivati e indigeni, si sta diffondendo in modo pericoloso la paura del “diverso”, inteso come rappresentante di una differente cultura, religione, stato sociale e visione del mondo. Per esorcizzare questa paura occorre allora suggerire un punto di vista nuovo da cui osservare l’altro (spesso narrato dai media e trattato nei social in modo affatto obiettivo e, anzi, funzionale a confermare le proprie prevenzioni) e provare a proporre un linguaggio alternativo con cui raccontarlo e consentirgli di raccontarsi.
Con l’intento se non di vincere, almeno di accettare questa sfida, l’anno scorso abbiamo dato vita al progetto di cui parlo in questo articolo, creato proprio per cercare di utilizzare le risorse dell’umorismo per guardare in modo diverso la realtà della migrazione e per raccontarla attraverso un linguaggio inedito. Abbiamo deciso di farlo con uno spettacolo teatrale comico, ponendoci un duplice obiettivo: fornire ai nuovi arrivati una risorsa creativa e di comunicazione per gestire al meglio il loro percorso di comprensione e inclusione nella nostra società e suggerire agli indigeni un nuovo punto di vista da cui osservare il fenomeno. Fare tutto questo in Italia è significato avere la possibilità di assecondare due necessità: una logistica, l’altra, assai più importante, di risposta a un’urgenza sociale. Essendo l’Italia la naturale porta d’Europa, è proprio qui che si gioca la partita più importante, è qui che, oggi più che mai, c’è bisogno di fare un lavoro di comprensione e di mediazione sul fenomeno. 2
L’intelligenza umoristica e il linguaggio comico
Tra i diversi approcci che possono favorire l’emergere di un terreno comune, lo sviluppo della reciproca comprensione e l’interazione tra italiani e migranti, l’umorismo (il suo pensiero e il suo linguaggio) è senz’altro il più divertente. L’umorismo è uno strumento molto più versatile e multifunzionale di quanto siamo abituati a ritenere, perché attraverso di esso possiamo non solo osservare la realtà da un punto di vista originale e raccontarla in modo inedito ma anche intervenire, per provare a cambiarla. Per esempio, possiamo provare a capirci meglio tra noi, oltre le differenze di lingua, cultura, età, classe, religione, credo politico, addirittura fede calcistica.
Da anni studio l’umorismo e lo metto in pratica in tutte le sue forme e sono arrivato alla conclusione che, per una particolare sua caratteristica, forse la più inaspettata, può essere un ottimo strumento di inclusione, coesione sociale e integrazione culturale.
Ma facciamo un po’ di chiarezza. Innanzitutto l’umorismo va bene quando si tratta di cercare il benessere proprio e di chi ci circonda, lo conferma un’ampia letteratura scientifica. Può anche avere a che fare con la comunicazione, certamente, con il tentativo di affascinare l’interlocutore, di convincerlo, di vendergli un’idea, un punto di vista, anche un prodotto, e questo lo sanno bene i pubblicitari più scaltri. Quando poi diventa espressione scenica o letteraria si trasforma in comicità, così da essere occasione di svago o strumento adatto per la satira, sociale o politica.
Non possiamo però negare che, spesso, l’umorismo divide, separa chi la pensa in un modo da chi la pensa in un altro, delimita, definisce e raggruppa persone e culture già molto simili: “i nostri” da una parte, “i loro” dall’altra. Insomma, l’umorismo, fenomeno sociale a tutti gli effetti, può sia interessare temi generali sia mettere in evidenza specifici aspetti che caratterizzano una data società, una tribù, una élite. Esso svolge una funzione importante rispetto alle dinamiche di appartenenza ai gruppi, favorendo al tempo stesso unità/integrazione e differenziazione e essendo quindi strumento sia di accettazione sia di possibile esclusione di un individuo da parte di un gruppo. 3
Proprio questa sua seconda funzione è stata alla base del nostro progetto e dell’idea intorno alla quale si sono sviluppati i nostri laboratori di teatro. Proprio grazie alla sua tribalità, alla sua tendenza a separare gruppi sociali, linguistici e culturali, l’umorismo ha potuto essere un indicatore perfetto della riuscita della creazione di un terreno comune tra le diverse culture dei partecipanti ai nostri incontri.
Ma non sarebbe stata un’operazione completa se il tutto non si fosse concretizzato infine in uno spettacolo, nella trasformazione dell’intelligenza umoristica in un linguaggio comico, nel confronto con il pubblico. Oltre che a caratterizzare l’appartenenza a un gruppo e a trovare un terreno comune su cui confrontarci, attraverso il linguaggio comico abbiamo potuto infine trasmettere cultura, usi e costumi, stringere un patto di solidarietà con il pubblico, un’ipotesi di sviluppo comune, di nuove prospettive condivise.
Questo articolo descrive il percorso che abbiamo attraversato per realizzare uno spettacolo comico con attori migranti, partendo dal presupposto che “Se possiamo ridere per le stesse cose non siamo poi così diversi”.
Prima parte: la creazione di un terreno comune
L’umorismo è un linguaggio innovativo, universale, diretto e popolare, funzionale a unire e a sdrammatizzare, a rigenerare l’accezione negativa di esperienze traumatiche, facendo incontrare su un terreno comune le diverse culture, ribaltando gli stereotipi, stimolando l’autoironia sia di chi osserva e sia di chi lo pratica. Confrontarsi attraverso il comico significa infatti stimolare la propria intelligenza umoristica e sintonizzarla con quella del pubblico. Utilizzare l’umorismo come linguaggio per uno spettacolo teatrale su un tema così emozionale e attuale, è significato fornire a chi è salito sul palcoscenico l’occasione di valorizzare la propria unicità nell’interazione artistica con gli altri e al pubblico che ha assistito alle serate di osservarsi e riconoscersi attraverso l’occhio di chi arriva da lontano.
Il percorso che ha portato alla realizzazione dello spettacolo teatrale comico è partito da due fasi di sperimentazione in forma di laboratori di teatro comico con stranieri ospitati presso due centri di accoglienza per richiedenti asilo, prima a Milano, poi a Lecce. Il target non era costituito da donne e uomini consci del percorso che stavamo iniziando e motivati a intraprenderlo ma semplicemente da esseri umani con una forte personalità, ricchi di storie e voglia di raccontarle. I laboratori sono stati condotti da me e sono partiti da interviste rivolte ai partecipanti, allo scopo di conoscere a fondo le loro storie e i loro caratteri. L’attività è stata volta innanzitutto a stabilire prima una sintonia di base, poi un’intesa sull’obiettivo, quindi sulla costruzione condivisa di un piano su come raggiungerlo. Attraverso i laboratori è stato stimolato l’interesse dei partecipanti rispetto ai motivi per cui scegliere di fare teatro comico, sulle potenzialità e i vantaggi dello stesso. Durante le lezioni i partecipanti erano invitati a mettere in scena esercizi di improvvisazione basati su sketch e battute che potessero stimolare la loro intelligenza umoristica. Venivano lasciati liberi di interpretare personaggi senza imporre una visione fissa predefinita e tenendo conto solo marginalmente delle questioni tecnico espressive, (voce, gestione degli spazi, rispetto dei tempi di dialogo).
Avendo l’opportunità di lavorare con gruppi straordinariamente variegati, composti da persone di lingua, cultura e esperienza di vita molto diverse tra loro e distanti dal mio consueto immaginario di commediografo italiano-europeo-occidentale, sono andato alla ricerca di un umorismo connettivo, che potesse produrre una comicità primaria, che andasse al di là delle barriere culturali e linguistiche.
Non è stata una passeggiata, poiché pochi tra i ragazzi all’inizio capivano l’italiano, quasi nessuno lo parlava e solo con un paio di loro era possibile intavolare discussioni contenenti semplici metafore. Per evitare che la questione dell’umorismo si rivelasse difficile da gestire ho cercato l’aiuto di qualcuno che comprendesse bene lingua e cultura italiane e, nello stesso tempo, conoscesse a fondo le loro. Abbiamo trovato questo aiuto in Samuel Hili, attore Ivoriano che vive e lavora a Mantova, conoscitore sia della lingua e cultura italiana sia di quelle di provenienza dei vari partecipanti, che ha svolto una prima mediazione culturale e linguistica con gli attori. Infine è stato coinvolto Mohamed Ba, attore e musicista senegalese da anni residente a Milano, nel ruolo di attore e co-autore. Ciascuna fase del lavoro ha visto poi la fondamentale presenza di Tommaso Vitali, il regista delle riprese video, che mi ha coadiuvato nella regia e nella costruzione di tutte le diverse fasi del progetto. Dal materiale video realizzato sarà tratto nei prossimi mesi un documentario.
Seconda parte: di cosa loro ridono
Fin dal primo incontro abbiamo cercato di fare in modo che i frequentanti sentissero l’urgenza di ridere prima ancora di imparare a far ridere e abbiamo considerato un successo ogni volta che questo è accaduto. Per mesi interi, alle lezioni, terminati gli esercizi di improvvisazione, ho parlato ai partecipanti di comicità. Volutamente generalizzando, non facendo distinzioni tra culture, paesi, popoli, classi sociali e individui. Invece di cercare il comico personale, cioè individuando subito e portando alla luce il valore e l’originalità di ognuno di loro (percorso logico e naturale in classi composte da aspiranti comici appartenenti a un’unica, medesima cultura), ho lavorato sul comico di gruppo, cioè generico, comune.
La ricerca della comicità stessa mi ha legittimato a farlo, perché per ridere occorre non temere di generalizzare e essere liberi di utilizzare cliché e luoghi comuni: passare da ciò che fa ridere me a ciò che fa ridere gli abitanti di questo pianeta passando per ciò che fa ridere la mia famiglia, il mio gruppo di amici, la città in cui sono nato, il paese in cui vivo, la mia generazione, il mio popolo, chi appartiene alla mia cultura, alla mia religione
Solo dopo aver scoperto che il proprio difetto può essere un difetto comune a molti e forse il pregio che si ritiene di avere è il pregio di tanti; che le cose non vanno nascoste perché più ci si esprime più si ha la possibilità di riconoscersi nell’altro e più si ascolta più si ha l’occasione di riconoscere l’altro in noi; solo dopo tutto questo, abbiamo potuto provare a ridere di noi stessi e a iniziare a lavorare seriamente al nostro spettacolo comico.
Al termine di ogni incontro veniva infine stimolata la discussione riguardo il tema della comicità nelle rispettive culture, senza sottolineare le differenze tra di esse bensì evidenziandone i tratti comuni fino a perdere la percezione della differenza tra singoli. Il percorso laboratoriale prevedeva anche una parte dedicata a un confronto tra le sensibilità umoristiche dei partecipanti, attraverso la visione, la rilettura e la discussione intorno alle diverse produzioni comiche (cinematografiche, letterarie, teatrali o di tradizione popolare) dei paesi d’origine. Inoltre l’attività prevedeva di lavorare con i partecipanti nel ricreare il meccanismo comico per cui ridevano, provando a trasformare in linguaggio ciò che era stato lo stimolo umoristico.
L’utilizzo del materiale relativo alle produzioni comiche dei vari paesi d’origine dei partecipanti, ha permesso loro di lavorare sulla propria sensibilità umoristica, spiegando le proprie preferenze e stimolando un pensiero attivo nei confronti dell’espressione comica, di solito ricevuta passivamente. Questo ha consentito loro di operare un basilare procedimento critico sul linguaggio comico utilizzato, utile anche a evidenziare caratteristiche sociali e culturali del paese di cui era espressione.
Terza parte: di cosa ridiamo noi
Dopo aver scoperto e analizzato insieme cosa facesse ridere loro (e, in qualche modo, facendo un grande sforzo di generalizzazione, la maggior parte degli africani o degli asiatici), siamo passati a mostrare che cosa facesse ridere noi (e facendo uguale sforzo di generalizzazione, gli italiani e gli europei). Per alcuni incontri si è proceduto alla visione collettiva di scene del cinema e del teatro comico italiano e alla lettura (e interpretazione mia) di brani della letteratura umoristica italiana.
Il percorso si è rivelato un viaggio dal duplice valore. Per prima cosa, il cercare analogie e punti di contatto tra la comicità italiana e quella dei paesi d’origine, trovando la i medesimi stimoli che si era abituati a trovare qua, significava andare alla ricerca di un umorismo il più possibile senza confini, che potesse trasformarsi sul palcoscenico in una comicità multiforme e di origini lontane ma comprensibile dal pubblico italiano. E dove non vi erano parallelismi comici, vi era comunque l’occasione di trovarvene di relativi alle condizioni sociali e di vita di un’Italia povera, ignorante ma piena di speranza, fin troppo simile a quelle di molti paesi africani.
La scelta di utilizzare materiale appartenente al cinema, al teatro comico e alla letteratura umoristica italiana ha perciò fornito ai partecipanti l’occasione di cercare e trovare connessioni storiche e sociali (la fame, la povertà, la guerra) tra culture e al tempo stesso di scorgere connessioni umoristiche inaspettate, come ridere di una scena di Totò, Alberto Sordi o Paolo Villaggio pur non avendo alcun punto di riferimento culturale né di corrispettivo con la cultura d’origine.
Il percorso nel suo insieme ha permesso di andare oltre le differenze di lingua, cultura, mentalità e di trasformare ogni ostacolo comunicativo in un canale di connessione e scambio. E’ emerso quindi un denominatore comune di tutta la diversità coinvolta ovvero la semplice appartenenza alla razza che più fa ridere al mondo, con i suoi pregi e i suoi difetti: quella umana.
Quarta parte: trasformare il pensiero in linguaggio
Le prime tre fasi laboratoriali si sono svolte inizialmente presso il centro Corelli di Milano, per poi continuare sia in un ambiente esterno e meno strutturato dello stesso centro, quindi presso le strutture del GUS di Lecce, dove è stato possibile trovare gli elementi, i collaboratori e il clima favorevole al completamento del percorso. Molti volontari del centro leccese hanno infatti offerto il loro contributo affinché i laboratori potessero proseguire e le prove dello spettacolo iniziare.
La quarta parte, dedicata alla messa in pratica di tutto quanto imparato ci ha necessariamente costretti al repentino passaggio da una forma di attività basata su vere e proprie lezioni “plenarie”, costituite da decine di partecipanti, alla scelta dei tre attori che, con Mohamed Ba e Samuel Hili, sono diventati gli interpreti dello spettacolo: Amara Baradji proveniente dal Mali, Nasir Iqbal Chaudhry dal Pakistan e Fode Diawara dalla Guinea. La scelta, naturalmente, è stata fatta tenendo principalmente conto dell’interesse dimostrato dai partecipanti e dalla loro partecipazione più o meno assidua. Prima di valutare il senso dell’umorismo di ogni frequentate è stato inoltre tenuto presente quello di responsabilità.
Operata la scelta dei protagonisti abbiamo lavorato su quella della lingua con la quale avremmo scritto e rappresentato lo spettacolo. In questo senso il percorso ha puntato verso la ricerca di elementi comuni mediante i quali potersi intendere, comprendendo anche espressioni appartenenti alle diverse lingue-madre dei partecipanti, portatrici di voci e valori familiari, e introducendo infine la possibilità di coniare parole nuove e costruzioni sintattiche inedite.
Abbiamo con loro discusso ogni frase e ogni gesto contenuto nel testo dello spettacolo, affinché nulla sembrasse imposto da una visione regista ma nascesse e crescesse grazie ai contributi di ognuno. In particolare, sono stati fondamentali i loro ricordi e le loro esperienze nella definizione delle parti riguardanti il viaggio e l’arrivo in Europa attraverso i contatti, i trasporti nel deserto e il viaggio in mare.
Abbiamo infine lavorato attraverso tecniche di teatro comico, perché si aprissero e provassero a non temere di raccontare davanti a un pubblico ciò che stavano vivendo. Personalmente ci ho messo dentro tutto quello che sapevo sui meccanismi comici e sugli allenamenti per stimolare l’intelligenza umoristica. Molti sono serviti, altri si sono rivelati, in questo caso, non del tutto efficaci, tanto da stimolarmi a inventare, sperimentare e applicare nuove idee, nuovi meccanismi e nuove tecniche.
Rappresentazione
Nello scrivere, dirigere e allestire lo spettacolo con un gruppo di attori migranti non ci siamo ispirati a testi esistenti. Abbiamo voluto creare lo spettacolo, passo dopo passo, insieme a donne e uomini, ospiti nei centri di accoglienza, che avevano davvero vissuto le peripezie raccontate, e che loro stessi hanno portato in scena. Da parte mia non sono stato un autore, né un regista ma un semplice capocomico che ha messo insieme un po’ di persone con un bagaglio di esperienze e di racconti e li ha aiutati a osservare la propria realtà in modo diverso da quello cui erano abituati.
Il nostro scopo non è stato semplicemente parlare di migrazioni e accoglienza, ma cercare attraverso il comico di stabilire canali di connessione e di intesa tra gli attori che narrano e il pubblico che ascolta. Abbiamo voluto parlare non a un pubblico pronto e in sintonia con il nostro sentire, bensì allargare la comunicazione a tutti quelli il cui solo sentire parlare di migranti e accoglienza faceva venire l’orticaria. L’umorismo ci ha consentito di trovare quei punti in comune e quelle intese inaspettate tra chi la pensa in modo diametralmente opposto e ha aiutato persone lontanissime socialmente e culturalmente a riconoscersi e comprendersi.
Il Sogno di Enea è una commedia che inizia e finisce in modo emozionale e per nulla umoristico, per evitare di agevolare troppo la componente ludica del racconto e di dimenticare, in questo modo, le proporzioni della tragedia che comunque fa da sfondo al fenomeno della migrazione. Nella sua drammaturgia trovano spazio monologhi, dialoghi e rivisitazioni di alcune scene molto popolari della comicità italiana, operazione che abbiamo ritenuto fondamentale. In particolare, abbiamo scelto quella scene che, viste insieme durante i laboratori, hanno più coinvolto e (sorprendendoci alquanto) fatto ridere i nostri partecipanti. Una delle scene che più erano piaciute e che quindi abbiamo rifatto è stata quella tratta dal film Totò, Peppino e la malafemmina, in cui i due protagonisti si trovano a Milano, in piazza Duomo, a chiedere informazioni a un vigile. Il fatto che una scena realizzata quasi settant’anni fa in Italia, con protagonisti personaggi i cui tic, le caratteristiche e il linguaggio risultano assolutamente neutri o comunque, irriconoscibili agli occhi di un africano di oggi, abbia fatto tanto ridere i nostri partecipanti, potrebbe essere oggetto di uno studio successivo. Per ora limitiamoci a un semplice elenco dei fatti. Un’altra scena che è piaciuta senza riserve ai nostri partecipanti è stata quella di Un americano a Roma, in cui Alberto Sordi si siede a tavola, rifiuta i maccheroni e prova a mangiare “come un americano”. Salvo poi dare il tutto in pasto al cane e tuffarsi nel piatto di maccheroni rimasto sul tavolo. Una terza scena è stata invece quella di Non ci resta che piangere, in cui Roberto Benigni e Massimo Troisi passano, non senza qualche difficoltà, attraverso una dogana che richiede per dazio “un fiorino”.
Come scelta della lingua non abbiamo ovviamente potuto non realizzare una scena le cui parole sono sostituite dal tipico gesticolare italiano. E pure in questo caso i partecipanti si sono divertiti all’inverosimile cercando di osservare, ripetere e tradurre i più diffusi gesti italiani.
Argomento e contenuti dello spettacolo
Utilizzare l’umorismo come linguaggio dello spettacolo, è significato fornire a chi è salito sul palcoscenico l’occasione di valorizzare la propria unicità nell’interazione artistica con gli altri e al pubblico di osservarsi e riconoscersi attraverso l’occhio di chi arriva da lontano. Dalle prime battute alla fine dello spettacolo, però, l’umorismo non è stato mai semplicemente un gioco liberatorio, finalizzato al divertimento e allo svago, bensì utilizzato come strumento di interazione e di inclusione tra persone, popoli e culture.
La conquista è quindi stata ridere, ridere tanto, ridere insieme e ridendo, riflettere sulla realtà di questa epoca, nella quale due mondi, divisi dal Mar Mediterraneo, si affrontano e si confrontano, si attraggono e si respingono: un mondo che cerca pace e un minimo benessere materiale e un altro che ha il disperato bisogno di sogni e di speranze per ritrovare se stesso.
L’argomento dello spettacolo è stato il viaggio, non soltanto di quello compiuto personalmente dai protagonisti dello spettacolo (e compiuto quotidianamente migliaia di persone in fuga da guerre e povertà) ma anche del viaggio compiuto insieme verso la realizzazione di un progetto di integrazione ed inclusione umana e sociale attraverso l’arte umoristica. La figura di Enea appare quindi l’emblema di questo duplice viaggio e oggi è incarnato dalle migliaia di uomini e donne che superano le montagne e attraversano il mare per giungere in Europa, ognuno per fuggire dalle rovine del proprio paese, per inseguire un sogno, con in groppa il proprio padre, simbolo del bagaglio di una tradizione e cultura di appartenenza che non può essere dimenticata. Enea rappresenta l’essenza di tutti i partecipanti di questo progetto teatrale che, attraverso il mezzo umoristico, hanno saputo integrare elementi culturali ed espressioni linguistiche differenti per interpretare personaggi e narrare storie, costruendo un progetto condiviso e comprensibile da tutti.
Il Sogno di Enea quindi, nel suo insieme, ha permesso al mezzo umoristico di creare un terreno comune sul quale incontrarsi, accogliersi e integrarsi. Grazie al comico appare possibile favorire la trasmissione di tradizioni e culture e stringere un patto di solidarietà condiviso. Attraverso questa connessione tra le parti, il progetto ha messo chiaramente in luce la natura universale della risata umana, evidenziando le sue potenzialità in termini di superamento delle differenze per fare emergere un denominatore comune: “Se possiamo ridere per le stesse cose non siamo poi così diversi”.
Lo spettacolo si è avvalso di alcune musiche originali, composte per l’occasione, e di altre che, con intento evocativo, necessariamente facevano riferimento alle terre d’origine dei protagonisti. A completare il tutto diversi contenuti video facevano in molte parti da sfondo all’azione scenica. La scena finale prevedeva che gli attori scendessero dal palco ad abbracciare le persone tra il pubblico, quasi una per una. Tornati sul palco, i protagonisti si fermavano poi in proscenio, con accese le luci di sala, per rispondere alle molte domande del pubblico che ogni volta ci sono state.
Il pubblico
Lo spettacolo è stato rappresentato in serata e in matinée, per le scuole, in trenta città italiane, nei mesi di dicembre e gennaio. Per quanto riguarda le scuole, il pubblico composto da studenti delle classi medie e superiori è stato preventivamente preparato attraverso la consegna, tramite lo stesso istituto scolastico, di schede informative contenenti nozioni e curiosità sui continenti africano e asiatico e sui popoli che lo abitano: giochi e quiz sugli usi e i costumi, sulle lingue native e sulla storia del colonialismo (quindi sul perché di molta della realtà di oggi). Le schede contenevano anche una breve storia dei protagonisti dello spettacolo.
L’organizzazione
Il Sogno di Enea, laboratori e spettacolo teatrale, non ha avuto alcun finanziamento pubblico e, per essere realizzato in tutte le sue parti, si è basato esclusivamente su una campagna di crowdfunding e sulla vendita delle serate ai teatri e alle scuole. Ciò ha comunque permesso di mettere a contratto, assicurare e pagare regolarmente gli attori protagonisti dello spettacolo, che sono partiti per la tournée e sono stati ospiti in strutture alberghiere senza mai fare ritorno al centro per due mesi.
Il resto è stato portato a compimento grazie al lavoro meritevole e volontario di un nutrito gruppo di persone composto da professionisti (che sono diventati più che amici) e amici (che hanno lavorato sodo e senza risparmiarsi). Tra loro, vorrei citare: Tommaso Vitali (regista cinematografico e documentarista, Ethnomusicology and Visual Anthropology Lab – Università del Studi Milano), per la collaborazione continua e preziosa; Giovannantonio Forabosco (direttore, Centro Ricerca sull’Umorismo), per la consulenza scientifica e il sostegno morale prima, durante e dopo il progetto; Stefano Di Polito (scrittore, Chiarelettere e regista cinematografico, Rai Cinema), per l’idea iniziale; Angela Marchisio (insegnante di italiano, associazione No Walls), per i contatti al centro Corelli di Milano; Raffaele Taddeo e Remo Cacciatori rispettivamente Presidente de La Tenda e responsabile scrittura creativa, scuola La Tenda. Il Centro Culturale Multietnico La Tenda è proprietaria di El-Ghibli – Rivista di Letteratura della Migrazione; Andrea Pignataro e Chiara Marangio (rispettivamente: responsabile nazionale volontariato e consulente clinica, GUS – Gruppo Umana Solidarietà), per l’intermediazione con i diversi progetti di accoglienza e i loro beneficiari; Gianni Ruggieri, operatore sociale e aiuto regista dello spettacolo, per il suo impegno e la sua pazienza; Antonella Agnoli (Assessore alla Cultura, Comune di Lecce), per il sostegno logistico e per aver deciso di inserire Il Sogno di Enea in cartellone per la rassegna del Teatro Pubblico Pugliese); Sergio Cacciatore, per la professionalità e le idee nella regia audio-luci dello spettacolo; Massimo Fiore, per la promozione dello spettacolo nelle scuole; Egle, Giovanna, Laura, Marilù, Tiziana, Luca, Roberto e Stefano per la professionalità, la simpatia, la disponibilità e l’amicizia dimostrata. Infine Samuel Hili, Mohamed Ba, Amara Baradji, Fode Diawara e Nasir Iqbal Chaudhry, perché senza di loro questo progetto non sarebbe potuto esistere. E nemmeno questo articolo.
Conclusioni
La difficile condizione dei richiedenti asilo in cerca di protezione in un nuovo paese, spesso molto lontano da quello di origine dal punto di vista, culturale, religioso e linguistico, pone in primo piano la necessità da parte di queste persone di essere riconosciute e sostenute nel percorso di apprendimento di una nuova lingua, di inserimento in un nuovo tessuto sociale e lavorativo e prima ancora di riadattamento del proprio concetto di sé all’interno di un nuovo contesto (Ambrosini & Marchetti, 2008; Golden & Lanza, 2013). I percorsi di integrazione adottati dai paesi ospitanti si rivelano sempre più tortuosi e complessi, sottolineando l’importanza di agire su più livelli per far emergere un denominatore comune a partire dall’incontro tra mondi apparentemente molto diversi (Ambrosini & Marchetti, 2008; Carpentier & de la Sablonnière, 2013). 4
A partire da tali premesse, sono convinto che il presente progetto si possa porre come una proposta di lavoro innovativa, che mostra le potenzialità dell’umorismo quale mezzo originale e non convenzionale di promozione di percorsi di integrazione e inclusione sociale per migranti.4
1 Elena Amore
2 Matteo Bellizzi, per il concetto di “luogo in cui si gioca la partita”, riferito all’Italia
3 Elena Amore
4 Questo, come i precedenti paragrafi di Elena Amore, alle note 1 e 3, sono tratti da un articolo dal titolo “Il Sogno di Enea. Se possiamo ridere per le stesse cose non siamo poi così diversi: spettacolo teatrale comico con attori migranti”, pubblicato dalla rivista scientifica R.I.S.U. – Rivista Italiana di Studi sull’Università