Donne che abitano il mondo

“L’abitare è un elemento fondamentale del benessere individuale e l’abitazione – oltre ad essere un principio costituito dello spazio sociale e una risorsa economica – è il luogo dell’intimità, della sfera familiare e della cura.” [1] Donne o uomini, nomadi o sedentari, ricchi o poveri, in qualunque modo si viva la vita, avere una casa, un luogo dove potersi rilassare, è importante. L’abitazione è il luogo della “nudità”, ci si può finalmente spogliare del vestito sociale che si è obbligati ad indossare in presenza di altre persone e si può tornare ad essere se stessi, senza dover dimostrare niente a nessuno.
Abitare una casa costituisce un elemento essenziale per garantire lo sviluppo della persona umana. L’abitazione infatti viene vista come strumento di propagazione di tutti gli altri diritti fondamentali dell’individuo, permettendo di renderli validi e significativi.

“La casa può essere un luogo “mobile”, che segue uomini e donne nei loro spostamenti, oppure può essere rappresentata da una serie di “luoghi dell’anima” a cui andare, tornare, anche soltanto con il pensiero e la nostalgia.” [2] Le parole dell’antropologa Valentina Porcellana ci mostrano come il sentimento d’appartenenza ad un luogo giochi un ruolo fondamentale nel momento in cui riflettiamo su cosa significhi davvero abitare. Ma la casa non è solo un luogo fisico, è invece qualcosa che ha strettamente a che vedere con il ricordo e la memoria. Lo dimostrano i tantissimi racconti che arrivano ogni anno al Concorso letterario nazionale Lingua Madre, ideato da Daniela Finocchi nel 2005 e dedicato alle donne straniere – anche di seconda o terza generazione – residenti in Italia che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè l’italiano), vogliono approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo “altro”.
Le storie che raccontano le autrici del Concorso Lingua Madre parlano anche di questo: del rapporto della donna con la casa, fisica o ideale, con la famiglia e con l’abitare in senso lato. Abitare, dal latino HABITARE (frequentativo di HABERE, avere) che nel senso proprio vale “continuare ad avere” ma più comunemente aver consuetudine. Stando a questa definizione, si può abitare qualunque cosa con la quale abbiamo consuetudine, si può quindi abitare un posto, una cultura, un’idea e anche una lingua. Si arriva ad “abitare” qualcosa dopo un percorso che porta a comprendere ciò che si vuol possedere, così da portarlo sempre al proprio interno per rispettarlo e integrare le sue conoscenze con le nostre, come racconta in Le case senza sole l’autrice romena Andreea Luminita Dragomir: “Mi piaceva quella casa perché era molto vicina all’università e perché potevo invitare le mie colleghe per scambiarci idee, studiare, prendere un tè e un dolcino fatto in casa, così la mia abitazione diventava cosy (intima in inglese). Ah sì, perché noi, le studentesse di Lettere, parlavamo una specie di romeno mescolato all’inglese, un po’ per fare pratica ma anche per il piacere della lingua.”[3] Lingue diverse che vengono interiorizzate al punto da diventare una lingua unica, parlata da persone che conoscono e rispettano entrambi gli idiomi. Si parla anche di case in questo racconto, di come l’autrice, che non ama il sole, si sia ritrovata attratta da quattro appartamenti bui, dove il sole fa capolino solo pochi minuti al giorno. “Quello che trovo strano è che in ognuna di queste case ho vissuto per due o quattro anni: sono stata bene e male, qualche volta sola, triste o felice. Non mi sembra una coincidenza, è proprio come se queste case avessero aspettato me, visto che non amo il sole.”
Non sempre una casa è fonte di conforto e di sicurezza però, come nello scritto di Jacqueline Nieder, Eleonora, ambientato durante la guerra serbo-croata: “[…] rientrai a casa. Di quella sera ricordo gli odori. Ricordo l’odore di sudore che riempì la stanza quando fecero irruzione mentre stavo dormendo. L’odore di bruciato che entrava dalla finestra, che si mescolava all’odore della mia paura. Erano gli stessi delle lamiere, i due soldati e il civile. Sentivo ancora sulle labbra l’aroma dell’erba e della terra. Quando se ne andarono, gli odori sparirono con loro. Non li riesco più a sentire, nemmeno dopo tutto questo tempo.”[4] Casa come oppressione, luogo dal quale scappare verso altre case più accoglienti. Ne è un esempio la storia di Dounya Mahboub, ragazza marocchina che scappa dalla casa materna per sfuggire al padre padrone e approda in una casa astigiana piena di libri e cultura. “In quella casa ricca di oggetti a me sconosciuti, svolgevo diverse mansioni e imparavo con grande entusiasmo i piatti tipici piemontesi per la preparazione del pranzo e della cena. Passavo molte ore nella biblioteca della casa, per la sete di sapere che avevo sempre avuto. Già da bambina leggevo tutto quello che trovavo, ma in Marocco i libri non potevamo permetterceli e mio padre controllava sempre le mie letture; poter leggere così tante cose diverse mi ha permesso di farmi una cultura, solo mia, nessuno mi diceva cosa leggere.” (Changes)5
Esistono case piene di ricordi nelle quali si può respirare il profumo di posti lontani, case abitate da persone legate a tradizioni antichissime che vengono portate avanti ovunque esse si trovino. Usando le parole di Valentina Porcellana: “La casa segue gli uomini e le donne ovunque vadano ma non può essere un luogo pienamente felice se resta un luogo solitario. Soltanto i legami veri, profondi, i sentimenti e le relazioni positive e ricche danno fondamenta, muri solidi e un tetto alla nostra esistenza”.6
L’autrice Silvia Thanh Vy Huỳnh descrive così, nel suo racconto L’amore che unisce, la casa della nonna nella provincia torinese, durante l’importante festa del Tết, il capodanno vietnamita: Nel suo soggiorno ci sono tre altari: uno con le foto dedicate al Buddha, uno per gli antenati, e uno per suo marito. Ci sono oggetti e ricordi raccolti per divenire una cornice preziosa per la preghiera ed omaggio a loro. I candelieri, un’immagine del tempio con la sua luce abbagliante, un piccolo vaso con alcuni ramoscelli di giovani margherite bianche e gialle di un profumo chiamato Tết. […] Anime del Vietnam unite nelle loro radici, tradizioni, negli sguardi dei loro antenati che li accompagnano nella nuova vita in Occidente dove si può festeggiare la festa natalizia con la famiglia richiamando i colori sgargianti e unendo le tradizioni, vivendo in occidente senza dimenticare l’oriente, l’origine. La nonna vuole che i nipoti e i figli, attraverso il suo esempio, sappiano che anche loro hanno il proprio Natale e Capodanno tradizionale. Lei sostiene che entrando a casa di altri devi seguire le regole con rispetto e apertura mentale, ma bisogna sempre conservare le proprie.[7] In realtà non tutto è così difficile. Incontri per strada persone meravigliose, amiche che diventano sorelle, un compagno. Impari diversi mestieri. Conosci posti che ti tolgono il fiato: il mare della Riserva dello Zingaro, le stradine di Venezia, Piazza Navona durante un tramonto a Roma, il Duomo di Milano. Visiti tanti musei, viaggi con le compagnie low cost. E senza pensarci, un giorno ti ritrovi innamorato della tua nuova città e chiami casa la tua casa qui, anche se per i primi anni è una stanza che condividi con altre ragazze. […] Voglio che le mie figlie crescano vicino ai nonni, zii e parenti vari che hanno qui. Voglio che sviluppino un senso d’appartenenza alla terra dove sono nate. Voglio che non trovino motivi per lasciare questo paese.”[8] Il senso d’appartenenza di cui parla Monica Maria Caudana in Fiori freschi, è un sentimento di fondamentale importanza nella nostra vita quotidiana, un legame che si instaura tra individui coscienti di avere in comune una medesima matrice culturale, intellettuale, sociale, professionale, religiosa. Pertanto è estremamente difficile riuscire a provarlo in un paese straniero, con basi culturali e sociali diverse da quelle di partenza. Chi ci riesce è perché prova un profondo rispetto per le tradizioni altrui, assimilandole e interiorizzandole al punto da sentirle proprie.
È ciò che ha fatto l’autrice romena Claudia Mariana Mare imparando la lingua italiana talmente bene da non lasciare traccia della sua lingua madre: Scrivevo poesie e pensieri. Pensavo. Pregavo. Contavo. Non ho mantenuto nemmeno l’accento romeno parlando la lingua adottiva. Ho cancellato ogni traccia che permettesse di risalire al punto di origine. Mettere a tacere la propria lingua madre equivale a ucciderla? Tuttavia, a casa, con i miei genitori parlavo e parlo tuttora una lingua che non esiste nei libri di grammatica. È una lingua inventata, spontanea e senza regole scritte. È un miscuglio: un verbo romeno coniugato in italiano oppure un sostantivo italiano declinato in romeno. (Exceptio regulam[9])
Tentare di cancellare del tutto le proprie origini non risolve i conflitti interni che si vanno a creare nel momento in cui qualcuno cambia paese, anzi, non fa altro che acuirli ed estremizzarli. L’unico modo per placarli è prenderne atto, non dimenticarsi mai da dove si arriva e dove si vuole arrivare. Ne parla nel suo racconto Michela Mivida Di Meo: Lei poi si vergognava di tutto: di essere nata in Grecia, di sua mamma con i suoi capelli afro, delle sue origini etiopi, della macchina piccola e malandata della madre, di avere i genitori separati e dei suoi vestiti poco firmati di fronte a quelli delle sue compagne al buon liceo. «Ma perché da te non è venuta Santa Lucia? Sei stata un bambina cattiva dillo dai!», «Tu non vieni a catechismo quindi non puoi credere in Gesù!», «Ma la sentite, sta parlando o fa miao miao miao!» «In Grecia sono tutte abbronzate come te?» […] Ma qualcosa era cambiato e decise di  iscriversi a Filosofia, a Verona. Lì incontrò l’oralità, la forza e lo splendore della lingua e del pensiero della differenza sessuale. E fu in quelle aule che un giorno, orgogliosa, parlò a tutti della sua lingua madre, il greco, e scrisse alla lavagna il suo nome di battesimo nel suo alfabeto. La lingua madre le dà la possibilità di parlare partendo da sé, di raccontare la migrazione, di vedere i mille colori del dolore e esaltare la forza e il bisogno di stare con altre donne e ricordare la sua genealogia femminile. Quell’amore verso la sua lingua si accompagna all’amore per l’italiano dei bei romanzi e alla lingua russa che ascolta nei lunghi pomeriggi  a casa della sua migliore amica. Perché nella lingua materna tutto diventa significante in quanto immerso in un tessuto culturale, in legami, in relazioni, in una forma di vita.” (Ston afro, ston afro tis thalassa)[10] Essere fiere e orgogliose delle proprie origini, della propria terra madre, a questo ci portano i racconti delle autrici del Concorso Lingua Madre, donne di tutte le età che hanno vissuto sulla pelle le difficoltà di chi parte lasciando la propria casa e la propria vita, trovando nella scrittura una catarsi, nell’amicizia e nella solidarietà la forza per ripartire da zero.
Virginia Woolf, in Le tre ghinee, scriveva: “Io in quanto donna non ho patria. In quanto donna non voglio una patria. In quanto donna, la mia patria è il mondo intero”.

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[1]                    [1] Valentina Porcellana in L’alterità che ci abita – Donne migranti e percorsi di cambiamento (Edizioni Seb27, Torino 2015).
[2]             Ibidem.
[3]             Tratto da Lingua Madre Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia. (Edizioni Seb27, Torino 2016)
[4]             Ibidem.
[5 ]            Ibidem.
[6 ]            Valentina Porcellana in L’alterità che ci abita – Donne migranti e percorsi di cambiamento (Edizioni Seb27, Torino 2015).
[7]             Tratto da Lingua Madre Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia. (Edizioni Seb27, Torino 2016)
[8 ]            Ibidem.
[9]             Ibidem.
[10]            Ibidem.