kossì komla-ebri
neyla
Edizioni dell’Arco
remo cacciatori
l. Il tema del ritorno
A una lettura affrettata questo romanzo di Kossi potrebbe sembrare lontano dalla sua produzione: una narrazione appassionata di una storia d’amore, che non si preoccupa di usare un linguaggio apertamente melodrammatico appare anomala, se confrontata con i testi dello stesso autore che noi conosciamo. Anche là ci era proposta una chiave di lettura intimista della realtà, la quale era vissuta da persone prima che da bianchi o da neri, ma i sentimenti, i valori di quei racconti erano espressi nei toni pacati del resoconto. In quelle storie le passioni amavano nascondersi sotto il sorriso dell’ironia, gli insegnamenti morali assumevano volentieri l’aria trasognata delle fiabe, non uscivano certo allo scoperto, abbandonandosi ai gesti espliciti e impudichi del melò.
Eppure, ad una lettura appena un po’ più attenta, si vede bene che il tema di questo romanzo non è tanto l’amore, quanto ciò che questa storia d’amore vuole mascherare, ovvero i problemi legati al ritorno e vissuti da tutti coloro che hanno dovuto fare i conti col rimettere piede sulla propria terra. Per cui ciò che qui appare come passione per Neyla, come esperienza del vedere, conoscere, avere, perdere qualcuno che abbiamo sempre desiderato, nasconde in realtà i tormentati stati d’animo di chi ha provato a ri-vedere ri-conoscere, ri-avere, qualcosa che già era suo e che si appresta, forse per sempre, a riperdere. Visto da questa angolazione Neyla racconta una storia del tutto coerente con quelle narrate da Kossi, nei cui testi il tema del ritorno è non solo ricorrente, ma probabilmente dominante. Lo è ad esempio inQuando attraverserò il fiume, Mal di., Sognando una favola, Vado a casa, e poi in molte storielle di Imbarazzismi, come Zi badrona, Il trasloco, Pre-giudizi.
Tutto questo contribuisce a rendere la sua narrativa originale, perché in genere nelle storie di migranti gli arrivi prevalgono sui ritorni, lo strazio della partenza non lascia spazio al dramma del rientro. E chi è in cammino verso nuove mete, anche se piene di incognite, è animato da uno stato d’animo diverso da quello di chi medita di tornare verso luoghi conosciuti. Il primo è partito perché spera che tutto cambi; egli è animato dal desiderio di avventura, ciò che cerca è l’inedito legato alla sua nuova condizione di vita. Chi rientra, sogna invece una terra in cui nulla è cambiato; stanco di novità, egli desidera solo ritrovare il già visto, riconfermare i suoi ricordi. Per questo lo sguardo di chi ritorna è così sospettoso e intransigente: per lui il viaggio corrisponde a una resa dei conti, significa fare un bilancio della propria vita e sottoporsi al giudizio degli altri. Non così chi parte, che è disposto a mettersi in gioco e a osservare con sguardo tendenzialmente benevolo ciò che la vita gli riserva: anche se sa di andare incontro a gente spesso ostile, per salvaguardare la sua identità può fare appello alla sua fierezza, può rivendicare i suoi diritti. Chi torna, invece, ha ben pochi diritti da invocare: col passare del tempo essi hanno lasciato il posto ai doveri verso chi è restato, di cui egli deve dimostrare di meritare il rispetto (“io rappresentavo molto per loro”, dice a un certo punto il protagonista). Spesso, infatti, rimpatriare è più pericoloso che approdare a nuove terre, come ci ricordano i drammatici ritorni degli eroi epici come Agamennone, Diomede, Idomeneo e Ulisse, perché il ritorno ci mette di fronte alla realtà del tempo che passa e del mondo che cambia anche senza di noi. E così la gente si trasforma, muore, occupa gli spazi che abbiamo lasciato e quando torniamo stentiamo a riconoscere le persone, a riassumere i ruoli, come in quei film di fantascienza in cui il breve viaggio degli astronauti corrisponde ad un’eternità di mutamenti vissuti sulla terra, allegoria della verità che a cambiare non è solo chi parte, ma anche (e spesso soprattutto) chi resta.
2. La donna e i procedimenti del ritorno
Chi ritorna, quindi, porta con sé i segni del mutamento e incontra una realtà mutata. Onorato perché ha avuto il coraggio di partire, deve nello stesso tempo farsi perdonare per essere partito. Non solo. Egli può tornare più saggio, o essere considerato tale, ma il suo sapere e la sua esperienza sono il frutto di germi estranei, forse pericolosi. Per questo è visto con stima, ma anche con sospetto, l’ammirazione con cui se ne parla è velata di diffidenza. Perció egli deve in qualche modo ribadire l’appartenenza alla sua terra e sottoporsi a riti di purificazione, che ne rinnovino l’incorporamento. I più banali di questi rituali sono il fare doni o il mostrare di ricordarsi (i dialoghi formalizzati della tradizione, le regole della casa, le abitudini con i parenti e gli amici). Ma non è facile riadattarsi dopo cinque anni di assenza e per “essere ricongiunto a se stesso e alla propria gente” occorre un rito di incorporamento più radicale e più drammatico.
Nella cultura occidentale sono le donne a gestire questo passaggio. Calipso, Nausica, Circe, Penelope, Didone, Cleopatra: tutti questi personaggi femminili incarnano lo spirito del luogo, le sue radici, che nel romanzo di Kossi sono allegorizzate nella figura di Neyla. In questa chiave di lettura l’amore per lei del protagonista rappresenta un rito di incorporamento, di riconciliazione, di riappropriazione della propria terra. Se da una parte, quindi, Neyla è una figura realistica, appassionata e struggente, dall’altra, come ci suggerisce l’autore stesso in un suo commento al termine della narrazione, essa è l’allegoria dell’Africa stessa. Come l’altra donna della storia, la madre, essa ha il compito non solo di far sentire il protagonista a casa, ma di restituirgli “un pezzo mancante”, consentendogli, più di una volta attraverso il pianto, di riappropriarsi di se stesso, del suo lato segreto e insicuro.
Ma sotto Neyla, personaggio complesso e variegato, c’è di più. Essa infatti non simbolizza soltanto la riconciliazione con la propria terra, ma è anche figura dell’accettazione della propria terra cambiata. Infatti il carattere di Neyla è contraddittorio: essa appare emancipata, occidentalizzata (il protagonista per prima cosa nota che porta gli occhiali da sole come i bianchi), ma è l’unica a saper comunicare con la gente del luogo; è sfrontata, disinvolta aggressiva e contemporaneamente timida, riservata, fragile. Allo stesso modo il protagonista è consapevole che la donna che egli ama visceralmente ha avuto e forse ha ancora una vita tutt’altro che limpida: è stata la donna di un bianco, si è prostituita, è di nuovo incinta di un altro uomo. L’Africa che Neyla rappresenta, dunque, non è una terra idilliaca: essa ha conosciuto lo sfruttamento dell’Occìdente e ne vive ancora la seduzione. Tuttavia è proprio questa l’Africa che il protagonista, con senso di realismo al di là dell’allegoria, ama, combattuto tra il desiderio e la ripulsa, l’accettazione e l’utopistica volontà di cambiamento.
3. Le due Afriche
Per la verità nel romanzo non è rappresentata un’Africa, ma almeno due. Da una parte c’è la città, che naturalmente porta i segni più contraddittori e discutibili della contaminazione occidentale. Essa è caratterizzata dai mercati, dal porto, dalle vie, popolate da venditori di ogni tipo, percorse da taxi dai nomi più imprevedibili, dove le luci delle vetrine, comuni a tutte le metropoli, si mescolano a quelle delle lampade a petrolio, l’asfalto si stempera nella terra battuta, le case residenziali si alternano alla “provvisorietà da campeggio” di edifici fatiscenti. Sotto quelle descrizioni trapelano vizi e virtù della gente: l’intraprendenza, la fantasia, ma anche l’indifferenza e la voglia di uscire in fretta dalla miseria, attraverso qualsiasi scorciatoia.
C’è poi l’Africa delle campagne, delle foreste verdi e rigogliose, per raggiungere le quali bisogna passare attraverso una cortina militarizzata, fatta di continui blocchi stradali, e superare la paura di un arresto ingiustificato, la vergogna di un pedaggio arbitrario, il terrore di una scarica accidentale di mitraglia. Al di là di questa barriera appare l’Africa incontaminata, il mondo che avevamo conosciuto nel racconto Quando attraverserò il fiume e si entra nella terra dei ricordi più lontani, ma anche delle presenze più inquietanti. Qui, nella casa delle anime degli antenati, dove lavora lo zio guaritore, si radunano gli spiriti e si manifestano attraverso una profezia. In questo luogo il protagonista (e il lettore con lui) ha la sensazione di trovarsi di fronte a delle forze potenti, espressione di una realtà alternativa, alla cui esposizìone si potrebbero sgretolare le sue certezze. Nello stesso tempo egli sente la saggezza di quel mondo magico, che si regge su un antico equilibrio di corpo, anima e natura. E ancora una volta Neyla è l’interprete di questa realtà, dal momento che è attraverso il suo corpo che gli spiriti degli antenati comunicano con il protagonista.
4. Il linguaggio
Come si diceva all’inizio, insieme alla storia, anche il linguaggio di questa narrazione sembra essere abbastanza lontano dalla scrittura pacata e ironica di Kossi. Si è visto tuttavia che la storia solo apparentemente esula dall’impegno morale degli altri suoi racconti e, anzi, qui si carica di finalità didascaliche ancora più esplicite. Proprio per supportare questo scopo l’autore si affida a un repertorio retorico particolarmente impegnativo, usando prima di tutto un’angolazione prospettica abbastanza inconsueta quale la seconda persona: il protagonista, infatti, si rivolge a Neyla, raccontandole la “sua” storia. È come se il narratore parlasse con qualcuno che non ricorda ciò che gli è accaduto o che ha fatto. Quasi fosse un commissario di polizia, un medico che spingesse a parlare chi non volesse o non sapesse ricordare, o, più verosimilmente un parente che aiutasse chi ormai non può più parlare a ripercorrere insieme alcuni ricordi, come avviene in alcuni struggenti romanzi, che hanno a protagonista una persona scomparsa, quali Cronaca familiare di Pratolini, o La promessa di Hamadi di Saidou Moussa Ba.
Questo colloquio con un assente diventa così la confessione accalorata di chi intenzionalmente sceglie di esprimersi servendosi del linguaggio melodrammatico, con le sue metafore, i suoi afflati lirici, i suoi ritmi teatrali, per meglio aderire all’urgenza e drammaticità della materia narrata e per cercare su un tema così grave il più ampio coinvolgimento del lettore. Non so se l’utilizzo di uno strumento espressivo, oggi così poco praticato e sempre pronto a sfuggire di mano a chi lo impiega, sia stata una scelta dettata dall’ingenuità o dal coraggio; sta di fatto che la narrazione di Kossi riesce nel suo scopo: ci fa commuovere e ci fa riflettere. E questo non è poco per un autore, che per il buon senso e la concretezza possiamo definire il più “lombardo” tra gli interpreti della “narrativa nascente”.
Giugno 2003