La mamma di Zeqo sulla cima del corniolo

Una giornata d’estate  del  lontano 1983 segnò  profondamente il mio approccio verso il grezzo e rozzo in tutte le sue sfumature. Agghiacciò per un po’  il mio flirt  inconscio con la politica, spazzolò per bene  la fantasia annoiata sul ciglio di una strada deserta, e aprì una spirale di libidine euforica verso il cibo. Per altro , oserei definirla  un’esperienza tragicomica se non fosse per la mia decisione  prenderla alla leggera e ad un secondo  momento, anni dopo, sloggiarla dallo scompartimento mentale dove archivio di solito le storie spiacevoli e sgradite. Giusto  per rivalutare il suo lato tragico smarrito, giacche quello comico spalancò una sala intera, piena di intellettuali e amanti dell’arte in un ristorante  lussuoso di fronte al mar Adriatico.                                                                                 Avevo appena concluso il ciclo scolastico, quello che da noi viene definito  ginnasio e, subito dopo, vinto un premio di  poesia  a livello provinciale, cosa assai gradita vista, come si usava dire dai nonni, la mia  tenera età . E cosi che una domenica sera avevo il piacere di essere  invitata come ospite d’onore in un evento, dove era previsto con la consegna  del mio premio anche una proposta a sorpresa da parte dei organizzatori. Una proposta  particolare, effettivamente qualcosa che non potevo neanche immaginare e che mi avrebbe provocato un immenso godimento.                                                                                                    La giornata di domenica irradiava un certo caldo d’anima carnosa che avvolgeva la materia con  un misterioso vapore di  vaga inspirazione culinaria.  Pensando all’entusiasmo di quel giorno, tendo a giudicare maluccio me stessa.  Posseduta da qualche magia malefica avevo delle speranze per il futuro.  Speranze cosi salde da essere convinta nella mia fortuna, che il mondo fuori di noi era una giungla immersa  di guerre e ingiustizie, di barbarie continue e di immoralità bollente. Che vivevo in un posto felice, certo di una felicita assottigliata, ma fatta di una stoffa preziosa e resistente. Ripensando, mi viene in mente che di mattina ebbi anche un risveglio  irrazionale. Sapendo che era domenica, ero precipitata in un pesante sonno  pieno di sogni errabondi dove di volta in volta andavo in giro nelle realtà  fantomatiche.  Spesso mi capitava essere un agnellino che tornava buono buono  a casa con i suoi fratelli e che  appena arrivati dentro  si chiudevano bene con la chiave, cosicché, come  raccomandati  da mamma pecora, non aprivano la porta a nessuno, se non alla cugina ariete.  Ci  aveva insegnato perfino un giochetto. Se qualcuno bussava alla porta, dovevamo chiedergli di infilare sotto le dita del piede destro. Per sicurezza! Era doveroso anche se a chiedere fosse la cugina ariete. E se le dita del piede fossero state bianco-latte, sarebbe potuto, ripeto sarebbe potuto essere un buon segno. Altrimenti, poteva essere  colei  che temeva la nostra famiglia: la signora volpe mascherata da cugina ariete.   Ecco, cosi  passavo il tempo quella prima mattina nei miei strani sogni, transumata  in un agnellino sottomesso alla mamma pecora . Terrificante era il proseguimento del sogno. Chi sa perché, ero l’unico dei agnellini, che pur sapendo chi era dietro la porta, aveva una voglia irresistibile di aprirla . Forse perché non mi ricordavo come procedeva la favola. Da piccola la sapevo a memoria, ma nel sogno non mi veniva in mente niente. Apriva o non apriva la porta il più sfigato degli agnellini? In ogni modo, il mio subconscio mi spingeva verso il sacrificio come se il buon andamento  dipendesse dalla mia decapitazione. Quindi, ogni tal volta  facevo questo sogno, nel sogno, puntavo verso la porta con  salti da agnello, accompagnato dai  balbettii disperati del resto della famiglia. Mi ritrovavo sempre paralizzato davanti alla volpe e poi, pacificamente per modo di dire, decidevamo assieme  la  maniera meno dolorosa per essere sbranata  .                         Quella domenica un esserino divino mi tirò dall’alto una capocciata  e mi svegliai d’un colpo. Rimassi piegata sul letto, scaraventata dall’ultima  realtà parallela . Fui svegliata cosi, per poi essere scomodata  da decine di spinte quasi violente sul  braccio. Cercai di aprire un occhio e vidi il viso preoccupato e palesemente emozionato del  mio padre. Capì che era caso di aprire anche l’altro  occhio, e gli chiesi:
– E’ successo qualcosa papà?
– Oh no! – rispose, e rimasse un attimo assorto.

Giusto un paio di secondi, e poi con una voce sostenuta  aggiunse:
–  Sai che oggi è un momento storico della tua vita?

La cosa mi colpì, cosi cominciai a grattarmi la testa. Ancora non scorgevo bene mio padre, un leggero strato di cispa mi offuscava la vista, e lo vedevo  come dietro una tenda azzurrina, cosa che lo faceva sembrare ancora più enfatico. Sapevo che oggi mi veniva consegnato un premio importante, che tra i ospiti cera anche uno dei rappresentati più importanti del partito, ma a dire il vero la  cosa non mi emozionava più di tanto. Ma  mio padre non mi lasciò tempo di pensarci  a lungo:
– Hai compiuto 18 anni la primavera scorsa figlia mia!- mi disse con un tuono scosso di emozioni – E oggi ci sono le urne!

Cavolo di una pecora! Lo avevo dimenticato! Ero maggiorenne e quella mattina per prima volta votavo ! Non ci avevo pensato…
– E’  un giorno sublime! È un giorno maestoso, il giorno dove tu hai il diritto di votare il destino del tuo popolo! E’  per questo che stavo pensando, se non era una idea simpatica – e qui modificò il tono – che ti presentassi alla cena della consegna con una poesia dedicata  … al Partito!

La cosa cominciò  a preoccuparmi. Chiesi al mio padre il permesso di andare a rinfrescare gli occhi  e, cosi facendo, trascorrendo il corridoio, un dubbio mi lascio sperare che con due tre belle risciacquate avrei scoperto che ero in un altro sogno. Infatti mi sono fermata a  lungo in bagno guardandomi  fisso allo specchio. Dopodiché capii che non avevo scampo.  La sagoma di mio padre che aspettava  per continuare il discorso era reale, si vedeva dietro  la porta di vetro in fremito  di sensazioni    infrenabili. Uscii rassegnata mentre  mi seguiva continuando il suo discorso bucolico, con delle mani e sorrisi, e con sguardi convincenti. ” sai che titolo potevi mettere: il mio primo giorno da votante! O forse forse, “Io e il partito” …”Finalmente a casa del popolo” ….

In albanese  quando qualcuno spara delle frottole si usa dire:  stai parlando come “la madre di Zeqo in cima di corniolo”. Ma nella nostra famiglia non era da persone educate rivolgersi cosi ad un padre. Si diceva però che  era un detto molto usato dal Poeta .
Dire il Poeta  significava nel 1983 un nome specifico a cui piaceva cucinare gli spaghetti  e  spegneva i suoi anni da invisibile in un paesino meraviglioso di fronte ad un lago attorno a cui  era abituato passeggiare con il suo cane. Il cane era il suo unico amico dopo la morte della moglie. Tant’è che quando un giorno di primavera   si presentò con lui e con un bastone  davanti allo sportello del comune, il portiere rimasse  fulminato. Per tanti motivi suppongo. Uno di quelli  era che lo scrittore molto vecchio non usciva mai nelle zone abitate e ancor meno girovagare negli uffici che letteralmente odiava. Un’ altra ragione era che tanti lo consideravano morto tanto è che nella letteratura albanese il suo nome, con la sua biografia magra accanto alla foto bianco e nero, era sottolineata con una fascetta nera che richiamava la morte .Niente da fare. Apparteneva  ad altri tempi, distante dalle politiche e il partito. I giovani letterari lo consideravano un migratore d’amore tra Romania, Albania e il lago. Nella loro immaginazione  cancellavano  i confini, coloravano le strade e il  lago  e lui veniva messo sopra una cometa in cerca della  sua amata misteriosa e perennemente perduta.

Ritornando al discorso  del cane che si chiamava Ciuci, e del suo forte legame con quest’ultimo, spazientito, il vecchio chiese al portiere  se poteva proseguire dentro la struttura intento a  incontrare il sindaco. L’altro rispose stupito:
– Non entrambi!

Il poeta che  fino a quel momento  aveva tenuto gli occhi  abbassati, sollevò  lo sguardo e lo fulminò.
– No? Io e il cane no ? – disse con una voce  fredda e indifferente.

L’altro annui  con la testa. Il vecchio disinvoltamente liberò il cane dal guinzaglio  e gli sussurrò:
– Su …Ciuci vai tu dal sindaco !

Poi si diresse verso la porta, e un paio di minuti dopo apparve oltre la strada.

Dunque, si diceva che il Poeta amava cucinare un certo tipo di piatto. Qualche mala lingua raccontava che la cucina era  la scusa per farle venire la barba alle persone che lo infastidivano con delle visite interminabili e  appiccicose. Si comportava cosi, raccontava un scrittore  “Ti faceva entrare e  ti accomodava sul divano. Poi spariva dall’altra parte della casa  un paio di ore e al ritorno aveva addosso l’espressione tipica di chi è sorpreso di trovare  un ospite . Poi dicevano che non si scomponeva per cosi poco. Sempre garbato e delicato quanto un re, si sedeva davanti all’ospite e cominciava a raccontare la storia dei suoi spaghetti. Non era una cosa da pochi minuti, ma malgrado tutto, l’ospite, ovviamente adoratore del Poeta, rimaneva  meravigliato ad ascoltare  come il sugo doveva essere fatto con una piuttosto che con un  altra spezia, come nella variante albanese bisogna rendersi conto che gli spaghetti non  potevano essere cotti al dente per un anziano di una certa età. Dunque, spiegava con modi raffinati,- prima di tutto ci si pensa al sugo, il quale è “il cappello” dell’opera. Andava matto per gli  spaghetti con  cipolle stufate e spezzatino di agnello.  Va bene. Al suo dire di mattina presto aveva già tagliato la carne  fresca e tenera in pezzettini da un centimetro, li aveva fatte soffriggere lentamente con olio d’oliva e con un ricciolo di burro. Mentre controllava  l’andamento della carne aveva messo fuori dalla finestra il  suo naso delicato  e respirando profondamente l’aria aveva contemplato il suo lago. Dicevano che era convinto che era suo, solo per i suoi occhi e per le sue passeggiate. All’ospite non  diceva niente di tutto ciò, teneva dentro i suoi amori concettuali. “Appena i pezzettini dell’agnello sono diventati del bocconcini caramellati fuori e succosi dentro  li devo assolutamente togliere via dall’olio – diceva con la voce alta guardando il muro oltre le spalle del “malcapitato”  . “Ma –  alzava il tuono  –  quello che  è rimasto oltre la carne, insomma l’olio, il sugo, deve avere il colore del tramonto! Ha capito? Il colore di un tramonto stanco! Pieno di tristezza ma con il desiderio suicida di essere spalmato sopra un pezzo di pane nero appena sfornato. ” Di solito metteva le mani dentro le tasche della giacca se l’aveva addosso, altrimenti  appoggiava una mano sopra le ginocchia, e con l’altra accarezzava  Ciuci. “Poi– proseguiva  con la voce da tenore – in quel sugo ristretto per bene, a cuor leggero  buttiamo delle cipolle tagliate non finemente – e qui alzava la voce di più – non fini!  Non usare mezzelune! Tagliarle In cerchi rotondi e alti – e faceva vedere due delle ditte attaccate – Cosi! “ “Ovviamente – continuava- si dovrebbe assistere a tutto questo spettacolo osservando attentamente che questi cerchi bianchi polposi diventino color cioccolato ,ma di gusto piccante e salato quanto basta . Sarà il sangue di quel che rimane dal sacrificio del agnello! Ci sei carissimo? Ti rendi conto?”
E cosi andava avanti fino quando i pezzettini di carne si mischiavano con la cipolla bella croccante fuori ma  succulenta dentro. Il seguito andrebbe alla grande con una spruzzata di pomodoro sopra, ma solo una spruzzata . Con questo voleva dire : Un pomodoro maturo si posa sul palmo della mano e mentre carne e cipolla si adattano adeguatamente tra di loro, la mano si stringe a pugno  e schiaccia  il pomo dell’amore . Dal  pugno stretto esce  a tratti il liquido generoso e denso. Beh, se si trovava in giro qualche foglia di prezzemolo fresco  poteva anche andare bene. Ma a parte questo, nient’altro che quella crema rossastra e polposa, nemmeno la pellicina tenera rimasta tra le ditta.  La pasta poi! Ah!
Lui narrava come degli  spaghetti eleganti e  gialli  immersi dignitosamente nell’acqua bollente dopo pochi minuti fluivano  trasudati e innocui. Poi raccontava com’era un vero spettacolo vedere  sposarsi assieme spaghetti, cipolla, e pezzettini di carne, vicini – vicini, dentro la pentola dove li faceva saltare giusto per assaporarle meglio. Comunque non solo l’ospite non si annoiava ma stava li anche dopo che il Poeta, forse perché stanco, finiva d’un colpo e non parlava più. Rimanevano cosi per un po’ senza scambiare una mezza parola. L’ospite osservava il Poeta e il Poeta osservava il cane che gli si addormentava sui piedi.  Dopodiché, verso la sera, il fan  finalmente decideva di andare via con un pezzo di felicità enorme sul petto, sentimento che lo teneva stretto al petto  come una porzione magica, attento  di non perdere qualche goccia lungo il viaggio e lungo il tempo. Lo teneva al caldo e al sicuro fino a quando  incontrava degli amici degni per farvelo godere. E solo in quella condizione  tirava  “il tappo”  come da una  bottiglia pregiata  di sciampagne che si scaraventava all’improvviso, e reclamava :

– Sono stato alla casa del Poeta! Oh mamma! É come dicono, grande , grande !

Nel  frattempo,  il Poeta, aveva sbirciato dietro la finestra per assicurarsi che l’ospite fosse andato veramente via. Convincendosi poi , con  il  cane e il bastone si  infilava come al solito  nella nuvola della notte che la accompagnava  fino al lago, l’unica nube della quale si fidava e  che lo sorreggeva fino alla riva. Arrivato sul posto si sedeva e stava fermo e silenzioso attento a sentire chi sa che, mentre la cittadina  piena di lucciole si fregiava delle lastre di barlumi  affievolite man mano che il buio diventava  più profondo.

Ma io non ero il Poeta, e a parer mio ad un padre non vai  a dire “ Stai parlando come la mamma di Zeqo alla cima dei cornioli”. Perciò, quella  lunedì mattina ho fatto finta di condividere la sua idea e frattanto giravo per  casa  in pigiama  cercando  un paio di calzini puliti. Annuendo con la testa tutto quello che  mi diceva  papà, pensavo che appena tornata dalle sede elettorale avrei f atto una bella colazione. Poi una bella doccia, e cosi via fino che arrivava la sera.  Fare colazione prima di votare in Albania degli anni 80  sarebbe stato come andare a fare analisi del sangue senza il digiuno. Capiamoci bene, potresti sicuramente andare anche dopo le dieci di mattina, ma dovresti tener conto che a quell’ora stanno aspettando solo te o quelli come te privi di  quella spinta eroica di andare a compiere alla svelta, cioè alle 8 in punto di mattina il dovere verso il partito, verso il popolo e verso il comunismo. Del resto la strada di fronte ai seggi  l’avresti trovata piena di persone in fila con il tesserino in mano già dalle sette di mattina. Non ti direbbero niente, ma capiresti  che ti stanno  giudicando male. Lo capiresti per  come  farebbero finta di preparare la chiusura di non avere  tempo  e che per colpa tua starebbero li aspettandoti, fuori orario.  Ho votato e sono tornata a casa con tutta la famiglia, visibilmente emozionata. In quattro sembravamo di andare in marcia  per la festa del primo maggio. Ad essere sinceri io, personalmente, andavo leggermente un paio di passi in avanti, giusto per non sembrare cosi imbranata e goffa. Sapevo bene che, percorrendo assieme quel tragitto fino alla casa, un paio di occhi dissidenti, tra i quali tanti anche dei miei amici di classe, mi stavano osservando dalle loro finestre ridacchiando  alla grande. Bene, nessuno poteva dirmi niente. Tutti dovevano votare, nessuno rischiava cosi grosso a parte qualche pazzo, qualche mattatore destinato alle tenebre della galera .
Appena entrai a casa sentii un insistente bisogno  di mangiare qualcosa di buono. Volevo premiare me stessa per avercela fatta a non rovinare la giornata ai miei ,ovviamente inghiottendo il rospo. E dovevo digerire quell’animale  con qualcosa di sostanzioso, pesante, calorico e sano. Aprii il frigorifero e vidi un pezzo di formaggio di capra.  Pensando al Poeta, una gola leggera si impadronì dello lo stomaco  e cosi decisi per un bel pezzo di pane di granturco al formaggio. Questo tipo di pane spregiato dai cittadini  e indispensabile per i campagnoli , era  preferita degli altezzosi solo ogni tanto e possibilmente appena sfornato. A noi cittadini  era riservato il pane “buono”, quello bianco, di grano, che i rurali lo sognavano.  Per quanto mi riguarda  questo pane era una squisitezza. Per come si  “sbriciolava ” in bocca, per come era aspro e dolce, croccante fuori e granuloso dentro, color giallo di mimose appena fiorite. Mi accomodai al tavolo  e mentre davo delle occhiate spontanee  ai miei che parlavano con passione su l’andamento delle urne, pensavo quale abito  potevo mettere per la serata. Qualcuno mi aveva consigliato qualcosa di femminile, visto il mio perenne abbigliamento maschile, ma ragionando su non mi convinceva, non si  sposava con il mio carattere. Non ero in grado di  essere femminile, e in quei tempi portavo i capelli  sempre corti ,alla Paul McCartney, e uno come Paul McCartney non poteva camminare da donna. Sporgo  la testa sempre in avanti prima che il corpo e i piedi si  spostano per primi. La mia testa era sempre si muoveva in avanti in  confronto al resto del corpo. Questo si capiva soprattutto quando prendevo delle botte un po’ strane e non corrispondenti  ad un andamento normale di un fisico umano. Il fenomeno lo definì meglio mia zia:”  prendi delle botte perché i tuoi arti vanno a spasso ognuno per conto suo!” 

 Dunque successe che sentii un fulminante desiderio , un preciso e maledetto desiderio culinario che dovevo assolutamente esaurire. Non c’era niente  che non andava  con il pane di mais e il formaggio di capra, ma qualcosa mancava, qualcosa che avrebbe dato quel tocco di più ad un nutrimento grezzo e pesante. E pero, era come se una energia perfida ti spingesse verso dove  non dovresti andare mai. Ugualmente quanto la sciagura irresistibile della favola dell’agnellino e la volpe. Era più forte di me, sapevo di che cosa avevo bisogno, cosi che mi sono alzata d’un tratto, mi sono diretta verso il balcone, e, di ritorno in cucina, avevo  un spicchio roseo sulle mani, spicchio  che secondo me bastava. Di nuovo al tavolo e me lo sono goduta accompagnandola con il pane e formaggio. Ovviamente si parla di aglio.

 Quella cosuccia  dannatamente puzzolente tanto quanto gustosa. Sfido chiunque a non  abbinarlo con tutto, ovviamente escludendo i dolci, se non fosse per quell’odore che emette da crudo. Ha quella consistenza biancastra della verdura plebea e umile che conscia del suo valore aspetta pazientemente la vendetta. In fin dei conti  pensai che non era cosi indispensabile  fare colazione con un innocuo spicco d’aglio. Tanto è , che mi alzai di nuovo, di nuovo  al  balcone e di ritorno avevo altri due belli e odoranti spicchi d’aglio. Un insistente pensiero positivo mi sussurrava  che era ancora presto, erano  circa le nove, e tanto lontana alle 18 di sera . Avevo tutto il tempo necessario per  digerirle tutte, e bastava pulire i denti, certo farlo con grande pignoleria, e altri  di quei giochetti che eliminano tutto. Cosa assai improbabile visto che fino a quel momento, l’unica cosa che sapevo con sicurezza era  spazzolare i denti. Ragionando cosi, un ragazza  di 18 anni stava letteralmente perdendo la ragione . Quella incosciente mangiò senza tanti rimorsi un altro paio di spicchi e solo dopo aver sparecchiato il tavolo senti una leggera caduta di entusiasmo. Man mano che passava il tempo, la leggera caduta si trasformò in una depressione, e lei sentendo la depressione si sentì perduta.  Non solo ma anche offesa. Offesa dal suo carattere debole, a suo dire, dalla sua fragilità in confronto ai desideri pungenti e malevoli. Si sentì tradita dal suo stomaco e dalle sue voglie impreviste. Rammentando il misero aglio ragionò che senza una volontà di ferro  non sarebbe andata lontana, e avrebbe terminato la sua vita grassa, inutile e depressa. Offesa di seguito anche dal  fratello, che avvicinandosi per baciarla  si spostò impaurito e le  urlò :
– Ma sei impazzita? Hai mangiato aglio crudo? Che schifo !  Ma ti rendi conto? Questo puzza te la porti  fino a domani mattina! Il minimo dico io!
– Non so cosa mi è successo ! – gli urlai anch’io disperata sentendo che gli occhi cominciarono a lacrimare. Mi sentivo nullità,  amorfa e senza via di scampo.

Gridando peggiorai  la situazione, visto che dalla bocca fuoriuscì  uno tuffo d’aria puzzolente che si scaraventò sul naso felice del mio padre che per caso  si trovò davanti. Il povero uomo sentì quel fruscio di aria fresca d’aglio  rimase come uno sciagurato che si è  appena salvato da un fulmine. Si fermò un attimino per riprendersi e poi prosegui come se niente fosse verso la stanza da letto con il giornale sottobraccio. Godeva sfogliarlo  sul letto e ogni tanto tra una pagina e l’altra con  una penna blu sempre presente sul suo comodino   sottolineava  i testi a parer suo apprezzabili.  Ho ereditato da lui quella sana abitudine di sottolineare e archiviare i giornali  con gli articoli che mi soddisfacevano.
Dunque, la reazione sbalordita di mio padre anche se silenziosa  mi bastò  per capire il danno  procurato a me stessa e a chi mi voleva bene. Iniziai  cosi strazianti metodi per risciacquare la bocca e  inutili sforzi per rigettare il cibo. Spazzolare, grattare, risciacquare, spazzolare di nuovo i  denti, la lingua, il palato morbido e il palato duro. Le labbra pure. Ho fatto di tutto e osato troppo, finché inerte per la stanchezza, la disperazione e per un leggero ma fastidioso mal di testa, piombai sul letto e dormì  fino alle 17. Esattamente un’ora prima dell’evento. Misi i vestiti più graziosi che avevo, una camicetta bianca, una gonna grigia lunga fino alle ginocchia e un paio di sandali leggeri.   Dovevo pennellare  la poetessa che cantava ai ruscelli, alle farfalle, ai passerotti  caduti dal nido e a tutte quelle cose  che andavano di moda a quei tempi .   Prima di uscire, tentai  pure  un riavvicinamento con mio fratello. Gli sussurrai  vicino all’orecchio per testare il risultato e lui  mi sussurrò  :

– Cerca di tenerti lontana dalle persone. Almeno… mezzo metro !

 Cosa che ho fatto. Mi  sono messa all’angolo di un  tavolo lungo, e ho tenuto le distanze da un mio amico poeta.  Alla lunga  si avvicinò preoccupato e mi chiese del mio muso lungo e dei giramenti convulsivi della testa.  Non c’è la feci  a stare zitta e gli raccontai la sventura della mattina .Cosa che lo fece  crepare dalle risate. Dunque, bonariamente,  mi si sedé accanto e cercò di tranquillizzarmi. Mi mise a mio aggio cosi bene che  non percepii ansia quando la presentatrice pronunciò finalmente il mio nome. Quella ragazza splendeva sul palco. I capelli lunghi castani la circondavano fino alle spalle e sui tacchi alti  stava come una farfalla rilassata sopra la punta di una spina. Pensai ai miei sandali etruschi e  ai capelli alla Paul McCartney.  Forse per questo di seguito  diminuì gradualmente il mio sentirmi bene. Mentre mi recavo verso di lei che aspettava sorridente con il premio in mano mi ricordai che non avrei dovuto in nessun modo aprire bocca, se non annuire e sorridere. Perciò  mi avviai disinvolta  pure io e, appena arrivata a destinazione, con una piega gentile del busto  allungai graziosamente le mani  per tirare  il mio premio e ritornare di fretta al mio posto. Ma l’altra  con un cenno da birichina, ritirò  il premio e  disse:

– Ah no no no.… Prima le dobbiamo chiederle una cosa molto speciale! Che ne dice  di guidarci un “valle”?

  Dubitai subito di aver sentito male. Non poteva essere vero.  Ma chiederle un spiegazione mi costava tropo  visto che consisteva nell’aprire  la bocca  e emettere assieme alla risposta  l’odore che tenevo dentro a fatica . La parola “valle” in albanese vuol dire “ danza”, ma non classica, ma neppure moderna. È  una specie di danza popolare e nell’Albania centrale di solito si fa in due. Si svolge più o meno cosi:    appena inizia la musica si dispiega un fazzoletto e lo  si sbatte con movimenti decisamente orientali attorno alla testa, dietro le spalle, intorno alla vita e al sedere. Come se danzando vorresti schiacciare una mosca che ti sta rompendo le scatole. E mentre ci si sforza in modo folcloristico di schiacciare questa mosca invisibile, si deve attorcigliare il corpo e la testa intorno a un punto fisso a casaccio. Un po’ come fa l’orsa di un circo ambulante. Proporre “una valle” ad un’adolescente come me, che aveva fisso sulla  parete della stanza nientepopodimeno  che Ron McGovney  e Axl Rose e fino ad allora  non le era ancora capitata di vedere una vera mucca  da vicino, più che una offesa era un sacrilegio. Sentì soffocarmi e le orecchie che mi tamburellavano . Girai la testa per osservare il pubblico e la cosa mi pare preoccupante. Dappertutto  scorgevo sorrisi compiaciuti, le mani che facevano ok con le dita, e un gruppo di teste pazze che urlavano animati :
– Si! Dai! Muoviti! Valle! Valle!

Persi la testa. Senti le guance scuotersi e la gola diventare come una carta vetrata .Guardavo stupita come la sala era tutto d’un tratto sommersa in una gigantesca onda libidinosa e scatenata.  Tutti, ossia quasi tutti,  aspettavano di vedermi nel  formato più strambo che mi poteva capitare. Questo, credo, fece sì, che quando meno me lo aspettassi a prii la bocca quanto un coccodrillo offeso dai giochini del suo bersaglio, e urlai in faccia alla ragazza:
– Non ci penso neanche! Neanche  se dovessi morire!
Non vidi nient’altro a parte  lei palesemente stravolta e impietrita ad un palmo di mano lontano al mio naso.  La puzza ripugnante che sboccò dalle mie labbra l’aveva sicuramente sbigottita. Rimase cosi, con le sopracciglia elettrizzate e il premio in mano un paio di minuti.  Poi iniziò a  barcollare come se avesse perso l’equilibrio e, dopo una manciata di secondi  scivolò giù evidentemente quasi svenuta. Il regista corse subito in tempo e poté tenerla in modo che scivolasse lentamente. Vedendo quella tenera bellezza  quasi svenuta  che mi scrutava con gli occhi spalancati dal ribrezzo senza poter dire niente, anche a me venne un certo giramento di testa. Non so se per la vergogna, se per la pressione alta o per via delle eccessive emozioni. So solo che mi sentii mancare e piombai sul pavimento come la testa tagliata di un tacchino inoffensivo. Mentre cadevo, ulteriori urla mi circondarono e  presumo che la sala diventò un macello dove un gruppo reggeva la bella e l’altro me. Ossia, la bestia.

Mi ripresi in ospedale al primo piano dove di solido si recano le urgenze. Era un via vai di mercanti  di cibo, di bevande, di coperte in affitto e addirittura di padelle  per fare la pipi per  coloro che  risultavano incapaci a  sopportare la sporcizia delle toilette della struttura . Anche  se medici, infermieri e sanitari  avevano la stessa divisa  bianca, pure chi non conosceva già prima il suo medico, lo poteva identificare  da come camminava lungo il corridoio verso l’ufficio . Da come apriva la porta di quest’ultimo e te la sbatteva sulla faccia se gli stavi correndo dietro.  Nel mio  immaginario  conservo tuttora il ritratto di un uomo alto, con degli occhiali eleganti, relativamente sexy ma non troppo acuto e calmo.
In realtà il mio medico di quella sera  era vecchio e grasso  e ha voluto farmi immediatamente   dei controlli solo perché conosceva la mia mamma. Ragione  per cui  mi trovavo sopra un letto quasi pulito . Girando la testa vidi i miei amici che felici  urlarono:

– Eccoti qua la buzzurra! Aglio e granoturco! La contadina!

Non avevo affatto le forze per  rispondere  e  intanto ero presa a sentire un certo flusso di  pace che mi stava travolgendo, quasi  inghiottendomi dolcemente. Automaticamenterivolsi gli occhi  alla mia destra   e accolsi lo sguardo campestre di un esserino sdraiato come me. Una donna contadina anziana giaceva sopra un letto e mi guardava come se mi fosse stata accanto per tutta la vita . Come se conoscesse  le storie che  avrei vissuto un secondo momento della mia esistenza .  Tutto d’un colpo non sentii più lo schiamazzo dei amici  e un che di favoloso mi attirò verso  lei. Non smetteva di fissarmi con il suo viso pallido circondato da un copricapo bianco e di una aureola effimera ma percepibile. Aveva una gonna blu e  sotto di essa  pantaloni grigi. Sembrava che si  stesse spegnendo senza togliermi gli occhi addosso. Non so cosa faceva sembrare il  suo corpo una massa piumosa e leggera, un’anima fuggevole ma ristretta in una specie di cornice spietata. Come se   contemporaneamente con un altro fisico facesse i  suoi viaggi desiderati da una vita; andasse a spasso nei  campi mai visti e raccogliesse il granoturco, il pomodoro e l’aglio fresco della primavera. Di nuovo in una seconda realtà stava  con me coprendomi di una coperta di lana antica e morbida mentre le mani staccate dal busto lavoravano  la terra da qualche parte dell’universo.
Le mormorai senza che me lo chiedesse:

– Troppo aglio! Pressione bassa! Caput! Svenuta!

Annuì con la testa e apri la bocca sorridendo. Vidi una specie di tana offuscata con un po’ di scogli  gialli di la e di qua. Oh, capii  bene che rimasi  colpita dalla sua bocca oscura, ma non poté parlarmi, solo sorridermi di nuovo. Poi qualcosa mi disse come in un sogno  di dormire sopra un campo di grano, una notte d’inverno dove il freddo diventava la terra calda che accoglieva una famiglia di orsi. Non mi parlò a voce, mi trasmise solo il suo sogno mentre i miei amici giocavano a carte su un altro pianeta, che lo avrei abbandonato da quel giorno in poi. Mi raccontò com’era povera e vecchia e come sapeva cucinare bene con la farina di grano che le mancava sempre. Mi fece vedere una specie di terrazzo dove un gruppo di spose contadine sedute coi piedi nudi  sfogliavano delle cipolle e spelavano delle patate per una specie di festa all’entrata di aprile. Ero lì con  una forte emozione che mi addolorava lo stomaco. In un attimo senti la mia amica che mi chiedeva :
– E’ vero no che il Poeta cucinava gli spaghetti maestosamente?

Non ho ancora capito il perché risposi nervosa scandendo le parole:
– E’  morto povero e affamato! Sapeva cucinare e mangiare con  la fantasia!

Poi con la voce un po’ più bassa aggiunsi:

–  Ma lo sanno tutti ! Qualche volta sparate  delle frottole  altro che “la mamma di Zeqo in cima del coriandolo !  …

Dissi  cosi e girai di nuovo la testa verso la mia nuova amica che non  trovai. Nemmeno il letto niente, solo un vuoto di due metri di lunghezza e mezzo di larghezza, quanto un letto normale di un ospedale a Durazzo. Il muro accanto a noi  era di un grigio scialbo e leggermente spruzzato da schizzi di sangue invecchiato. Qualcuno aveva fatto uno sforzo minimo di pulirle  e ovviamente  aveva peggiorato la parete adornandola a macchia di leopardo di orme rossastre.  Avrebbe potuto essere tranquillamente lei “la mamma di Zeqo”  che  colpita da un malessere  fulminante si arrampicava sulla cima di coriandolo e cominciava a squarcia gola a predire cose strane senza senso e evidentemente tragiche. Suo figlio si chiamava Zeqo, ma il nome della mamma non si è mai saputo, anche se il suo corpo impazzito d’un colpo la lasciò nella memoria popolare  eternamente sulla cima dell’albero. Dopo un po’ capii che la mia anziana era deceduta. Lo sentii per via di due giovani donne contadine con dei  fazzoletti fiorati sui capelli lunghi e fatti a trecce. Si stringevano una all’altra piangendo ed emanavano un forte odore di latte .  Non fui capace di addolorarmi più di tanto. Ero convinta che fosse meglio per lei e che solo cosi poteva fluttuare su campi di ginestre, su montagne e cascine. Ho sentito perfino che era si recata sulla riva di un lago, ho sentito i suoi piedi piccoli e minuti sopra il mio corpo quando si sedette lentamente su uno scoglio e respirò piano e rilassata. Oramai era giovane ed aveva passato il confine dell’impossibile.