Questa seconda raccolta di poesie di Duška Kovačević si presenta con un piglio spedito e coraggioso. Rispetto alla prima silloge sembra che il timore riverenziale nei confronti della versificazione sia quasi del tutto scomparso. Ne è prova e testimonianza il fatto che la struttura in rime non esiste quasi più, qua e là appaiono assonanze o rime interne, ma la classica rima di fine verso è quasi del tutto abbandonata. Altro elemento che sorregge l’ipotesi di un affrancamento dalla soggezione della versificazione è dato dalla presenza più marcata del versicolo, non facile da usare, anche se al giorno d’oggi è abusato.
La libertà formale, molto più evidente che nella prima raccolta trova il corrispettivo sul piano del contenuto per cui se l’intento amoroso è centrale, tuttavia trovano ampio spazio anche altri temi, primi fra tutti quelli della investigazione del proprio io, nella direzione di capire e capirsi nei propri sentimenti o meglio dei propri umori che possono essere ora di esaltazione, ora di sfiducia, ora di consapevolezza, ora del timore di una profonda illusione. E tuttavia non prevale l’uno o l’altro di questi momenti umorali che anzi sembrano coesistere così che nella delusione è copresente la speranza, nella sfiducia è lo è la volontà di superamento.
L’atteggiamento introspettivo è attraente. Chi legge si sente attratto da queste modalità che sono quasi sempre un porsi in estrema sincerità, così aperta e così trasparente da creare a volte il sospetto di una mascherazione. In Puzzle abbiamo quasi una sorta di poetica ove quanto detto in precedenza si rispecchia in maniera sorprendente: “Dapprima gioco per scoprirmi/ e poi per ricompormi/ mi scopro nel caos/ mille pezzetti gettati alla rinfusa/ mi ricompongo nella pace/ mille tasselli di meraviglia/ e gioco ogni giorno”:
Una delle radici etimologiche della parola “gioco” ha il significato di gettare. In questo caso si getta se stessa, la propria persona. La stessa immagine del puzzle sta a significare la duplice presenza dell’essere della poetessa nel senso che quando si scopre, si divide, non si riconosce, ma i pezzi ci sono e basta una piccola riflessione, una piccola ricerca per ricomporre il tutto.
L’introspezione raggiunge la sua maggiore profondità in Preghiera là dove la poetessa dice “Fa che io sia/ sufficientemente temeraria/ per guardare negli occhi/ la mia paura”. Non si teme di sentirsi, mostrarsi indifesi, di sentirsi, mostrarsi sprovvisti di coraggio, ma la paura non si deve temere, bisogna avere il coraggio di farla scivolare via.
La visione altalenante di sé è ancora visibile in “accendo il ritmo”. Nella poesia fatta con versi lunghi tanto da essere quasi davanti ad una proesia si raggiungono momenti di grande sfiducia di sé, di denuncia delle proprie manchevolezze come in versi del genere: “poiché io non sono brava a toccare le stelle/ e non sono neanche brava a convincere che sarei capace di farlo”. La poesia però termina con “accendo il ritmo, vediamo che effetto fa”, versi che esprimono già un altro sentire ed un altro comunicare.
In questa silloge Duška Kovačević si spinge a prendere in considerazione anche temi di ordine sociale come nella bella composizione Manovalanza, ove la scarsa qualità umana degli operai è dovuta non alla mancanza di umanità ma al tipo di lavoro che toglie loro ogni possibilità di conservarne un briciolo. Siamo in un tipo di poesia che non possiamo dire “operaia” perché qui non si esalta il lavoro ma il suo carattere abbruttente.
Il carattere sociale emerge anche da un’altra poesia Pregiudizio e tolleranza. Invero la poesia è più segnata ideologicamente e quindi manca di freschezza.
Anche in questa silloge abbiamo una dichiarazione del senso e significato della poesia. Questa volta il suo significato è quello di spacciare sogni. Ma lo spaccio non è un qualcosa che è all’interno del proprio io perché è “il vento a sussurrarti a me”. Il poeta ritrova elementi, aspetti della poesia che sono al di fuori di lui il quale ha solo l’abilità di saperli copiare e “spacciare”.