lingue egemonie diversità

Wilhelm von Humboldt, Georg von der Gabelentz, A. Sylvestre de Sacy, Heymann Steinthal,  Raoul de la Grasserie, affascinanti linguisti presto dimenticati ai loro tempi quando imperavano i Neogrammatici, nella cui scia finivano tutti gli studi di linguistica ottocenteschi, – la linguistica aveva ottenuto da poco uno statuto scientifico rigoroso, – colpiscono per un’eterodossia rispetto al clima dominante che non permise ai loro studi, le loro ipotesi e teorie, le loro raffinatissime elucubrazioni sul linguaggio e le lingue di avere seguito negli interessi dei cultori delle discipline glottologiche della loro epoca.

Riscoprirli come precursori di un modo diverso di intendere la linguistica è un’avventura del pensiero stimolante e sorprendente. Stimolante perché in realtà essi indicarono infinite nuove e feconde direzioni di ricerca, sorprendente perché mostrano ciò che linguisti di oltre un secolo dopo riscoprono, ed essi, con povertà di mezzi rispetto alle possibilità attuali, avevano già capito, e in alcuni casi già teorizzato in modo compiuto.

La linguistica dell’Ottocento ebbe un brusco arresto, quando si scoprì che la Ausnahmlösigkeit o ineccepibilità delle leggi fonetiche era un’utopia (anche perché di fatto applicabile alle sole lingue di cui si  conosca la storia e si abbia documentazione piena e completa, cioè le indoeuropee) e ci si rivolse a un’altra utopia che voleva le lingue sistemi analizzabili per categorie discrete e persino calcolabili all’interno – come Chomsky giunse a dire, – di un dispositivo di acquisizione del linguaggio universale e innato nella specie Homo.

 Le lingue del mondo sono a quanto si dice quasi settemila, ma linguisti della seconda metà del XX secolo giunsero a sostenerle tutte uguali nella struttura più profonda tanto che diveniva inutile studiarne la varietà: bastava analizzare una qualunque lingua per ricavarne l’universalità delle strutture di tutte. Quanto diversa l’impostazione della Verschiedenheit di Humboldt e quanto simile tutto ciò al sogno o al desiderio di annullare le differenze per dominarle tutte!

La riscoperta di una diversa impostazione cambia la prospettiva mentalista mettendo in luce una sommessa e sommersa esistenza di ostracizzati o ignorati spiriti liberi. Del resto fuori dagli schemi presenti nella storia degli studi linguistici riscontriamo filoni di ricerca fuori dalla deriva accademica con i vari Boas, Sapir, Whorf oltreoceano e in Italia e in sordina, ma da non sottovalutare come si è fatto troppo spesso, Alfredo Trombetti, Oddone Assirelli, R. Gatti e una sconosciuta Clelia Vischi con la sua tesi di laurea sulle lingue americane (Vischi 1905), che anticipa Greenberg di poco meno di un secolo. Ma la tendenza all’omologazione della moderna civiltà nata dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale trionfa per decenni e ripercorrerne la storia rivela dati inquietanti non tanto nell’impostazione degli studi teorici, – ogni teoria è pur sempre un’approssimazione e in quanto tale più che falsificabile è proprio falsa – quanto  nelle ricadute pratiche che certe concezioni comportano. Per rendersi conto di ciò valgano alcuni dati a mo’ di premessa.

L’ONU ad esempio riduce un universo di diverse migliaia di lingue a sole sei lingue ufficiali, inglese, cinese, russo, francese, spagnolo e arabo (quattro sono lingue europee). L’UE composta di 28 stati membri con maggiore liberalità ne concede 24. Esse sono: bulgaro, ceco, croato, danese, estone, finnico, greco, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, neerlandese, portoghese, polacco, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese e ungherese. Quattro stati condividono la loro lingua ufficiale (il Belgio il neerlandese con l’Olanda e il francese con la Francia, Cipro con la Grecia, l’Austria con la Germania e il Lussemburgo con la Francia e la Germania). L’Eire utilizza accanto all’irlandese anche l’inglese. Malta infine, accanto al maltese, ha come lingua ufficiale anche l’inglese. Sono tutte? Che fine hanno fatto il frisone e il ladino, l’euskara e il gallese? Il letzeburghese e il sami, il gaelico scozzese e il sardo?  Per citarne solo alcune.

Nel formulare una graduatoria di importanza il linguista americano Nicholas Ostler (2005, 525 ss.) elenca tra le 20 lingue più importanti le seguenti (in parentesi il numero di parlanti x 1.000.000):

Cinese mandarino (1.052)

Inglese (508)

Hindi (487 India settentrionale)

Spagnolo (417)

Russo (277)

Bengali (211 Bangla Desh e India nordorientale)

Portoghese (191)

Tedesco standard (128)

Francese (128)

Giapponese (126)

Urdu (104 Pakistan, in realtà variante “islamica” della hindi)

Coreano (78)

Cinese wu (77 non standard di minoranza)

Giavanese (76)

Telugu (75 India meridionale)

Tamil (74 India meridionale e Sri Lanka)

Cinese yue (71 non standard di minoranza)

Marathi (71 India centrale)

Vietnamita (68)

Turco (61)

È chiaro che il suo criterio è puramente quantitativo e tiene conto delle varietà non standardizzate (vedi il caso del cinese, che nel suo elenco compare con voci diverse per le varietà wu, yue, jinyu, xiang, hakka, min e gan), ciò che spiega l’esclusione dell’arabo, che si collocherebbe al quinto posto per numero di parlanti, ma non è considerato una sola lingua, ma piuttosto scisso in una serie di lingue parlate diverse fra loro (l’arabo egiziano con 46 milioni di parlanti verrebbe così collocato al ventitreesimo posto). Ostler tiene conto anche del tasso di crescita dei parlanti prevedendo un crollo verso le ultime posizioni del tedesco e anche una sostanziale discesa del russo nei prossimi cinquant’anni.

Può essere interessante confrontare gli elenchi di lingue “importanti” proposte da Farber (1991, pp. 144-151) e Soravia (2014, pp. 200-208) che mostrano diversi criteri e impostazioni. Il primo elencando 223 lingue che contano almeno un milione di parlanti, il secondo citando rapsodicamente un elenco di oltre 580 lingue che si preoccupa solo di non escludere alcuna famiglia e di non lasciare aree vuote solo perché vi si parlano decine di lingue ciascuna con un numero esiguo di parlanti.

Comunque tra le osservazioni interessanti vi è che sei lingue della ventina di Ostler sono lingue europee (e altre quattro indiane, indoeuropee). Inoltre, dato che non figura immediatamente, le prime 15 lingue di questa graduatoria, da sole, sono usate dal 50% circa della popolazione mondiale, mentre le restanti seimila e più lingue si contendono l’altro 50%: considerando che dalla ventunesima in poi troviamo pur sempre lingue rilevanti numericamente, come l’italiano, il polacco, il serbo-croato e, fuori d’Europa, il thai, lingue indiane quali gujarati, kannada, malayalam, oriya, panjabi, sindhi con decine di milioni di parlanti ciascuna e, ancora, il birmano, lo hausa, lo swahili, il sundanese, non  ci stupisce che le circa seimila lingue restanti siano rappresentate da un veramente esiguo numero di parlanti e molte, anzi moltissime, resistono nella bocca di poche persone e stanno estinguendosi. Notiamo inoltre che la mole di parlanti asiatici di poche lingue è concentrata nel subcontinente indiano e nell’area cinese, Tra India e Cina infatti scopriamo una dozzina di lingue per il 40% dell’umanità!

Se le statistiche avessero un senso dovremmo dire che ognuna delle lingue del mondo ha a disposizione un milione di parlanti su una popolazione di sei miliardi di individui, ma in realtà decine e centinaia di lingue invece sono in pericolo di estinzione o contano solo poche decine (e talvolta poche unità) di utenti.

Un altro esempio ci fornisce ulteriori dati su cui riflettere. È nota a molti l’Enciclopedia on line Wikipedia. Allo stato attuale essa è redatta in numerose lingue. Esiste una graduatoria che si riferisce al numero di articoli presenti per ogni lingua che vede in testa l’inglese, come facilmente potevamo prevedere, con oltre 4,5 milioni di voci. Seguono:

2) tedesco con 1,5 milioni;

3) francese con 1,3 milioni;

4) neerlandese sopra il milione;

5) italiano con un milione circa.

L’italiano dunque è in buona posizione se si considera che le lingue che seguono sono nell’ordine russo, spagnolo, polacco, giapponese, portoghese e cinese. Stupiscono molte delle lingue che seguono (nell’ordine di 200.000 articoli) trovandovi l’indonesiano, abbastanza ovviamente, ma non ci aspetteremmo forse di trovarvi il vietnamita, il catalano e l’ucraino.

In tutto le versioni di Wikipedia presenti in rete risultano essere redatte in 275 lingue, oltre a esistere una decina di lingue che non sono riuscite a decollare. Vi sono 34 lingue con oltre 100.000 articoli (tra queste il basco, l’estone, addirittura il volapük, una lingua artificiale che nessuno usa più), altre 70 con più di 10.000 articoli, come il thai e il tamil, 105 con più di mille come lo sranam del Suriname, e una sessantina con oltre cento articoli. Ultime della serie il chamorro delle Isole Marianas, il twi in Africa occidentale e il xhosa in Sudafrica.

Dunque, da un lato abbiamo poche lingue seriamente prese in considerazione dal mondo degli affari, della politica, dell’industria, da un altro lingue che si accaparrano masse di parlanti egemonizzandoli linguisticamente. E sono sempre le stesse: inglese, cinese, spagnolo, francese… Lingue ricche e vive sono ignorate e chi dice poi che anche lingue minori non abbiano diritto alla sopravvienza?

Tendenza antica questo desiderio di uniformare il linguaggio a dei modelli prestigiosi. Se guardiamo con attenzione alla storia dell’umanità ci accorgiamo che cinque lingue, fino ai giorni nostri, hanno avuto uno statuto eccezionale come lingue di cultura, e hanno influenzato decine di altre lingue (quando non ne hanno decretato la scomparsa). Esse sono: il latino, il greco, l’arabo, il sanscrito, il cinese. Chissà se nell’antichità tale funzione fu anche di lingue scomparse quali il sumerico?

Dunque il destino linguistico dell’umanità si giocherà su un’omologazione a tre o quattro attori? L’uomo del xxii secolo parlerà cinese, inglese o spagnolo?  Se le diversità sono valori, ci auguriamo che la varietà delle lingue del mondo resista, sebbene sappiamo che la morte di una lingua avviene con frequenze quasi quotidiane (Harrison 2007).

L’Atlante delle lingue del mondo minacciate dell’Unesco riporta che dal 1950 a oggi nel mondo sono scomparse 231 lingue. Dopo l’epoca degli stermini è subentrata l’era della tecnologia a dare il colpo di grazia alle lingue più “deboli”, fatto sta che nel continente australiano, malgrado l’attenzione che oggi si porta alla conservazione delle 150 lingue aborigene ancora in uso quante hanno garanzia di sopravvivere? Non più di una decina e fino a quando?

Ma perché la diversità delle lingue è da considerarsi un valore? Non è un segnale allarmante dell’irrazionalità umana e della confusione che regna nelle nostre menti? Non ci si è forse presentata la torre di Babele come un abominio punito in conseguenza? Ma diverso è ciò che ci consente il confronto e il giudizio e la scelta. Forse la diversità è un valore perché esprime una libertà, nel nostro caso di parola, che è anche libertà di pensiero. Conoscere lingue diverse significa entrare di diritto in mondi diversi, capire diverse Weltanschauungen, capire che l’umanità è composta da individui e non da etichette, che rispettarsi in ultima analisi consiste nel mettere in discussione se stessi e imparare a conoscersi davvero. Parlare oltre alla propria anche le lingue degli altri.

Riferimenti bibliografici

Assirelli, O. (1936),  Profilo linguistico attuale d’Africa, “Scientia” xiv, pp. 151-61

Id.  (1962), La dottrina monogenistica di Alfredo Trombetti, Faenza

Boas, F. (1911), Handbook of the American Indian Languages, Washington

Chomsky, N. A. (1965), Aspects of the Theory of Syntax, Cambridge (Mass.)

Gabelenz, G. (1901), Die Sprachwissenschaft. Ihre Aufgaben, Methoden, und bisherigen Ergebnisse, Leipzig

Gatti, R. (1906-7), Studi sul gruppo linguistico andamanese-papua-australiano, con una prefazione di A. Trombetti, 2 voll., Bologna

Greenberg, J. (1987), Languages in the Americas, Stamford

Grimes, B. F., (ed.) (199212), Ethnologue. Languages of the World, Dallas

Harrison, K. D. (2007), When Languages Die, The Extinction of the World’s Languages and the Erosion of Human Knowledge, New York

Humboldt, W. von (1835), Über der Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues, Berlin

Ostler, N. (2005), Empires of the Word. A Language History of the World, New York

Sapir, E. (1921), Language, New York

Id. (1949),  Culture, Language and Personality, New York

Soravia, G. (2014), Le lingue del mondo, Bologna

Steinthal, H. (1870), Charakteristik der hauptsächlichsten Typen des Sprachbaues, Berlin

Trombetti, A. (1905), L’unità d’origine del linguaggio, Bologna

Id. (1923), Elementi di glottologia, Bologna

Vischi, C. (1905), La glottologia americana, Bologna

Whorf, B.L. (1956), Language Thought and Reality, Cambridge (Mass.)