- Introduzione: Author’s Tips
Tradurre poeti contemporanei ha un vantaggio: consente, qualora si diano le condizioni per instaurarlo, il dialogo con l’autore, e questo giova alla comprensione (e traduzione) dei testi. Lo svantaggio, qualora si miri a fornire un quadro autoriale completo, fondato su coordinate inamovibili dell’opera (inizio, fasi di svolgimento, fine), sta nel fatto che la scrittura di un contemporaneo è opus in fieri; dunque, il lettore/ interprete/ traduttore non ha un corpus definitivamente cristallizzato davanti a sé. L’opera di un autore contemporaneo non è, insomma, un entità immutabile, bensì un organismo in formazione che, in quanto tale, può subire mutazioni inattese e svolte evolutive singolari. I fossili hanno il pregio di porsi quali pietre miliari: rinviano a una tradizione, a una storia che attestano con la loro presenza: sono tracce, persino mirabili, di scrittura. I corpora aperti, in costante mutamento, hanno il fascino segreto del divenire, del magma non ancora solidificato. Sono una sfida da affrontare con spirito d’avventura, cognizione del rischio e (anche) senso del limite, consci cioè che si sta percorrendo un sentiero di parole senza sapere dove questo condurrà; si sta seguendo il corso di un fiume all’oscuro sulla direzione che prenderà all’ansa seguente, perché il viaggio della scrittura è, appunto, in progress, e il lettore è un pellegrino sui cammini della parola.
L’incontro con la poesia di Susan McMaster (autrice già tradotta in Italia da Ada Donati per Schifanoia[1]) è stato fortunato quanto al dialogo. Infatti, le direttrici primarie dell’opera sono state indicate dalla stessa Susan in un’email da cui partiamo per definire – in questa breve presentazione di una poetessa che, in realtà, non ha bisogno di presentazioni – le tre principali direttrici del suo impegno poetico e culturale:
There are 3 good directions, which [the reader] might choose to follow […]:
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my work as a “page poet” (it amuses me that my mother’s birth name is “Page”, and sometimes I consider using the pseudonym SM Page or MS Page — even better) and editor (along with the above, [the reader] would need to look at Pith and Wry and the SugarMule online link, and the Rattle interview link)
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my work as a collaborative music-and-poetry and music-and-art poet (First Draft, Geode, an art show by a friend … opening this fall incorporating my poems, compositions by composers using my work; […])
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my work as a social activist poet (g., the project and anthology Convergence/ Waging Peace, the feminist theatre production and book Dangerous Graces, Feminist Caucus anthologies with the League of Canadian Poets, etc.)[2]
Questi consigli d’autore costituiscono, credo, indicazioni preziose per chiunque voglia orientarsi nell’opera di Susan McMaster. Seguire tutte e tre le direttrici non è, in questa sede, possibile, specie il filone che vede poesia, musica, arte fuse nell’esperienza performativa. Troppo andrebbe perso – rispetto a quanto va già in traduzione si perde – di testi che prevedono il concorso delle componenti artistiche, musicali, iconico-scenografiche. È quasi paradossale, a pensarci, che proprio l’elemento su cui si fonda, dalle origini, l’essenza della poesia – i.e. il legame con melodia, canto, performance – sia, unitamente alla sempre difficile resa di una parola a statuto speciale, quella poetica appunto, ciò che va irrimediabilmente perduto. Ciò avviene per ragioni squisitamente tecniche: una traduzione, pensata per la lettura in cartaceo/online è altra cosa rispetto a una parola concepita per la messa in scena. Pure, l’essenza dei fenomeni è, in fondo, proprio la loro componente più elusiva: inafferrabile. Non stupisce dunque che, in traduzione, espressione e gesto (i quali in alcuni casi accompagnano e integrano il testo), suono e voce, (l’anima della poesia), l’intrinseca liricità e la potenzialità performativa del testo poetico, si perdano o subiscano, nel migliore dei casi, una metamorfosi in conseguenza del passaggio da un codice a un altro.
Tornando ai tre aspetti dell’impegno poetico di Susan McMaster, per motivi pratici, ci corre l’obbligo di una scelta. Dunque, scegliamo di dedicarci al terzo settore (my work as a social activist poet) perché l’attivismo (sociale, politico, culturale) è a nostro parere l’elemento che più fa vibrare le corde della sensibilità del lettore moderno.
In questo ambito, individuiamo il sotto-tema femminile o, se si preferisce, femminista.
2.Accenni ad alcune raccolte poetiche
2.1. Dark Galaxies, Ottawa, Ouroboros, 1986
Le tre poesie proposte in traduzione sono tratte dalla raccolta Dark Galaxies (1986). La raccolta si articola in due sezioni: Dark Galaxies e Lac Vert. Come informano le note dell’edizione di riferimento, le citazioni nella sequenza di poesie di Dark Galaxies sono tratte dalle seguenti fonti:
– Scientific American (n.252, maggio 1985: How a Supernova Explodes)
– Barrow- J. Silk, The Left Hand of Creation, Basic Books, 1983
– Davies, God and the New Physics, Penguin, 1984
– Davies, Superforce, Simon & Schuster, 1985
Le citiamo, perché le letture (“biblioteca d’autore”) sono indicative, insieme a titoli e testi, di una gamma di interessi e di una cultura vaste, di una curiosità non confinata all’ambito poetico, umanistico, artistico. Una poesia, quella di Susan McMaster, poliedrica e ricca, che interroga il cosmo, con i suoi misteri, e la vita, in tutti i suoi aspetti.
Fra le poesie di Dark Galaxies, molte sono apparse su periodici prima della pubblicazione in volume. Alcuni testi pubblicati in volume sono stati poi riproposti, con varianti, nella più recente raccolta Papers Affairs (2010). In caso di varianti d’autore (formali, strutturali, lessicali) il testo di riferimento per la traduzione è quello dell’edizione 2010. Se il testo poetico non è riproposto in Paper Affaires, oppure se è incluso in questa raccolta, ma non presenta modifiche rispetto alla veste che ha in Dark Galaxies 1986, la traduzione si basa sull’edizione 1986.
2.2 Dangerous Graces
Una delle poesie incluse in Dark Galaxies (Pandora, la prima delle tre proposte) è stata pubblicata anche nello script poetico Dangerous Graces[3]. Merita spendere qualche parola su questo volume, curato dalla McMaster.
Come spiega Barbara Lysnes, direttore artistico del GCTC[4], Dangerous Graces deve il suo compimento al progetto Fireworks, un mese dedicato alla celebrazione del teatro scritto, drammatizzato e diretto da donne. La Lynes, nella nota introduttiva, parla della enorme quantità di materiali arrivati per Fireworks, e della loro varietà: non solo copioni e racconti, ma anche poesie. Dare vita teatrale a testi poetici era una sfida interessante. Susan McMaster propose, all’epoca, un testo basato su un filo tematico che collegava alcune poesie scritte da lei (cinque: una per ogni scena[5]) a testi di altri poeti. Così, prese forma Dangerous Graces/ Saving Sins, titolo suggerito dai brani di Ronnie Brown che informano, insieme agli altri, il copione poetico in cinque scene[6]. Le poesie sono concepite per essere recitate da tre attrici impersonanti figure archetipiche (Maid, giovane donna, Matron, donna di mezza età, Dame, vecchia[7]), e sono connesse dall’idea che «quando le donne escono dall’ordine simbolico stabilito, esse entrano in una nuova arena teatrale, un regno dove ciò che prima era ritenuto rischiosa avventura, diventa inestimabile intuizione di un nuovo ordine di idee e valori, con possibilità nuove»[8]. Dangerous Graces, prosegue la Lynes, «è parte di un’estetica femminista non in termini dichiaratamente politici, ma in termini di una fiducia che le donne artiste hanno iniziato a tesaurizzare, e del desiderio ascoltare, vedere, leggere più opere create da donne[9]». Senso e portata dell’operazione artistica realizzata con la messa in scena di Dangerous Graces sono illustrati dalla regista, Jennifer Boyes:
I strive to create theatre, which, like poetry, implies more than it states […] #Dangerous Graces/ Saving Sins was an intriguing challenge. It was not a play, nor performance art, nor a poetry reading. It was a series of poems with different voices and rhythms and themes, spoken by three distinct characters, and tied together thematically. How best to handle it? […] Why put poems on stage? Theatre gains evocative power; poetry is heard, seen and shared.
3. Donne nella poesia di Susan McMaster
Pandora: Le ragioni dell’altra
Da lei discese la razza umana delle donne:
da lei discese la razza e la tribù di donne foriere di morte che
vivono tra i mortali e procurano loro grandi mali,
Teogonia, 590–93
Pandora, nel mito greco, è la prima delle donne. In molte culture si trova la figura di una donna creata quale compagna dell’uomo. Nelle antiche religioni mesopotamiche, la prima donna è Lilith, cui subentra, nella tradizione ebraico-cristiana, Eva. Quello della ‘prima donna’, almeno in mitologia, è un ruolo decisamente scomodo da recitare: Lilith fu ripudiata dall’uomo perché troppo ‘ribelle’. Eva, che si lasciò ammaliare dal serpente, porta su di sé la colpa della perdita di uno stato di grazia originario; l’azione di Eva è, infatti, la causa dell’espulsione degli uomini dall’Eden.
Nel mondo greco, Pandora non fa eccezione: la sua colpevole curiosità è origine di molti mali; anzi, di tutti i mali: quelli da cui, all’inizio dei tempi, il genere umano era immune, perché erano stati chiusi, i mali, prudenzialmente, in un vaso. Le versioni del mito non sono concordi su chi, saggiamente, mise i mali nel vaso fatidico. Alcuni pensano sia stato Prometeo, semidio amico degli uomini, che rubò per loro la scintilla del fuoco degli immortali e mise sotto chiave le calamità che avrebbero potuto colpirli. In alcune versioni, il vaso sigillato è in possesso di Epimeteo, fratello stolto di Prometeo, marito di Pandora, già prima delle nozze. Secondo altri, il vaso giunse allo sprovveduto Epimeteo quale dono nuziale di Zeus che – sapendo a chi assegnava sia moglie sia ‘dote’ – lo allegò all’invio di Pandora, donna creata quale ricettacolo (apparente) di tutti i doni (pan–doron), in realtà ricetto d’ogni male, per punire la stirpe degli uomini. Secondo questa versione, sarebbe stato Epimeteo ad aprirlo. Tuttavia, la variante più accreditata del mito (c’è da stupirsi? siamo in un mondo greco ‘arcaico’ in cui la misoginia è – e continuerà a essere: ad Atene, Sparta, Tebe, Alessandria – regola e legge) attribuisce alla donna-dono-danno il gesto sconsiderato e le sciagure che ne derivarono.
Per tornare alla poesia: Pandora è un’originale rilettura in versi del mito greco in cui la vicenda è vista attraverso gli occhi della protagonista, filtrata da una sensibilità femminile che sa cogliere le ragioni dell’altra. Quelle ragioni (aspirazioni, diritti vs doveri, motivazioni) che tuttora passano below notice nell’universo maschile: semplicemente non ci si fa caso, come non si bada a una mosca che, dapprima, ronza inavvertita; poi, si fa inquieta; poi, sempre più insistente, addirittura molesta, nel suo volo per orbite cieche che la porta a urtare di continuo contro il vetro di una finestra, in cerca di una via di fuga. Via di fuga che, quando e se esiste, la mosca sembra non riuscire a imboccare, proprio come la falena nella poesia The Moth. Una parete trasparente, pure solida, separa la mosca-falena-donna dalla luna, dal mondo, dalla vita, dall’utopia visionaria e creativa, dal libero librarsi che persino a Birdy – i cui sogni di volo, dopo la guerra, sprofondano nelle paludi della schizofrenia catatonica, pure restano ‘leciti’- è concesso.
Quelle elitre di falena intrappolata, così impalpabili, così fragili, acquistano allora consistenza, spessore e forza; si caricano di un’energia distruttiva che, coagulata in ombra, va ad appollaiarsi sulla spalla di Pandora. Infine, l’ombra diventa ali nere, dense, che si stendono sulla donna ammantandola d’un greve drappo – sudario, più che manto – di noia, di sordo rancore, di livido odio. Come non ricordare, qui, le tradizionali figure di ‘cattiva’ delle fiabe? Figure cui la rivisitazione Disney ha dato efficace consistenza visiva, dotandole di quei tratti esteriori divenuti inconfondibili emblemi d’atra bile interiore? Ecco la serie: la Matrigna di Biancaneve, ossessionata dal primato nella bellezza, dalla perdita della giovinezza (‘valori’ femminili – si badi – creati dagli uomini); Malefica – col funereo manto da strega-pipistrello, gli occhi ridotti a fessure da cui saettano lame di fiele – la quale alla neonata Aurora reca in dono una profezia di morte, malia all’istante riconvertita in sonno “fino a che bacio di principe non la risvegli” dalla terza fata madrina (la terza Parca di norma tagliava il filo, qui, mutata in madrina lo ricuce).
Forse, mentre, come da programma, una fulgida icona di maschile salvifico ingaggia la sua lotta all’ultimo incanto nell’intrico spinoso evocato dalla Strega intorno alla Bella (regolarmente dormiente), è il caso di interrogarsi sulle ragioni di Malefica. E su quelle della Matrigna di Biancaneve, e della Regina delle Nevi, e delle innumerevoli Streghe Bianche che raggelano miriadi di edeniche Narnie in storie in cui Leoni – sacrificandi, sacrificati, resurgendi e immancabilmente risorti – fanno rifiorire, dalla morte, la vita. Mettiamoci, per una volta, dalla parte delle cattive, di tutte le Streghe e Megere, Sirene, Ondine e Melusine delizia-supplizio di marinai, pescatori, viandanti. Forse, allora, coglieremo il movente della loro (reale o presunta) perfidia, la causa pregressa che rende, se non giustificabile, un po’ più comprensibile, e meno inumano, il loro livore, il loro inevitabile simple sin.
L’ineluttabilità del ‘peccatuccio’ di Pandora – quasi cronaca di una trasgressione annunciata – ha radici in un’idea di donna concepita da un dio creato a immagine e somiglianza di Adamo. Non è, Pandora, la miccia innescata da un dio maschio (Zeus) per compiere la propria vendetta – che implica, va da sé, la rovina del genere umano – e ribadire la propria onnipotenza? Non è l’alibi, in forma muliebre – inviato in dono con corredo di vaso fatale a Epimeteo sciocco alter ego dell’astuto, ardito, previdente Prometeo – e il capro espiatorio su cui scaricare le proprie carenze?
La prima donna è, non c’è dubbio, colei che porta l’universo maschile al collasso: causa e principio di tutti i mali. Il copione è noto e cela, a ben guardare, l’atavica neurosi da transfer che infesta quasi tutti i miti delle origini. Quella neurosi per cui la violazione del divieto da parte della donna è archetipica, nonché inevitabile, e l’attribuzione di colpa, scontata. Considerato il contesto in cui Pandora agisce, verrebbe da obiettare che l’infrazione è legittima e il reato ascritto è, in realtà, un atto di legittima difesa di una vittima votiva che ripudia il ruolo opaco assegnatole.
Born troublemaker: creata per provocare catastrofi, Pandora, di fatto, è destinata a un’esistenza oscura, da ‘regina’ del focolare. Un’esistenza priva di ‘investiture speciali’, se non per quel suo essere, in potenza, agente di distruzione. Non può, dunque, che attualizzare la virtù annientatrice di cui è ricettacolo. Cosa resta, infatti, a Pandora dopo le nozze, se non la consapevolezza che non c’è, per lei, alternativa al tedio del non-essere? di un esistere solo in funzione di qualcosa/ qualcuno (casa, giardino, marito)? che non c’è scampo, per lei, dalla dannazione di non aver voce in capitolo – o qualsivoglia potere decisionale – in un mondo in cui solo gli uomini sono investiti from above di incarichi vitali (e.g. impedire l’apertura di un vaso che è ‘proprietà/ dote/ dono/ facoltà’ di una donna e proprio per questo, forse, deve restare ermeticamente chiuso), tormentati da responsabilità di missioni outdoors (gregge). Meanwhile … le donne restano in casa con i piatti sporchi da lavare, il vuoto da colmare, una noia che aguzza l’ingegno e fomenta la curiosità. Perché una donna venga investita, from above, di un’alta missione, si dovrà aspettare Maria, ma la missione dell’ancilla è pur sempre quella di dare la vita, per virtù di spirito, a un verbum che si fa carne (si badi) sempre al maschile (bambino vs bambina). Siamo schietti: la responsabilità del crollo del mondo non ricade su una donna proprio perché a crollare è un mondo maschile, costruito dagli uomini per gli uomini, un mondo che funziona sua iuxta principia? in cui ogni bene – quiete domestica, ordine, armonia, pulizia, l’utile, il bello, il buono, il funzionale – è dato per assodato e si fonda sulla non-ingerenza, sull’inazione (politica, sociale, intellettuale, ecc.), sulla ‘inalienabile’ strumentalità e ornamentalità della donna? Cosa accade se Pandora, tutt’a un tratto, e senza interventi esterni, si risveglia dal suo sonno atavico e, da risvegliata, in una subitanea agnizione di sé, viola il mandato divino (e maritale) e ardisce sollevare il coperchio del vaso in cui si cela qualcosa che, se liberato, ha il potere di distruggere l’universo creato dall’uomo per l’uomo? È la catastrofe. Accade che da quel vaso escono mali prima ignoti al genere umano: malattie, vecchiaia, fame, guerre. Ogni bene abbandona il mondo. Inizia l’era del dolore e del pianto. I doni divini s’involano dal ‘perfetto’ mondo maschile, soppiantati dai flagelli divini, e quel mondo ‘perfetto’ va in frantumi: fine dell’Eden. E di chi è la colpa? La colpa per tutto ciò che non funziona nel mondo è, ovviamente, della donna, della sua curiosità e iniziativa (hybris suprema). Una donna che porta la colpa dei mali del mondo (creato dall’uomo), ma che in realtà quei mali non libera, né attiva, né causa: solo, li mette in evidenza e denuncia.
A ogni modo, dati i presupposti, non c’è da stupirsi se i doni divini al genere umano (nel caso specifico, i doni delle donne, a cui spesso è negato l’esercizio dei propri talenti) si trasmutino in fattori distruttivi (come accade a tutte le energie svilite, controllate, represse, le quali vanno a condensarsi altrove: nel vaso, appunto, dove forze positive, in sottovuoto coatto, si convertono in negative) at the appointed time: quel fatidico punto di rottura (ultimate strenght) in cui il bene trascolora in male attivandosi per procedere, infine unbound, alla distruzione del vecchio mondo e alla creazione del nuovo mondo: ideato, plasmato, modellato da mente di donna.
A ogni crisi e rivoluzione succede un ordine nuovo. Così, Pandora butta giù un castello di menzogne, ingiustizie, falsi miti, cliché, libera i propri doni (malefici), sprigiona la sua (inquietante) ombra chiroptera[10], rilascia dall’otre le raffiche demistificanti della propria verità, dando vita a un cosmo non più a immagine e somiglianza di Adamo, ma che riflette il volto di Eva. E certo questa non può che essere perfida stregoneria. L’attivarsi (awakening) della mente di Pandora, in ottica maschile, è un autentico maleficio. La nuova donna, consapevole, attiva e propositiva, non più colpevolizzabile e demonizzabile, non più indocile Lilith o tentatrice Eva su cui scaricare il barile delle proprie carenze etiche, è la … fine del mondo. La donna, non più Maligna o Malefica (qualora non risponda ai parametri maschili: bella, buona, brava, obbediente, meglio ancora, dormiente), non più Bella Addormentata o Biancaneve da ridestare, per virtù di bacio principesco, da sensi di colpa (“mordere la mela”) e letargie della coscienza (indotte da quegli stessi stereotipi maschili che, inoculati col latte/fiele materno, mettono radici nell’animo femminile), non più Fata fauno-floreale, benefica madrina, madre-natura o noverca, ma solo essere umano dotato di intelletto, intuizione, sentimento e (anche) corpo, e però non ‘solo e unicamente’ corpo o entità che regola gli equilibri dell’οἶκος, questa donna fa paura. Infatti, non è più mero strumento di un padrone che tiene sottochiave, e cela, insieme ai mali nascosti di un mondo di forgia maschil-prometeica, anche i doni mentali e spirituali (intesi quale possesso esclusivo dell’uomo) per degustarli nelle notti difficili (quelle di travaglio creativo e decisionale, quelle in cui la musa è latitante o riottosa), nei momenti in cui giungono le tormentose-sublimi visitazioni di una voce divina davvero dannatamente di parte.
Sì, c’è proprio da chiedersi: che resta a Pandora se non il travaglio di un parto di cui – sia chiaro – non parla o, se ne parla, lo racconta come favola bella in cui ogni scoria corporale è velata da nubi eteree di petali di rose, quelle che lui dona, e in cui ogni ‘bruttura’ materiale (sangue, ossa, latte) deve essere epurata e dispersa, quasi afrore d’umanità putrefatta, fra effluvi d’acqua di colonia e aroma di lavanda?
A questo riguardo, la poesia Birthday Tales è emblematica di una svolta: un passaggio/rivoluzione generazionale che si concretizza proprio nel modo in cui l’esperienza della maternità è raccontata. La storia di compleanno che la madre racconta alla figlia, infatti, epura l’atto del dare la vita da ogni materialità: è una storia di rimossi, come la racconterebbero delle Ladies in Lavender se avessero coronato, in gioventù, i loro sogni d’amore. Invece, la storia che la figlia racconta, a sua volta, alla propria figlia dice, senza remore, intera la fisicità del nascere, perché se la nascita è dolorosa, né si mai dà sans violence per il nascituro, anche far nascere non è faccenda indolore.
Sulla soglia d’uscita dal tema della donna nell’opera di Susan McMaster, ci piace citare, come in esordio, le parole autobiografiche dell’autrice:
This is our first time away from Ottawa, for Ian and me both. Married in 1969, we came to Edmonton in 1971 so Ian could do his Master of Computing Science at the University of Alberta. Now he’s busy ten, fourteen, eighteen hours a day with his studies. I use my new Elementary Teacher’s Certificate to teach a two-tenths load […]. The rest of the day I’m on my own. The first winter, we lived in a little, white, freezing bungalow at the edge of campus, and I read every Harlequin Romance that came in to the drugstore next door, sometimes two a day; since coming here, I’ve gulped down about 250. Marriage is different than I thought it would be. Other than Harlequins, there’s Good Housekeeping, Redbook, Cosmopolitan. Chatelaine is still the only Canadian choice.
“Ms. Magazine is good, but it’s American. There’s nothing like it here.” Feminism is spreading even to Canada, even to the west, but I feel left out.
This fall, in 1972, Ian and I moved to a co-op house on 77th Avenue, and are now walking home along the broad expanse of 118 Street. […] # “What we need,” I continue grouchily, “is a new magazine, something that talks about Edmonton, about Ottawa, about the people and places we know. I want something to read!”
I’ve just finished Surfacing, Margaret Atwood’s novel about a woman in the northern woods. It hit me like a load of pulpwood falling off a logging truck. A Canadian writer. A Canadian woman writer, just ten years older than I am, writing with such authority, clarity, richness – poetry turned to prose. I’ve pasted a magazine photo of her inside the cover of my writing binder.
“So start one.”
“One what?” My thoughts have been wandering to the brightest spot in my week: the creative writing class with poet Doug Barbour and novelist W.O. Mitchell. The Gateway, the University of Alberta student paper, is about to publish several of my poems.
“A magazine. Start a feminist women’s magazine, like you’re talking about.” [11]
Pandora inizia il suo viaggio nel regno della parola: una parola al femminile. Lo scrigno dei suoi talenti è stato aperto, la sua voce è finalmente libera di esprimersi sotto il segno della letteratura e – specialmente – della poesia, costellazione primaria nella vita degli esseri umani:
“Everyone needs poetry,” says Susan McMaster. “We need poetry for the important things – birth, love, hope, fear, loss, grief. Like the blues, [poetry] takes pain, and fear, and anger, and somehow changes them into something bearable, even transcendent [12]
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