La passione del vuoto – Bartolomeo Di Monaco

L’immagine che si fissa nella mente dopo le prime pagine di questa raccolta è quella del protagonista del primo racconto che, presa la bici, s’inerpica sui monti degli “Aghi Neri”, ancora segnati dalla neve e va all’Hotel Till, spintovi dalla bellezza di una ragazza che gli è entrata nel cuore, Carminha.
Questa ragazza è associata nella memoria del protagonista al verso di un uccello di quei luoghi, il Ben Tivì; così noi riceviamo la sensazione che tutto quanto avviene nella nostra vita non si perde mai, non solo perché conservato nella memoria, ma perché esso si è trasferito per sempre nella natura. C’è, ossia, nel complicato sistema dell’esistenza un meccanismo di eternità non percepibile sempre, che resterà anche quando chi ancora lo conserva nella sua memoria sarà scomparso.
In questi ventuno racconti si percepisce, infatti, l’atmosfera rarefatta della ricerca del mistero che avvolge, e spesso determina, i comportamenti umani, siano essi grandi o piccoli, gesti unici o quotidiani, la cui inspiegabilità sottomette ed umilia la nostra spavalderia e ci rende esseri piccoli e vulnerabili.
L’osservazione della realtà è l’imput con il quale l’autore costruisce i suoi racconti, che nel momento della loro articolazione si distaccano dalla realtà, dal tempo e dallo spazio che li hanno generati per involarsi in un altrove indefinibile, e che forse sta perfino dentro ciascuno di noi.
Non sempre questo risultato è conseguito felicemente, e gli esiti migliori si hanno – come accade nel primo racconto ricordato – allorquando la tensione ideale si accompagna e si esprime per il mezzo di una memoria che il ricordo trasfigura e rende universale.
La passione del vuoto”, che è il racconto che dà il titolo alla raccolta, nel momento in cui la denuncia e la lezione morale che ne scaturisce si fanno troppo pregnanti e dolorose, ossia troppo esplicite – come accade anche in “Istantanee italiane” e ne “L’irruzione”– di una contemporaneità tutta ancora da scoprire, non riesce a far recuperare compiutamente alla memoria quella funzione di trasfigurazione catartica che può e deve valere ad ogni latitudine. Ciò riesce invece in “Eriza Bay”, che è, a mio avviso, insieme con “La notte”, “Hotel Till”, “I campanacci”, “Metafore”, tra i racconti migliori, in cui le azioni e gli spazi hanno perso i loro riferimenti per divenire qualcosa di oltre, in un processo di smaterializzazione che li porta ad essere sempre intorno a noi, da qualsiasi punto e in qualsiasi tempo noi protendiamo la nostra osservazione.
La viejamota” si pone all’opposto del precedente racconto “Istantanee italiane”: entrambi hanno uno stesso obiettivo di denuncia, ma questa volta l’autore è riuscito a mettersi da parte e ha fatto parlare la storia, vivificata da un sentimento che sappiamo percorrere l’intimo di ciascuno di noi: il desiderio di una semplificazione della nostra vita, divenuta complessa e generatrice dei nostri mali più profondi. Esso mette allo scoperto una delle ambizioni di Monteiro, che è quella di suggerire a tutti noi una riflessione su di uno sviluppo della società divenuto abnorme ed insostenibile. La puntura dello scorpione che causa tanta afflizione al protagonista di questo racconto, non è altro che il veleno che si scatena su di noi iniettato da un progresso e da uno sviluppo privi di quegli originali valori che furono alla base della nascita della società, le cui conseguenze potrebbero essere quelle descritte, ad esempio, nell’altro racconto “La feritoia e il volo”, in cui il protagonista migrante, sballottato da un universo all’altro, arriva ad affermare: “che la patria dell’uomo è l’uomo stesso, e che il suo territorio va dalla testa ai piedi”, che è, infine, la dichiarazione di una solitudine alla quale ci può condurre, appunto, una società malata.
L’equazione società malata e solitudine si va così imponendo via via tra i temi toccati dall’autore, e il libro si riveste di una malinconia che si accresce a mano a mano che si riduce la speranza. Vittorio, il protagonista del racconto omonimo, mostra lo squallore di una vita che non ha più contatti, se non immaginari e virtuali, con la realtà, e in “Avvio” le conseguenze crudeli di una ipocrisia e di una ingiustizia che nessuno vuol vedere si ripercuotono su di una povera giovane partoriente. È questa la società a cui aneliamo? sembra volerci domandare l’autore quando ci racconta della morte in “Dietro la vecchia casa”. O “Sarà possibile una rifondazione del concetto stesso di esistenza, magari si potrà ridisegnare la vita, facendola diventare un’entità atemporale”? come scrive ne “I campanacci”, che è il racconto di un disperato tentativo di ridestare e rinvigorire la speranza, la sola che può illuminare, come avviene in “Magia”, la nostra vita.
Così, giunti al termine di questo libro, dalla scrittura nitida ed esemplare, ci rendiamo conto che, attraverso le piccole cose del vivere quotidiano, abbiamo posato gli occhi sui significati nascosti, sotterranei forse, che gridano e misurano il livello del nostro smarrimento e della nostra viltà.