dell’eleganza della negazione

Le storie erano lì sotto lo sguardo di tutti, ma nessuno vedeva quello che i Costruttori, i Formatori, i Procreatori, i Genitori avevano illuminato.

Con questo concetto inizia il Popol-Vuh.
Atto sacro è il vedere perché esso è guardare con intelletto e sapere la forma e la luce impigliata nella rete dell’occhio.
Vedere è leggere tessuto e testo.
Lesse Pàllade nell’arazzo di Aracne il principio degli dèi e del mito, la storia che deve rimanere occulta ai mortali, e la tessitrice ne patì il castigo.
Narrarono le tessitrici del Chiapas la storia, il principio della heimat la stirpe e la razza, la casa e il focolare, usi e costumi tramandati, i fondamenti dell’origine che devono rimanere velati, e subirono la pena serbata.
Sedette sui suoi idoli –la sua heimat-  Rachele quando uscì dalla casa del padre, cosi come siede la città fondata con la sacralità dettata dall’ecista. Il sacro comando portò con sé Enea: il padre e in lui i penati caricò sulle sue spalle e conduceva per mano il figlio seme di certa discendenza. Cosicché  questo sacrificio del migrante  spossessato, espiata la colpa della negazione e il primo peccato di rompere i rapporti con la famiglia e ribellarsi al padre,  suggella e rinvigorisce il patto con la stirpe, la heimat fiorisce nella  discendenza  feconda come le stelle del cielo.

Il libro della discendenza

Essi riferiscono i nomi degli antenati padri fondatori di tribù e civiltà, la linea della discendenza e dell’eredità tramandata. Questi sono i figliuoli…, e questi i loro nomi, secondo i loro villaggi e i loro accampamenti. Queste o altre simili parole siamo soliti leggere nelle storie dell’Antico Testamento.
Fondazione e discendenza sono due aspetti di un unico momento sacro: benedizione di  fecondità.
Fondare la famiglia per tramandare la heimat è fondare la città o spazio della comunità. «Soggiorna in questo paese, e io sarò teco e ti benedirò, poiché io darò a te e alla tua progenie…e moltiplicherò la tua progenie come le stelle del cielo.» (Gen. 26, 2-4).
Sacralità e benedizione di fecondità (nella discendenza, nella moltiplicazione dei beni) sono condizioni raggiunte dopo il tempo di espiazione e purificazione.
Così in ogni tempo.
Non mi meraviglia, dunque, che al discendente di migrante, stia a cuore compilare un simile elenco riferito ai suoi antenati.
Non di opere celebri si tratta, ma di una commovente letteratura minore, molto minore,  senza gloria e senza pretese cheovviando il racconto (e questo dettaglio grida che ancor nelle generazioni perdura il  dolore latente della catena familiare spezzata),  rassegna –a memoria di quel nucleo familiare a cui lo scrivente sente di appartenere-   la linea ascendente sino al fondatore della stirpe, colui che lesse in visione il comando e la cifra. Dunque cito espressamente: Los Cocco grandes y los Cocco chicos de la provincia de Corrientes di Dina Alicia Cocco (2009), Latidos gringos di Miguel Alberto Tomasella (2008) e El libro de las traducciones di Owen Tydur Jones (2009).
Che la scelta della lingua sia  quella del paese che l’autore abita, rivela la volontà di identificarsi con la comunità ospitante, volontà già presente all’origine, voglio dire già presente nell’emigrante fondatore della stirpe.
I primi due –Dina Alicia Cocco e Miguel Alberto Tomasella, entrambi residenti nella provincia di Corrientes-, schematicamente e senza abbellimenti letterari, rimandano la loro stirpe ai fondatori arrivati a Colonia Carolina da Recoaro Terme. Documenti, dunque, chiaramente destinati  ad uso e memoria  delle ignote progenie dinastiche senza lustro né risonanza nella Grande Storia: i Cocco, i Tomasella.
Dice Alicia Cocco:«…chiunque si ritrovi in questo albero genealogico trovi il tempo necessario per chiacchierare con i suoi discendenti e così completare la storia che li riguarda.» (Cocco D. A. 2009:12).
E Miguel Tomasella: « Don Lorenzo Tomasella arrivò [a Colonia Carolina] con i suoi quattro figli maschi e quattro figlie femmine e in più la moglie di Giuseppe il primogenito… Nel 1993 (a meno di 95 anni dell’arrivo dell’antenato Lorenzo) decidiamo l’incontro ”I Tomasella e le sue radici”. Per l’occasione, fatto un censimento, ci ritroviamo a superare i 2200 membri.» (Tomasella M. A. 2008:14).
Owen Tydur Jones: è anch’egli co-protagonista del suo El libro de las Traducciones. (Jones O. 2009). Discendente dei coloni gallesi arrivati all’attuale Puerto Madryn nel 1865, Owen abita a Gaiman, parla gallese e il suo testo è una traduzione in spagnolo di articoli di giornali gallesi di diverse date pubblicati nella colonia: inviti a feste della comunità, inviti a celebrazioni o riunioni nelle cappelle sparse nella zona, inviti a commemorazioni. Il racconto delle penose gesta del coloni  del “Mimosa” è ridotto a qualche riga.
Sono in verità questi scritti-opuscoletti che vogliono apparire distaccati e distanti quelli che  investono emotivamente l’autore, quelli che mi lasciano intravedere per comprendere, leggere il tessuto dello squarcio, la lacerazione, il momento sacrificale e la purificazione che subisce il migrante.
Quel migrante pellegrino, negato e ri-nnegato, che si sente schiacciato dall’inconsapevole e inconfessato peccato di tradimento e disobbedienza al padre e alla patria, che niente possiede e senza bagagli affronta il viaggio, cela nelle tasche, come il furto di Rachele,  una miracolosa immagine di carta, rifugio dell’anima, l’amuleto che lo salverà da ogni situazione avversa. Per un popolo lontano dalla patria non ci può essere salvezza se non si mantengono l’unità e l’identità. Anche l’invito di Giovan Battista Scalabrini si scandiva in questi termini: ritrovarsi in chiesa per rafforzare la coesione della comunità e perché solo così dimostrerete di essere italiani.
Il pastore Michael D. Jones raccoglie attorno a sé i coloni gallesi che con lui verranno in Patagonia. Il rabbino  Zadock-Kan guida il gruppo di coloni che da Tulchin viene a stabilirsi in Argentina, nella verde Entre Ríos. Così liricamente racconta Alberto Gerchunoff in Los gauchos judíos. Si spiega così la innocente popolare condotta di fondare cappelle dedicate ai Santi Patroni, formar congreghe, celebrare  feste e ricorrenze, preparare pietanze, usare l’onesto abbigliamento, tutto come nel paese lasciato al di là del mare. E si direbbe che queste manifestazioni sono dispari e scollegate tra loro se nonché è il porgersi soggettivo dell’individuo che dà loro senso e unità.
D’altra parte, il dover fondare lì dove niente c’è, è il primordiale invito biblico alla vita bucolica: «Soltanto coloro che vivono del proprio gregge e del proprio seminato hanno l’anima pura e meritano l’eternità del Paradiso.»(1) (Gerchunoff A. 1964: 21)

Della lingua e della traduzione

Dicevo più su che la scelta della lingua nella quale questi autori si esprimeranno, manifesta la chiara e determinata volontà di totale assimilazione. E sebbene questa problematica della lingua offra sfaccettature e varianti da considerare, la scelta manifesta un atto volitivo, un atto –voglio sottolineare con forza-, che riconduce al sentimento.
Sovente poi, l’autore già adulto, già sicuro di sé, sceglie di ambientare in Italia –e più particolarmente nei luoghi della sua infanzia-, il nuovo racconto. Ma intanto lo scrive in spagnolo -con l’inflessione della regione argentina dove abita- senza dimenticare il suo dialetto di origine se parlano i personaggi del suo paesello. E ancora qui incorro in un altro errore: quale dei due paese-nazione o paese-contrada è il suo cioè dell’autore?
L’esempio che mi offre Martina Gusberti nel suo El laúd y la guerra lo ripeto volentieri perché è molto preciso. Ella dice: «En mi lejana tierra argentina será ya primavera.» (Gusberti M. 1995: 60).  Ma nel filo della narrazione  lei è in vacanza in Italia tra cugini e zii, a Vescovado suo paese di nascita; intanto evoca Buenos Aires. la casa che lì abita e i suoi cari. A quale angolo di geografia si riferisce, allora, il possessivo mi/mio? E di quale possessione si tratta?
Questo tipo di letteratura che denomino di emigrazione evidenzia l’affettività e i sentimenti che muovono l’animo umano: la possessione gratuita e romantica, l’unica che le fu affidata nel momento della genesi.
E ancora ad altre riflessioni mi vota Martina.
Il suo romanzo El laúd y la guerra è scritto in spagnolo-argentino, con riferimenti  in italiano e in dialetto. Non é prurito di erudizione, ma indice che l’individuo migrante ha raggiunto la maturità dell’età adulta e l’equilibrio tra i modelli culturali -del luogo di nascita, del luogo di sbarco-  che lottano nel suo intimo.
Questo intreccio linguistico le conferisce un gran valore perché indica i diversi livelli emozionali: azione, incontro, intimità di relazione padre-figlia, zii e cugini. Valori che purtroppo si perdono nelle traduzione che è pur tuttavia fedele all’interessante impalcatura narrativa del romanzo.(2)
Ma  da tutto questo può ancora nascere qualcosa ancor più interessante. Francesca Lo Bue (italiana di nascita, laureata in lingua e letteratura spagnola), incomincia la sua carriera letteraria scrivendo in spagnolo. Poi, più tardi, traduce in italiano quelle poesie nate in spagnolo. Traduce il senso; e, più attenta alla musicalità e alla cadenza del verso che deve rendere in italiano è, qui e lì, infedele alla versione originale. Allora, traduzione o rifacimento?
E poi le interferenze linguistiche. Tempo addietro, quando ancora il tema non era motivo di tanto accesa discussione, già ne scriveva Syria Poletti  in un breve testo Complejidad del escritor argentino/Complessità dello scrittore argentino: «Il risultato [con il contributo delle tante lingue] è una cultura e un linguaggio…più universale che sudamericano, sebbene l’elemento sudamericano sia il fattore originario e sottostante.» (Syria Poletti. 1977: 165).
Poi voglio ancora aprire due interroganti: come reagisce il lettore argentino, quello che per primo riceverà questo suo testo che nella sua modalità linguistica dice di  un mondo altro?
E che dire di un lettore italiano, mettiamo  uno studente di spagnolo, che legge nella lingua originale un racconto di Syria Poletti ambientato a “Contrada della Pietà”, o a “Contrada dell’Oca”?

Conclusione

Supponiamo –ma questo punto di partenza è molto arbitrario e parziale- che la Storia d’America inizi con la scoperta e conquista del continente americano.
Da allora in poi, l’immaginario collettivo concepì l’America continente spopolato sede di chimere e minacce per gli umani, spazio vuoto(3), a mercé dell’avventuriero che ardisse  pigliarselo. La leggenda, la negazione spirituale dell’esistenza dell’indio abitante autoctono, prese piede sempre più con l’andar dei secoli; invogliò i tanti mercenari e i tantissimi diseredati della terra e convinse anche i benpensanti politici americani  che a fine ottocento e ancora un po’ oltre, dirigevano la vita della Gran Aldea, il Grande Villaggio, altro nome di Buenos Aires, per quell’epoca.  Motto di  Juan Bautista Alberdi nella sua opera Bases,  compendio di proposte per un progetto di costituzione lavoro finito verso il 37, fu: Gobernar es poblar/Governare significa popolare.  L’autore assegna a popolare delle sottigliezze: civilizzare, istruire, educare, arricchire, migliorare la razza, distribuire la popolazione su tutto il territorio.
Nel 1879 il Generale Julio A. Roca portò a termine La Campaña del Desierto. La caduta della Frontiera Interna (frontiera bianchi-indios) permise che la fertile Patagonia si aprisse al progresso,  idea coniata sul  modello forgiato dal bianco europeo arrivato con la Grande Emigrazione (modello alieno, importato):  delimitare la proprietà privata, allevare  bestiame con fini produttivi in grande scala, di carni  e pellame, impadronirsi, impossessarsi, arricchirsi…
Intanto, il grande flusso di  immigranti riempie gli spazi geografici. E tanto nel campo sociale come nel campo lavorativo si soffrono le piccole violenze quotidiane perché due (o più) modelli culturali, due (o più) modelli linguistici(4) entrano in conflitto, seppur con diverso sentimento sia nell’animo del  nuovo arrivato  che nell’abitante del luogo(5). Lottano per la supremazia: il modello culturale della tradizione, il modello culturale del paese ospitante, reputato moderno, proiettato al futuro e vincente. Il soggetto migrante vive questo dualismo con molta sofferenza. Nei bei discorsi politici dei nostri giorni si vanta la ricchezza del migrante data la doppia cultura che padroneggia, e dall’alta moralità del  popolo che ha la fortuna di ospitarlo.  Superficiale e indolente, molto a cuor leggero  l’oratore tal cosa dice: ignora la ferita sanguinante, lo squarcio che questa dicotomia ha significato e che solo il tempo, l’età adulta e la  vecchiaia, l’intera vita, mitiga e armonizza. Sovente è il figlio, la discendenza a –approfittare, avvantaggiarsene?- sentirne i benefici. La promessa di discendenza, il ristabilirsi della catena familiare ora che nel paese ospitante riposa l’antenato o gli antenati, ora che in questa terra riposa l’eroe, il padre della patria, il padre e il padre del padre che hanno  contribuito alla grandezza della patria, il padre-patria; ora questa zolla di terra è sentita proprietà affettiva. Ancora Syria Poletti, lei italiana di nascita, riguardo l’Argentina suo attuale(6)  paese di residenza dice: « I miei primi anni in questo paese che oggi sento tanto mio che allo stesso modo potrei ingiuriarlo come lasciar che mi uccidano per lui, sono stati…». (Poletti S, 1977: 62). E Nisa Forti nel suo romanzo La Crisálida/La Crisalide che in altro lavoro analizzo da più vicino: «-Non la ami perché ancora non le hai dato niente. Dalle il tuo sangue, affidale  i tuoi sforzi e i tuoi desideri. Dalle figli. Allora ti apparterrà.» (Forti N, 1984: 791).
Perché mai, gli avvisi funebri che compaiono nelle strade del paese dove abito, danno conto dei decessi di emigranti residenti all’estero? Questa foto denuncia un emigrato vincente, con il vestito bianco argentato e papillon a tono su camicia bianca, gardenia all’occhiello e fazzolettino nel taschino della giacca agghindato a festa di matrimonio; sorride la facciotta che non riesce a tradire l’essere stato manovale muratore… Quest’altro annuncio riporta solo i nomi… del committente, dell’estinto. Entrambi sono morti a New York. Saranno emigrati nel primo quarto del secolo scorso!
Ogni catastrofe, personale, familiare, nazionale, generazionale, continentale, travolge e sconvolge la vita del singolo e degli individui tutti.
E se tutto questo succede nell’anima, che ne è del corpo? Spostarsi di latitudine  e ancor di più spostarsi di continente significa alterare il ritmo biologico che è impresso nelle cellule. Si altera la scansione del giorno e della notte, la scansione del tempo di lavoro, del tempo di riposo, del tempo delle vacanze. (Oh… la mia data di nascita non cade più in estate ma in inverno, e adesso ancora in estate!)

.   .   .
Ogni catastrofe è abbandono, catena familiare che si spezza, si chiami emigrazione, desaparecidos, generazione dei figli con la chiave appesa al collo,… Ogni catastrofe chiede di  riallacciare, di ripristinare la heimat, la stirpe e la famiglia, la lingua, la religatio, gli usi e costumi…
Tutto questo che fu negazione, mesta ed  elegante negazione come è mesto ed elegante il silenzio, chiede il riscatto. E così sia.-

Note

1_Nuova ondata di malessere sociale sconvolge l’Europa di fine Ottocento. Delle persecuzioni razziali più o meno celate si discute nel Congresso di Basilea del 1897. Le  idee visionarie propongono il ritorno alle origini, alla vita agreste…e si parte verso dove, si dice, ci sono estensioni disabitate.
2-Con il titolo Un musicista sul Carso, Ilaria Magnani traduce questo romanzo.
3-Il conquistatore e il colonizzatore poi, non ebbero in gran conto la presenza del indio, abitante autoctono. Fray Bartolomé de Las Casas, (1412-1560) rifletté e scrisse per primo in favore dell’umanità dell’indio. Fray Bernardino de Sahagún (1500-1590)  per primo si dedicò a studiare la lingua degli indios, nahuatl nel suo caso.
4-Con naturalità le autrici nominate alludono nei loro scritti  agli scrittori letti nelle scuole che hanno frequentato in Italia e si annoverano nel bagaglio culturale di formazione.
5-Nella piéce teatrale La gringa di Florencio Sàncez, si confrontano due metodi di lavoro: la pastorizia e l’allevamento di bestiame metodo tradizionale di sussistenza sostenuto da Cantalicio, sfruttare la terra e coltivare il grano, metodo che Próspero ha imparato dagli immigranti italiani e confortuna mette in pratica.
6-Syria Poletti è morta a Buenos Aires nel 1991.  La forma autobiografica che adotta nei suoi racconti è puramente letteraria sebbene contenga molti elementi di autenticità. Dalla totalità delle sue opere, risulta che la sua è  una autobiografia poetizzata, comunitaria e universale dell’emigrante. Il suo emigrante è una idea che contiene tutti gli emigranti del mondo di tutte le epoche.

Bibliografia

-Anonimo.  Popol Vuh. 1975. Editorial Losada. Buenos Aires.
-Cocco Dina Alicia. Los Cocco grandes y los Cocco chicos de la provincia de Corrientes. 2009. Imprenta Moglia. Corrientes.
-Forti Nisa. La Crisálida. 1984. Editorial Corregidor. Buenos Aires.
-Gerchunoff Alberto. Los gauchos judíos.1964. Editorial Universitaria de Buenos Aires. Buenos Aires.
-Gardini Walter. Syria Poletti. Mujer de dos mundos. 1994. Asociación Dante Alighiueri de Buenos Aires. Buenos Aires.
-Gusberti Martina. El laúd y la guerra1995. Editorial Vinciguerra. Buenos Aires.
-Jones Owen Tydur. El libro de las traducciones. 2008.  Secretaría de la Provincia de Chubut. Rawson.
-Magnani Ilaria. Un musicista sul Carso. 1998.  Associazione Dante Alighieri di Buenos Aires. Buenos Aires.
-Poletti Syria. Complejidad del escritor argentino, in La gente. 1977. Editorial Kapelusz. Buenos Aires.
-Sánchez Florencio. La gringa. 1966. Editorial Troquel. Buenos Aires.
-Tomasella Miguel Alberto. Latidos gringos. 2008. Imprenta Vago. Goya.