Biografie

parrucchieri e dentisti

La gatta si acciambella sulla poltrona gialla sotto il sole. Vedo il respiro che le alza e le abbassa un ciuffo di pelo del muso. Si muove, immobile. Questo movimento nell’immobilità ricorda quello dei miei ricordi che si gonfiano e si ritirano nella mia testa, nascosti da una massa di capelli che, ormai ingrigiti, ora coloro di un paio di tonalità più chiare.

Le parrucchiere sono marocchine. Ragazze giovani e dai leggins attillati con le unghie sempre laccate, hanno le tinte della Wella, come mia sorella, quando aveva il negozio di parrucchiera a Gaggiano. Non andavo più da lei da diverso tempo, da quando, una volta morta la mamma, non avevamo più da discutere e potevamo dimenticarci l’una dell’altra, scivolando nelle frustrazioni e nelle gioie delle nostre vite. Comunque mi aveva consigliato di fare attenzione ai prodotti chimici utilizzati dai parrucchieri cinesi e io avevo notato che, non solo i parrucchieri cinesi, ma anche i numerosi parrucchieri italiani della zona del Giambellino, adiacente a quella dove ho vissuto al mio rientro in Italia, usavano tubi per la tinta di dubbia provenienza. Allora, per scegliere il mio nuovo parrucchiere, ero entrata in diversi negozi chiedendo quale tinta utilizzassero. Ero rimasta sempre un po’ delusa. Radicarsi in un territorio significa anche avere un dentista e un parrucchiere. Questo lo sapevo bene io che né in Inghilterra, né in Turchia ne avevo trovato uno. Ricordavo sempre i professionisti della mia infanzia, da un lato mia sorella, che per me era la parrucchiera migliore del mondo, anche se poi chiuse il negozio e iniziò a vendere merceria, forse acciambellandosi anche lei nei ricordi di bambina quando la nonna Enrica le insegnava a fare la catenella con l’uncinetto; dall’altro il Barbaro, un dentista dal nome poco rassicurante e dagli occhi bellissimi nelle cui profondità azzurro-verdi mi tuffavo da bambina cercando di non sentire il rumore del trapano.

Li avevo rimpianti durante la mia assenza, andando sempre al pensier di loro quando mi trovavo a dover tagliare i capelli o ad avere mal di denti. L’identità passa attraverso il corpo e forse non solo quella sessuale. Però mi era succcesso come a mia zia Giuliana e avrei dovuto saperlo. A sedici anni feci il mio primo lungo viaggio in aereo alla volta di un Venezuela al picco della sua ricchezza, con centri commerciali in palazzi di vetro di cinque piani illuminati sulla facciata da un albero di Natale davanti a strade a quattro corsie per ogni lato. Un paese irriconoscibile. Pieno di prodotti da comprare sugli scaffali e dove le bidonville mi parvero un bel presepe dall’aereo e il merengue la musica migliore per sfogare gli ormoni da adolescente. La zia era la sorella di mio padre e amica del cuore della mamma. Viveva dietro due porte blindate in quel che loro dicevano essere un bel quartiere residenziale, ma che a noi pareva un palazzo normale. La zia era invecchiata e, tuttavia, aveva una bellezza che mi ricordava qualcosa di quella signora con autista che veniva a trovarmi nella mia infanzia. Una donna nata in campagna, ma che aspirava a diventare sartina e che fu chiamata, forse per quella bellezza, a diventare signora per un po’, di quelle che avevano assunto il cugino a farle da autista su un’auto personale di qualche roboante marca straniera che attirava l’attenzione dei bambini che le giravano intorno quando la parcheggiava davanti a casa nostra. Poi era arrivata la rovina di quel marito un po’ fanfarone che giocava al piattello e andava nelle tenute di caccia a vantarsi della fabrichetta. Un fallimento a seguito dell’incidente mortale di un suo autista e chissà cos’altro che mia madre non aveva capito e lui si era dato alla macchia, ricomparendo con una lettera alla moglie da Caracas dove le chiedeva di raggiungerlo con mia cuginetta. Avevo quattro, cinque anni e più volte, crescendo, mi chiesi come mai lei lo raggiunse. Era così innamorata che lo aveva perdonato per averla lasciata a dirimere la questione del fallimento e dei debiti? Il sorriso della zia era quello di  una donna bellissima, di una signora, nonostante la pochezza dell’appartamento in cui si trovava e mi rispose una voce impostata da attrice. Fu qualcosa che, avrebbe potuto guidarmi in quegli anni passati all’estero, ma che mi dimenticai, perché quando ci spostiamo nello spazio non sappiamo che il tempo passa e muta la vita delle persone che rimangono cristallizzate nel nostro ricordo. I ricordi si gonfiavano nella sua testa. Mi parlava di una società italiana dove la vita di una donna sola con una figlia era difficile, non solo materialmente, ma anche per via di quella “gente” che, sin da bambina, imparai, aveva sempre qualcosa da dire. Cosa dirà la gente? Era una maniera per farmi riflettere che mia madre e mia nonna mettevano in campo per educarmi al rispetto delle convenzioni sociali, che a me, al tempo, interessavano davvero poco. Ora, mi rendo conto, ho fin troppa paura del giudizio degli altri. Ora che ho vissuto sulla mia pelle come l’opinione degli altri può arrivare al linciaggio in ambienti lavorativi o a crearti problemi nel luogo in cui vivi. Allora me ne fregavo. Non perché fossi fascistamente convinta di questo verbo, anzi, son sempre stata più a sinistra della mia famiglia, che pur votava per il PCI, ma perché credevo fermamente che la mia libertà fosse, come mi aveva detto la mia maestra delle elementari, illimitata, come nella frase di Raul Follerau che ci fece scrivere sul quadernino rosso: la mia libertà finisce dove inizia quella di un altro. Non sapevo chi fosse questo pensatore e il suo pensiero mi rimase impresso così, tanto che non so chi sia neppure ora e, quando ho cercato il suo nome su Google Ho capito che era francese e che bisognava aggiungere una “e” all’ortografia che ricordavo. Il suo cognome corretto è Follereau e la sua poesia intrisa di carità cattolica a favore degli ultimi. Che poi, il cattolicesimo pensa sempre agli ultimi, ma ai penultimi non ci pensa mai. E noi, eravamo dignitosissimi penultimi in cerca di una libertà più grande di noi, con tanti meriti personali e poco networking negli ambienti che contavano per diventare qualcuno e farci ammirare dalla “gente”. Persino ora, che ho raggiunto le vette della formazione personale, che parlo quattro lingue, ho un dottorato di ricerca, ho insegnato in università straniere, mi sento penultima e non scrivo perché so che non verrò pubblicata qui in Italia, per via di questi miei natali umili, questa condizione di essere penultima senza cordata cattolica a cui attaccarmi per un’ascesa sociale che, forse, non mi è mai interessata tanto quanto quella culturale, ma che, purtroppo vanno di pari passo. Eccomi qui di fronte alla gente. Sono tornata e l’ho ritrovata a giudicarmi e questo giudizio mi fa impallidire il coraggio e la voglia di vivere. E ha rovinato la vita a mia zia che ha seguito quell’uomo in un paese che prometteva tanto e l’ha lasciata a vivere in una povertà che non le sarebbe appartenuta. Eppure lei sembrava contenta, o forse io ero troppo giovane per capirla davvero. Ricordo la sua bellissima voce che mi parlava al presente di un’Italia con i valori dell’Italia contadina degli anni Sessanta, un paese molto maschilista che, forse, sotto sotto è sempre esistito e sta riprendendo terreno in questi anni di risacca delle libertà. Questo per dire cosa? Che avrei dovuto saperlo che l’Italia non sarebbe stata come me la ricordavo. E che la memoria rende belle o brutte, idealizza alcuni aspetti. Questi aspetti sono i peggiori nei ritorni a Itaca. Lo diceva anche Kavafis che il viaggio è quel che conta. Avrei dovuto ascoltare lui, la zia Giuliana e qualche voce dentro di me, non per non tornare, ma per essere più consapevole al mio rientro in Italia. Infatti, il mio dentista che speravo si prendesse cura di me era troppo vecchio per farlo e mia sorella non aveva più il negozio di parrucchiera.

Allora cercai rifugio nei miei valori mischiati. Ho sempre creduto nella misticanza, l’insalata di popoli. Così ho cercato un quartiere e un parrucchiere etnico, ma la povertà culturale dei nostri mondi meticci mi è esplosa in faccia e il dibattito e le parole per parlare di questi mutamenti sociali erano tristemente fermi a quando ero partita. Le stesse parole stantie e i discorsi che facevamo quindici anni prima. Questi, miracolosamente non cambiati, come i personaggi televisivi. Invecchiati e senza quella linfa vitale ispiratrice. Una società culturalmente in crisi che ha fatto scrivere i suoi contenuti al bar sport di Benni formato social.

Mi sono già venuti in mente due riferimenti letterari: le treccine di Americanah per il parrucchiere e Denti di Starnone per il dentista. Ma se Denti mi pare interessante come suggerimento per i miei cinque lettori, l’altro mi si attacca alla fantasia. Vorrei intrecciare queste treccine africane con il mio rientro in Italia. Pap, il mio amico scrittore senegalese, mi dice che devo: “Intergrarmi”. Ho vissuto da studentessa in Inghilterra tra una miriade di narrazioni identitarie diverse, con nel cuore le canzoni di Guccini e la voglia di esplorare uno spazio un po’ più aperto di quel da lui tracciato, tra la via Emilia e l’West che ha un po’ rappresentato la mia educazione sentimentale al viaggio. Non ricordo nulla di Sulla strada di Kerouac, se non il grande senso libertà che la strada, la piazza di Gaber, può aver dato a una giovane provinciale come me. Il mondo mi appariva nella sua bellezza e Milano era pur sempre Milano, ma io non ero più tanto io e questa città che mi aveva cresciuto era cambiata, così come erano diverse le storie migranti che approdavano in quel quartiere dove avevo iniziato ad abitare: un misto di immigrati dal sud che non conoscevano le bellezze artistiche della città, né i suoi network professionali, e una massa di sottoproletari muratori e produttori di prole che infiammava i cortili e correva libera sui marciapiedi, infischiandosene delle mamme che si muovevano con passi pesanti e sorrisi dolci sull’asfalto.

L'autore

Raffaella Bianchi

Raffaella Bianchi è nata in Italia e si è poi trasferita in Inghilterra e in Turchia dove ha svolto la professione di docente universitaria in storia europea e relazioni internazionali.
Si occupa di studi culturali e ha pubblicato in riviste accademiche internazionali articoli sul ruolo della musica nella sfera pubblica e politica nel contesto risorgimentale italiano e in quello turco, in particolare riguardo il movimento rivoluzionario contemporaneo delle primavere arabe. Ha scritto qualche racconto per El-Ghibli e alcune analisi della letteratura della migrazione italiana.
Dopo essere rientrata in Italia ha lavorato alle dipendenze del Ministero dell'Istruzione insegnando in diversi gradi di scuola in contesti altamente multiculturali e attualmente insegna italiano e storia in una scuola state per l'istruzione degli adulti. Sogna di diventare una scrittrice di fama internazionale e di fare ricerca in giro per il mondo teleportandosi con la sua gatta direttamente dalla poltrona della veranda.

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