Lettera ad Abdelmalek Smari

Caro Malik, mi chiedi “come stai”. Intanto in questi giorni sto trascorrendo qualche giorno di vacanza qui a Lezzeno, dove tu sai è possibile immergersi in un silenzio assordante. Cerco di fare passeggiate per mantenere il mio fisico un po’ in ordine. Al mattino quando mi sveglio vedo le montagne che circondano il lago di Como spesso illuminate dal sole e come ogni volta sembrano, così rischiarate, più vicine, più amiche direi. Lontano qualche cane abbaia disturbato da gatto o dal passaggio di qualche persona che si reca nel proprio orto a raccogliere le verdure che gli servono per il desinare del giorno.
E’ in questo momento che mi piace lasciare l’insieme dei miei tuguri e tuffarmi giù al paese. La scusa è quella di comperare il giornale, ma in effetti lo faccio per poi poter faticare a risalire cogliendo qua e là la variazione della vegetazione e delle piante, perché il nocciolo che qualche giorno prima aveva i frutti ancora verdeggianti, ora li mostra marroncini così che viene voglia di intascarne qualcuno e quell’albero di fico mostra dei frutti da fare invidia, peccato che la parte dell’albero che sporge sulla strada ne ha pochi ed ancora acerbi al contrario di quella che si trova all’interno del campo coltivato. Verrebbe la voglia di allungare la mano ancora più in là per coglierne il frutto delizioso. Ma so che ogni proprietario è geloso del suo albero e di quello che produce e difficilmente lascerebbe che ci sia invasione di campo anche con una sola mano. Penso allora a quella consuetudine, mi sembra fissata per norma civile, per cui ogni frutto che sporge sulla strada può essere tranquillamente colto e ripenso allora alla saggezza dei nostri antenati che piantavano a volte o spesso alberi da frutto quasi sul ciglio del loro campo perché quando fosse cresciuto e avesse dato i suoi frutti, parte di essi fossero a disposizione di ogni viandante che spesso poteva rifocillarsi solo e solamente con quello che la natura e la generosità umana offriva.
Dopo pranzo mi dedico alla lettura o alla scrittura. Non ho panni curiali da vestire come faceva Machiavelli, ma la mente si atteggia ad affrontare e masticare concetti e bellezze estetiche, sì perché ogni concetto, ogni barlume d’arte porta con sé ricchezze di bellezza, l’unica cosa che salverà il mondo ( non ricordo chi ha formulato questo concetto che mi pare fra i più veri). Così pure faccio la sera, anche se qualche volta sono tentato di giocare qualche partita a scacchi con giocatori virtuali.
Caro Malik, ho letto poi il tuo breve saggio concernente alcune considerazioni intorno al mio testo La ferita di Odisseo- “il ritorno” nella letteratura della migrazione italiana. Ho notato che ne hai fatto una lettura accurata anche se esprimi dei pareri essenzialmente su 2 punti: il sottotitolo e il rapporto fra libertà individuale e territorio. Su questi si è focalizzata la tua attenzione e giustamente perché sono i due aspetti che si prestano ad una discussione e sono ancora punti controversi anche a livello generale.
Per quanto attiene al sottotitolo ti do pienamente atto che qualche ragione ti va riconosciuta. Ma è un “sottotitolo” e non un titolo. Se non avessi citato per nulla “letteratura della migrazione” difficilmente si sarebbe capito, se non da parte di chi conosce l’attività svolta da La Tenda a Milano, di chi si stava parlando. Anche quando ho scritto “Letteratura nascente” poi ho messo un sottotitolo altrimenti non si sarebbe capito chi fossero gli attori implicati. Ma su questo problema – se opportuno, necessario, denominare come letteratura della migrazione la produzione letteraria dei recenti immigrati in Italia che si servono dell’italiano per esprimersi – si potrebbe aprire una discussione molto ampia perché ci sono state importanti ragioni per farlo ed altrettante perché si evitasse di farlo. La bibliografia al riguardo è molto ampia. Forse io personalmente e i miei collaboratori non abbiamo voluto intraprendere una lotta di pensiero per una questione che ci sembrava puramente nominalistica e non tanto di sostanza. Ma forse ho e abbiamo errato.
Voglio invece mettere a fuoco il problema sulla necessità della liberazione dell’individuo dal legame dal territorio, che a me pare tu non abbia colto fino in fondo. Intanto, affermare che come gli alberi hanno una radice anche gli uomini hanno un territorio di riferimento quasi come fatto “naturale”, non mi sembra un ragionamento molto stringente. I vegetali nascono dalla terra e alla terra rimangono legati, ma già l’animale che nasce da una madre, se poi non si stacca da lei rischia di morirne. L’uomo nasce da donna, ma se non si emancipa dalla madre non cresce e non diventa un adulto. L’uomo per essere tale ha bisogno di liberarsi dalle proprie origini.
Quanto vale per gli individui vale anche per i popoli e i gruppi umani che devono utilizzare il territorio solo e solamente per i propri bisogni, i quali non hanno bisogno di essere soddisfatti da uno specifico territorio ma da qualunque territorio. Da questo punto di vista gli “zingari” sono un emblema perché soddisfano i loro bisogni in qualunque territorio. Neppure ritengo corretto ipotizzare che la “minorità” presunta degli zingari dipenda dal fatto di non avere un territorio d’appartenenza, ma dal fatto che gli altri popoli li emarginano perché ne hanno paura. Gli zingari fanno sentire un profondo senso di angoscia in quanto ogni giorno pongono davanti agli occhi quanto sia debole la posizione di chi è incapace di maturare e vivere senza un legame con un territorio.
Se facciamo una breve riflessione storica sulla evoluzione dell’uomo non possiamo che considerare il rapporto uomo-territorio come un fatto puramente accidentale che solamente il potere ha voluto consolidare ed esaltare. Ai primordi l’uomo era solo e usava il territorio per i suoi bisogni. La sua fragilità l’ha poi condotto ad associarsi ad altri e formare comunità che man mano si sono legate a specifici spazi. La religione, creata dal potere e da lui utilizzata ha addirittura legato popolo- territorio-divinità. Il possesso del territorio da sfruttare servendosi di altri uomini ( schiavizzati in qualche modo) ha fatto sì che il rapporto comunità territorio venisse sancito e coltivato anche religiosamente.
Solo il monoteismo ha incominciato, senza riuscirci, a cercare di svincolare la divinità da uno specifico territorio. Per farla breve l’avvento della Nazione, della borghesia ha portato alle più estreme conseguenze questo legame. Ma a che cosa serve? A nulla, se non a rendere l’uomo più schiavo. Ogni appartenenza schiavizza. E tuttavia negli ultimi secoli, decenni, l’uomo ha sempre più consolidato la sua sicurezza, che nell’antichità era garantita dalla comunità di appartenenza. Intanto dalla comunità, dal gruppo, man mano l’uomo si è emancipato ritornando ad essere come ai primordi: un individuo. Egli però oggi ritrova la propria sicurezza nel diritto, nella legge, che tende sempre più ad essere mondiale, universale. All’uomo, all’individuo così non è rimasto altro che il suo corpo, elemento unico, inesauribile della sua libertà.
Caro Malik, nell’ultimo numero di MicroMega dedicato al corpo della donna, il filosofo marocchino Rachid Boutayer sottolinea che il riscatto dell’individuo passa attraverso la liberazione dall’appartenenza ad un gruppo, che ancora vuol dire da un territorio.
Né mi pare che valga tanto il tuo ragionamento che così “la letteratura diventa uno strumento che cade a fagiolo per aiutare i predatori colonizzatori a ri-appropriarsi delle loro colonie perdute”. Il problema è che i colonizzatori non hanno bisogno della letteratura, che anzi la temono, essi si appropriano non tanto del territorio, ma si appropriano della libertà di tutti e di ciascuno. I colonizzatori si appropriano delle ricchezze e per farlo non hanno necessità della letteratura.
Inoltre ho cercato di far vedere in tutti i modi che quanto affermavo era valido solo sul piano letterario (più volte l’ho ripetuto), cioè solo, anche se non solamente, nella Letteratura il “ritorno” (tema letterario di millenni) presenta alcune caratteristiche che direi profetiche e che parlano veramente della libertà dell’uomo. Sul piano pratico un ritorno può essere anche enormemente soddisfacente, colma sete di nostalgia, riempie per gli affetti e i sentimenti vissuti in tenera età. Sul piano politico il ritorno (pensa a quello degli ebrei che si arrogano il diritto di impossessarsi del territorio della Palestina ipotizzando un ritorno) ha poi tutta un’altra logica. E’ ancora potere e sopraffazione.
Ma che cosa vuol dire che la Letteratura ( mi sembra di aver visto il fatto letterario in molteplici autori e canoni letterari) ha trattato del ritorno in un certo modo? Io poi ho notato che il tema del ritorno veniva condensato e diventava prioritario per parecchi autori di origine straniera (non chiamiamoli della migrazione). Perché questo?
E perché questo ritorno diventa impossibile. In tutte e due i tuoi romanzi il ritorno non si pone. Perché? Cioè il fatto migratorio diventa irreversibile, se fosse naturale il legame fra uomo e territorio allora anche sul piano letterario comunque si sarebbe posto come fatto imprescindibile e distorcente ogni altra visione.
L’altro fatto da tenere in considerazione è che il legame fra uomo e territorio è una delle principali bandiere delle formazioni di destra e in special modo in Italia da parte della Lega. Che senso ha questo? Se la Letteratura ha un valore profetico, possiamo dire che da millenni la Letteratura sta cercando di svincolare l’uomo dal territorio, consapevole che ogni legame fra l’uomo e il territorio porta a guerre, a indicibili sofferenze per l’uomo. Guarda a quello che è accaduto nella exJugoslavia negli anni ’90, a quello che sta accadendo nell’Ucraina. Che senso ha per Kiev pretendere l’unità territoriale per una zona i cui abitanti al 90% parlano russo e sono di cultura russa? Io ancora non lo capisco.
Caro Malik, non confondiamo poi la casa con il territorio. La casa è un rifugio, un bisogno primordiale di sicurezza. Il territorio è altro, è una costruzione ideologica. nella storia dell’umanità, come detto sopra dapprima c’era l’individuo con tutte le sue necessità biologiche e di sicurezza (cibo, rifugio), poi ci si mette in società e a questo punto arriva il territorio ( non necessariamente perchè i Maia quando il territorio su cui si erano insediati era sfruttato al massimo, lo cambiavano), con cessione di parte della propria libertà e con tutte le guerre per difenderlo e mantenerlo. Rifletti: la portata delle migrazioni nel nostro tempo rimette in discussione proprio il legame fra popolo e territorio, ma specialmente fra individuo e territorio.

E’ lungi da me voler fare un trattato filosofico. Per cui non vado più oltre con le mie considerazioni. Non so se con queste riuscirò a farti cambiare opinione. L’uomo in generale difficilmente ammette i propri torti e anche quando qualche barlume di mutazione avviene nel suo pensiero quasi mai se lo accetta da subito. Ha bisogno di farselo maturare con molto tempo. Spesso le nostre convinzioni sono legate a nostre esperienze affettive ed emotive per cui difficilmente, anche se non del tutto corrette, possono modificarsi. Ma quando un concetto, una nostra posizione può dirsi corretta e quando errata? Penso ancora una volta che il criterio di giudizio passi attraverso il beneficio che altri possono ricavare dalle nostre convinzioni, cioè se queste ricadono positivamente sugli altri uomini allora sono valide e vere, se invece, anche indirettamente, finiscono per nuocere agli altri individui allora mancano della necessaria sostanza che è quella dell’essere per l’uomo e non per se stessi.
Scusami Malik, chiudo perché mi accorgo di aprire un altro campo di pensiero che avrebbe bisogno di maggiore e più intensa meditazione.
Un abbraccio
Raffaele