LA RICERCA DI UN VARCO NELLA POESIA ATTRAVERSO LA RIFLESSIONE UNIFICATRICE DI CIELI DISTINTI
Individui come torce, ciascuno alla guida di un gregge di stelle in paradisi distinti, che fanno involontariamente parte di un unico cielo. Uomini che si muovono nell’ingranaggio della storia, alla ricerca di una collocazione passata, presente, ma soprattutto futura in un mondo che possa riflettere il senso complessivo e autentico dell’affermazione umana, governata da una forza suprema. Si tenta così di definire l’imperscrutabilità del cielo, da cui sembra rovesciarsi in terra una pioggia nera, capace di abbattersi sul destino di popoli interi.
Il poeta e musicista statunitense Bruce Bond si mette all’ascolto del suono di quello scroscio per ritrovare quel varco nel cielo menzionato nella sua poesia, visto come ancora troppo stretto, ma inteso, nel suo aprirsi, come possibile soluzione all’interrogarsi sull’agire individuale e collettivo. Trafitto sin dalla nascita da una lama di luce e acciaio, l’autore si consuma anche nel fuoco generato dal rovesciarsi della pioggia oscura sopracitata; brucia nell’incertezza della condizione esistenziale cui è sottoposto e fa della riflessione poetica, di conseguenza sviluppata, la spada preposta a scindere l’universo celeste dal profilarsi dell’orizzonte terreno. La sua meditazione si propone come indispensabile momento d’analisi al fine di rielaborare e suggellare pensieri e inquietudini, vissuti in prima persona, all’interno di una prospettiva storica più ampia.
È proprio nell’atto di separare il cielo dalla terra per mezzo del linguaggio poetico, in uno sforzo di salvezza dell’intera umanità dalle deviazioni del mondo, che si consolidano le considerazioni di Bruce Bond sulle origini di quest’ultimo e dei patriarchi. Si affollano in lui, confusi, i pensieri sul popolo di Dio, collocato in una realtà che giace sotto una pioviggine di ceneri e dove l’aria è tutt’oggi segnata da un fumo, in grado di vanificare qualsiasi senso d’appartenenza o di diritto di nascita in quei luoghi. La dichiarazione poetica dell’autore tocca anche chi non fa parte di quella storia o si è trovato a contrapporsi a essa, come se non generato dal medesimo Verbo divino e originario di un diverso Eden. Il cielo rischia di mostrarsi infranto, percorso nella sua totalità da una grata di perla, materializzatasi attraverso l’immagine di una ghigliottina che, nel recidere, disgiunge erroneamente chi considerato amico da chi denominato nemico. Gli interrogativi di Bruce Bond si soffermano, allora, su quelle lontananze senza lingua, considerandole e rendendole creature destinate a un unico paradiso, a prescindere dall’impronta umana ereditata. L’esternare tali valutazioni, in modo del tutto spontaneo e sentito, seppur travagliato, consente di definire la fede del poeta secondo una nuova direzione.
Bruce Bond concepisce una personale osservazione a riguardo traendo ispirazione dal pensiero del teologo tedesco Paul Tillich, pioniere del più recente movimento di rinnovamento della teologia tradizionale. Nell’interrogarsi sul senso definitivo della realtà, il filosofo assume una posizione ben precisa grazie alle idee della sua teologia sistematica che si muove tra la rivelazione della parola eterna di Dio e la situazione temporale dell’uomo. Il cosiddetto metodo della correlazione da lui espresso costruisce, inoltre, una relazione di interdipendenza tra le naturali domande che emergono dal dinamismo dell’esperienza umana compiuta e le risposte implicate, svelate attraverso la manifestazione del divino. L’impegno nella ricerca del significato totalizzante dell’essere si presenta come riflessione sia sul valore dell’esistenza umana nel mondo che sulle modalità del suo dispiegarsi relativamente alla divinità, pensata in quanto fine ultimo e supremo. La teologia di Tillich si pone, infatti, il problema della comprensione del fondamento dell’essere nella prospettiva del divino in modo da concorrere alla costituzione di un ordine rinnovato dell’umanità: Dio immaginato come terreno dell’essere stesso, posto al di sopra della distinzione tra essenza eterna ed essere esistente come soggetto attivo del mondo.
Sono questi gli input cui allude Bruce Bond nel delineare un personale rapporto di dialogo col divino per il tramite della poesia. Le sue prime lodi si dissolvono contro un campanile bronzato, mutandosi in preghiere, suppliche, cariche del dolore di una generale condizione senza precise coordinate future e fluttuante in un presunto nulla terreno. Gli sbagli soffocati sotto un simbolico bricco, le alacrità di uno stato progressivamente compiuto, che si attenua nel blu di una fiamma esistenziale consunta, tendono a sigillare il poeta in un buio ancora più buio che convoglia comunque nella possibilità di un lungo adito al mattino. L’abbandonare il bisogno di una specifica collocazione, segnata da un’appartenenza stabilita a una casa, a un emblema, a un riparo o a una storia, permettono di dipanare il filo di una vita così diversamente risolta. Un percorso che si lascia alle spalle un concetto univoco d’identità e trova nella poesia le basi per l’unificazione di quegli intenti di definizione dell’essere nella rivelazione trascendente del divino: unica vera risoluzione alla molteplicità delle condizioni d’appartenenza dell’uomo nel mondo. Una nuova scelta che si attua non all’ombra di un’origine predefinita, ma alla luce di una rinnovata visione poeticamente manifestata che, stretta come nella cruna di un ago, ricongiunge queste realtà distinte, proiettandole, nella parola poetica, all’attraversamento di un varco verso l’unione celeste.