Stanza degli ospiti

Morfeo

Il nome “Adila”, in arabo, significa “la giusta”.

Lei ne era orgogliosa e le sembrava che l’appellativo contenesse una profezia positiva sul suo destino: la vita le avrebbe arriso e lei sarebbe stata foriera di pace e tranquillità. Niente di più falso, invece, si rivelò quell’auspicio quando la guerra travolse lei e chi amava.
Così Adila decise di cercare altrove quella giustizia che il suo nome richiamava: con fatica e sacrifici, corse pericoli e si affidò alla fortuna. Riuscì a fuggire dalla Siria e a raggiungere la Svezia, insieme al marito Osman e ai suoi tre bambini. Aveva scelto quel luogo sulla base del consiglio di alcuni amici che vi si erano rifugiati mesi prima e che le avevano parlato di un paese accogliente, di gente sensibile e cortese.
Era arrivata a Stoccolma un mese prima, tuttavia non riusciva ancora ad adattarsi al clima rigido: il freddo pungente la sorprendeva ogni mattina, così secco e diverso da quello del suo paese. Il gelo aderiva alle guance quando usciva di casa come una pellicola di alluminio e al ritorno, il calore lo faceva sciogliere, rigandole il volto con lacrime di brina.
All’arrivo in Svezia, nell’attesa che la richiesta di asilo completasse il suo corso, le fu assegnato un piccolo appartamento di due stanze, non lontano dal centro abitato. Il bilocale era pulito e semplice e molto più funzionale della casa che avevano lasciato, in gran parte distrutta dalle bombe. Fortunatamente erano riusciti a sfuggire prima del crollo, nel momento in cui l’edificio era divenuto pericolante e inagibile.
Nel nuovo paese, i servizi sociali si erano subito attivati per aiutarla a trovare delle scuole nelle quali i suoi figli si potessero integrare e un lavoro temporaneo al marito come muratore. Dopo tutto quel tempo sotto i bombardamenti, la fuga repentina dai parenti e dagli amici, dall’odore dei calcinacci e della polvere da sparo, ora le sembrava un momento di insperata tranquillità in attesa dei prossimi eventi.
Ad Adila piaceva quel paese anche se provava nostalgia per il suo, abbandonato velocemente non appena erano riusciti a raccogliere i soldi. I genitori e i fratelli li avevano aiutati e prestato il denaro per raggiungere la cifra necessaria al viaggio. Non sapeva come avrebbe potuto restituirla ma in quel momento aveva pensato solo a portare in salvo i suoi figli, lontano da una guerra incomprensibile e feroce.
Guardava le madri svedesi e le vedeva così diverse da lei. Parlavano una lingua complicata ed erano morfologicamente dissimili nel colore della pelle e degli occhi, ma erano genitori anche loro e rivedeva nei loro sorrisi lo stesso amore che provava per i suoi bambini. Si sentiva, per così dire, fuori posto ma nello stesso tempo desiderava profondamente far parte di quel popolo per offrire una speranza alla famiglia e ricominciare a costruire un futuro degno di tal nome.
Fu in quei giorni che accadde qualcosa che mutò di nuovo il corso della sua vita. Una mattina si accorse di non riuscire a svegliare la più piccola dei suoi figli, Anya. Sul momento non si preoccupò. Pensò che fosse stanca o avesse dormito male quella notte. Decise di lasciarla continuare il riposo. Aiutò i più grandi che si stavano preparando per la scuola, predisponendo la colazione e le merende, che furono deposte negli zaini.
Ritornò in casa dopo aver lasciato i due figli alla fermata dello scuolabus e si recò nella camera della piccola, cercando di svegliarla. Ma non vi riuscì. Pensò di chiamare il marito al telefono per chiedergli un consiglio, ma era uscito il mattino presto per andare al lavoro e si sentiva sciocca a disturbarlo per così poco. Era essenziale che Osman avesse un lavoro perché era il loro unico stipendio e il sussidio per gli immigrati non bastava a dar da mangiare a tutta la famiglia.
A breve, il comune avrebbe dovuto far sapere se la richiesta di asilo che avevano presentato, era stata accettata o se lo spettro di un ritorno forzato in patria li avrebbe presto inseguiti. Non voleva neppure pensare a questa infausta eventualità, dopo aver assaggiato la normalità di una vita senza soprusi, timori e fame. Avevano da poco tempo lasciato la guerra alle loro spalle e i bambini ancora si svegliavano di notte urlando per la paura.
No, non potevano mandarli indietro. Sarebbe stata la fine.
Anche la piccola Anya sembrava meno preoccupata nelle ultime settimane. Non stringeva più il suo pupazzo preferito tra le mani affondandovi il viso, non si svegliava più di notte, sudata e tremante e non si voltava più di scatto a ogni minimo, sconosciuto rumore. “Come possono i bambini, seppur così piccoli, percepire queste sensazioni di pericolo e crescere in fuga continua, alla ricerca di un domani irraggiungibile?” si chiedeva la donna.
La bambina continuava a dormire, nonostante lei la scuotesse delicatamente per le spalle, prima piano poi con più vigore. Le spruzzò anche dell’acqua sul viso ma nulla accadde. Il respiro era regolare, tranquillo e il corpo rilassato. Sembrava il riposo sereno di un bimbo, se non fosse durato dalla sera prima. Ma ormai era mezzogiorno e la madre era preoccupata. La ragazzina non aveva mai dormito tanto in vita sua.
Le fece allora il solletico e le diede dei piccoli pizzicotti. Ancora nulla. Decise di telefonare al medico: rispose una donna gentile a cui lei espose il caso, cercando di farsi capire nel suo stentato svedese. La dottoressa rispose che sarebbe passata a breve nel suo appartamento, appena avesse chiuso l’ambulatorio del mattino. Adila le diede l’indirizzo e depose il cellulare.
Si sedette quindi sul bordo del letto della bambina, tenendole la mano e rimase in attesa. Quando il medico arrivò, cercò a sua volta di svegliarla, senza risultato. Provò con del ghiaccio, ipotizzando uno scherzo che la ragazzina volesse fare ai genitori, ma neppure al contatto con il cubetto freddo vi fu reazione e gli occhi non si riaprirono. Stupita e impotente, decise di chiamare un’ambulanza.
Arrivarono i paramedici e presero delicatamente la bambina in braccio, il corpo docile a qualsiasi movimento ma innaturale, come una bambola di pezza. Constatarono che le funzioni vitali erano nella norma, ma in quello che ritennero un coma vigile o indotto: non si capiva come potesse essersi instaurato o quale evento lo avesse scatenato.
Molteplici furono le domande alla madre e al padre al suo ritorno, così come ai fratelli dopo la scuola. Dalle loro parole, i medici appresero che la piccola era semplicemente andata a dormire la sera prima, dopo cena e non si era più svegliata. Senza un motivo apparente, senza una causa scatenante.
Fu ricoverata in ospedale e nelle settimane successive, ai genitori sembrò di impazzire. Già in ansia e spaventati per il timore di essere rimandati in patria, non riuscivano a versare ulteriori lacrime per quella situazione inconcepibile che aveva colpito la figlia, rapita nelle spire di Morfeo.
Ciò che li confortava, però, era poterla vedere serena: speravano non fosse nulla di grave e comunque si trattasse di uno stato temporaneo. Non sembrava sofferente ma semplicemente, come nella fiaba “La bella addormentata nel bosco”, una ragazzina che riposava.
La trattennero in ospedale ancora per qualche giorno, poi li chiamarono per avvisarli che l’avrebbero dimessa. Adila e Osman sperarono di ricevere buone notizie sulla sua prossima guarigione, ma non ve ne furono. Nulla potevano fare nella clinica più di quello che la famiglia stessa faceva per lei a casa. Così Anya ritornò nell’appartamento di famiglia, con un sondino per l’alimentazione in bocca, a rioccupare il suo letto pieno di pupazzi colorati.
Nessuna cura risultava ulteriormente necessaria se non provvedere alla sua igiene quotidiana, nessuna terapia risultava efficace e in grado di svegliarla. La mente della bambina sembrava semplicemente sospesa in un mondo sconosciuto, accessibile a lei sola. Gli psicologi cercarono la motivazione di questo suo isolamento dal mondo: si ipotizzò che avesse percepito il timore dei genitori di essere rimpatriati oppure che si fosse scatenato un disturbo post-traumatico legato a qualche evento visto o accaduto durante la guerra. Forse invece si trattava di una forma di autodifesa del corpo che preferiva un silente letargo piuttosto che affrontare una vita complessa, pericolosa e incerta.
L’ospedale indirizzò i genitori verso alcune associazioni che si occupavano di altri simili casi. Vi erano infatti, in vari paesi scandinavi, famiglie di emigrati da paesi in guerra o di rifugiati che presentavano casi simili a quello di Anya, dove bambini o ragazzi erano caduti in forme di narcolessia che duravano anche per mesi. Poi, all’improvviso e senza alcuna spiegazione, si svegliavano a distanza di tempo, senza ricordare nulla dell’accaduto.
Adila, la giusta, e suo marito capirono così di non essere più soli: numerosi medici si stavano prodigando per aiutarli a trovare una cura al problema mentre le maestre e i compagni della bambina si offrirono di farle compagnia durante il giorno. Associazioni di volontariato si dedicarono alla fisioterapia di quel corpicino inerme, mentre il tempo lentamente passò. Proprio in quei giorni arrivò la conferma dell’accettazione della loro richiesta di asilo.
Seduti sul letto della bambina, si guardarono negli occhi e trassero un sospiro di sollievo: in quel momento, anche a migliaia di chilometri dalla loro patria e nonostante tutto, si sentirono finalmente a casa.

Liberamente ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti

L'autore

Carola Cestari

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