materiali 1

PRIMA PARTE (chi siamo)
Leggero equipaggiamento autobiografico

Come ho detto nella introduzione a Sulla stessa barca. Antologia, la prima parte del libro, dedicata dai frequentanti a una loro presentazione, è frutto di un aggiustamento di tiro, per superare un momento di empasse della scrittura relativa alla cittadinanza. Essa, tuttavia, risponde a un reale desiderio di conoscersi e di farsi conoscere da parte dei corsisti. Per trovare utili sollecitazioni su cosa e come far sapere di sé, sono stati proposti alcuni testi e quesiti senza nessuna pretesa di metodicità. Lo scopo di questi spunti e indicazioni non era la realizzazione di uno scavo autobiografico, che avrebbe richiesto ben altri tempi e metodi, ma piuttosto il raggiungimento di una immagine di sé da comunicare. Ciascuno dei/delle corsiste ha utilizzato i testi di partenza, che ora vedremo, molto liberamente, scegliendo e reinventando a seconda del ritratto che ha avuto tempo e voglia di offrire di sé. Volendo rendere conto di questo tipo di materiale così asistematico, possiamo tuttavia classificarlo in tre tipologie che ambiziosamente alludono a tre modalità di approccio al proprio passato: ELENCHI (disordinate incursioni), DOMANDE (indagini), NARRAZIONI (ricostruzioni).

ELENCHI

SPUNTO 1

Possibilità

Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare
che l’intelletto ha la colpa di tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlare con i medici d’altro.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi,
da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti
che non mi promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori a fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa
che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccare ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco prendere in considerazione perfino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.

W.Szymborska in La gioia di scrivere: tutte le poesie (1945-2009), Milano, Adelphi, 2009, p.479

SPUNTO 2

Mi ricordo

[…] 10 Mi ricordo che un amico di mio cugino Henri se ne stava tutto il giorno in vestaglia quando preparava gli esami.
[…] 52 Mi ricordo l’epoca in cui un palazzo (di dieci piani), appena finito in fondo all’avenue de la Sœur-Rosalie, era il più alto di Parigi e passava per un grattacielo.
[…] 64 Mi ricordo com’era piacevole, in collegio, essere malato e andare all’infermeria.
[…] 87 Mi ricordo che Caravan, di Duke Ellington, era una rarità discografica e che, per anni, seppi che esisteva senza averlo mai udito.
[…] 99 Mi ricordo che un negozio di alimentari di lusso, in avenue Mozart, vendeva, a caro prezzo, in dicembre, dei cestini di frutta contenenti, in particolare, grappoli di «uva di Natale» molto apprezzata in quanto rara, ovoidale, molto grossa e traslucida, e insapore.
[…] 109 Mi ricordo la moda dei montgomery.
[…] 115 Mi ricordo la terza classe nelle ferrovie.
[…] 117 Mi ricordo che Jean Gabin, prima della guerra, doveva, per contratto, morire alla fine di ogni film.
[…] 125 Mi ricordo che Kruscev ha sbattuto una scarpa sulla tribuna dell’O.N.U.
[…] 133 Mi ricordo che la mia prima bicicletta aveva le gomme piene.
[…] 144 Mi ricordo che non mi piacevano i crauti.
145 Mi ricordo che adoravo Bellezze al bagno con Esther Williams e Red Skelton, ma che sono rimasto terribilmente deluso quando l’ho rivisto.
[…] 161 Mi ricordo che Claudia Cardinale è nata a Tunisi (o comunque in Tunisia).
[…] 224 Mi ricordo che il primo film in cinemascope si chiamava La tunica (e non valeva niente).

G.Perec, Mi ricordo, Torino, Bollati Boringhieri, 2013- cfr. anche M.Mastroianni, Mi ricordo, sì, mi ricordo, film girato da A.M.Tatò nel 1997, e poi Brainard, Mi ricordo, ed. Lindau, 2014, B.Bianchi, Mi ricordo, ed. Fernandel, 2004 G.Guazzaloca, Mi ricordo, ed. A.Perdisa, 2013

SPUNTO 3

I luoghi in cui ho dormito

Tipologia delle camere da letto
1. Le mie camere
2. Dormitori e camerate
3. Camere ospitali
4. Camere degli ospiti
5. Pernottamenti di fortuna (divano, moquette+cuscini, tappeto, sedia a sdraio, ecc.)
6. Case di campagna
7. Ville in affitto
8. Camere d’albergo
9. alberghi di quart‘ordine, camere ammobiliate
a. alberghi di lusso
10. Condizioni insolite: notti in treno, in aereo, in macchina; notti su una barca, notti di guardia; notti al commissariato; notti sotto la tenda; notti d’ospedale; notti in bianco, ecc.

(G.Perec, Specie di spazi, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 32-33)

NOTA

Partire dalla lettura, produzione e confronto di una serie di elenchi può essere senz’altro un piacevole modo per superare resistenze verso se stessi e gli altri. La forma dell’elenco, infatti, è un agevole espediente che facilita la presentazione di sé e il gioco relazionale. Essa libera chi scrive dalla paura di non sapere raccontare, permette di vedersi con autoironia e incoraggia atteggiamenti simpatetici (“anch’io preferisco… anch’io ricordo la stessa cosa…”), come ha sottolineato Roberta Secchi: “Il fatto stesso di scrivere in forma di elenco credo abbia un potere liberatorio: non ci si preoccupa di introdurre, sviluppare e concludere un tema, ma ci si lascia andare al fiume di pensieri e li si lascia scorrere sulla carta uno dopo l’altro, senza porre limiti” (R.Secchi, Ti prendo in parola, Roma, Sensibili alle foglie, 2016).

DOMANDE

Al di là della loro innegabile efficacia, questi “fermo immagine” della memoria sono racconti liofilizzati o sotto vuoto, da cui è stata tolta l’aria del tempo. La loro stringatezza li rende simpatici, ma li immobilizza. Inoltre questi ricordi sono in grado di rievocare un’epoca, ma solo per quelli che l’hanno vissuta. Danno vita ai fantasmi di una memoria collettiva legata a una generazione, a un contesto (in cui tutti sapevano, per esempio, che cos’era un montgomery o conoscevano l’attrice Claudia Cardinale). Essi rappresentano dunque solo un primo passo verso la narrazione e la generalizzazione delle storie.
Scopo degli incontri che hanno prodotto Sulla stessa barca era confrontare le storie di come italiani e stranieri vivono i problemi della cittadinanza, non quelli della loro personalità. L’approccio al discorso autobiografico doveva quindi essere tattico e temporaneo e possibilmente in linea col tema che ci eravamo proposti. Il testo che ho scelto in questa direzione è Il gioco della vita, kit autobiografico, Milano, Guerini e Associati, 1999, che, come dice il titolo, è una specie di gioco dell’oca autobiografico costituito da tappe da percorrere in gruppo. Il libro è stato scritto da Duccio Demetrio, che ha pubblicato numerosissimi libri dedicati all’argomento del raccontarsi. Le domande da me utilizzate, che ora vedremo velocemente, appartengono alla prima parte di questo snello libretto, quella occupata dalle operazioni della memoria relative al “rievocare”, che consiste nel “richiamare dalla penombra dell’oblio cose, fatti, sensazioni, figure” (p.18), che ricevono poi una selezione e una forma più articolata nel “ricordare” e nel “rimembrare”.

In particolare nel gruppo ci siamo chiesti (e abbiamo poi ascoltato le risposte di ciascuno/a)
– quale è stata “la prima volta che…” ( “avete pensato a qualche cosa di importante”, “vi siete sentiti liberi”, “avete provato dolore”… tappa n.3),
– quali sono stati i nostri primi ricordi sensoriali (“Mi ricordo di avere assaggiato… quell’odore… di avere accarezzato… di avere osservato… di avere sentito…” tappa n.4)
– cosa è successo “quella volta che…” ci siamo sentiti… (nel senso di “abbiamo provato la sensazione di essere”) e qui segue un elenco alfabetico di più di trecento stati d’animo, che vanno da “abbacinati” a “vulnerabili” (tappa 8)
– quali sono state le nostre “figure fatali” (tappa 9), vale a dire le persone che hanno influenzato il nostro destino
– quali i “méntori” (tappa 10), cioè coloro che ci hanno formato con i loro consigli o comportamenti
L’uso di questo libro di Duccio Demetrio ha sollecitato nel gruppo altre domande, in parte accolte (e ora documentate nell’antologia), tra le quali quella relativa ai libri che ci sono piaciuti di più.
Gli incontri rivolti alla lettura dei testi autobiografici sono stati sempre molto coinvolgenti, a volte commoventi, ma sempre vissuti con un certo distacco da parte di chi aveva scritto e di chi ascoltava, quasi che il ricordo, ricondotto dentro le convenzioni della pagina, diventasse qualcosa che sfuggisse dal suo autore. Dice bene Battistini : “ Lo scrittore di sé, scrutando in se stesso, indaga su ciò che gli altri non vedono, ma poi, quando quella sostanza eterea è condotta entro il “carcere dell’inchiostro” (l’espressione, ammirevole, è di Renato Serra), la trappola delle parole conferisce all’autoritratto un aspetto un po’ allucinato, come se si vedesse con gli occhi di un altro” (A.Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e Biografia, Bologna, il Mulino, 1990, p.8).

NARRAZIONI

SPUNTO 1

Il mio più lontano ricordo

Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: “Mostrami la lingua!”, io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellino a serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: “Adesso gli tagliamo la lingua”. Io non oso ritirarla, l’uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All’ultimo momento ritira la lama e dice: “Oggi no, domani”. Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca. Ogni mattina usciamo dalla porta che dà sul rosso pianerottolo e subito compare l’uomo sorridente che esce dall’altra porta. So benissimo che cosa dirà e aspetto il suo ordine di mostrare la lingua. So che me la taglierà e il mio timore aumenta sempre più. Così comincia la giornata, e la cosa si ripete molte volte.
Me la tengo per me e solo molto tempo dopo interrogo mia madre. Da tutto quel rosso lei riconosce la pensione di Karlsbad dove aveva trascorso l’estate del 1907 con mio padre e con me. Per il bambino di due anni si erano portali dalla Bulgaria una bambinaia che aveva a malapena quindici anni. La ragazza ha l’abitudine di uscire con il bambino di prima mattina, parla soltanto bulgaro, eppure passeggia disinvolta nelle vie animate di Karlsbad, e ritorna sempre puntualmente con il piccino. Un giorno qualcuno la vede per strada con un giovanotto sconosciuto, lei non sa dire nulla di lui, spiega che l’ha conosciuto per caso. Dopo alcune settimane salta fuori che il giovanotto abita proprio nella camera di fronte a noi, sul lato opposto del pianerottolo. Qualche volta, di notte, la ragazza s’infila ratta nella sua stanza. I miei genitori, che si sentono responsabili per lei, la rimandano immediatamente in Bulgaria. Entrambi, la ragazza e il giovanotto, avevano l’abitudine di uscire il mattino molto presto, e devono essersi conosciuti in questo modo, così dev’essere cominciato fra loro. La minaccia di quel coltellino è stata efficace, il bambino ha taciuto la cosa per dieci anni.

E.Canetti, La lingua salvata,Milano, Adelphi, 1980, incipit

NOTA
Come ho già detto, Sulla stessa barca non intende raccogliere testi autobiografici e il materiale utilizzato in questa direzione è rivolto solo alla costruzione di un breve profilo personale. A questo fine una delle tappe del libro di Demetrio nel suo tour nella memoria riguardava il più lontano ricordo. A quella domanda avevano risposto parecchi illustri scrittori, tra cui Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981. Ovviamente la sua operazione non si limita a salvare dalla dimenticanza un episodio del suo passato, ma contribuisce a renderlo indimenticabile per tutti i suoi lettori. Qui l’intento compositivo prende il sopravvento sul nucleo memoriale: non è più il passato che è portato in vita nel presente e lo plasma, ma, al contrario, è il presente che reinventa il suo passato. Il frammento di memoria si arricchisce di atmosfere (quella tonalità di rosso che pervade tutto), di personaggi, spiegazioni. La lingua salvata dal bambino in quel primo, lontanissimo episodio, si carica a posteriori di significati simbolici, di allusioni alle numerose lingue praticate dallo scrittore, alla salvifica presenza della lingua letteraria… Sarebbe quindi ingenuo credere alla totale sincerità di questo ricordo. “L’infanzia vera è quella che scegli da grande” diceva un personaggio di Tabucchi (Si sta facendo sempre più tardi. Milano Feltrinelli, 2001, p.165) come a dire che il ricordo del passato è sempre frutto di una ricostruzione che ne fanno i bisogni, desideri, stati d’animo dell’adulto.

SPUNTO 2

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie!
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!
E diceva: – Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste a una table d’hôte in Inghilterra, vi manderebbero subito via. […] Noi siamo cinque fratelli.
Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso.
Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti.
Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia.
Ci basta dire “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole.
Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo.
Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà
– Egregio signor Lipmann, – e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: – Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!

N.Ginzburg,Lessico familiare, Torino, Einaudi, 1963 incipit e p.20

NOTA

Il testo della Ginzburg apre un discorso, sull’importanza della lingua nella costruzione della persona e del suo mondo, a cui ho accennato altrove Qui dico solo che ci sono molte persone che, come Elias Canetti sopra citato, sanno parlare molte lingue, ma senz’altro tutti noi ne possediamo due: quella che conosciamo e quella che abbiamo imparato (Ng?g? Thiong’o, Decolonizzare la mente, Jaca Book, 2015). La lingua che conosciamo è quella legata alle persone con cui siamo cresciuti, ai luoghi dell’infanzia, alla formazione della nostra mente, dei nostri sensi e dei nostri affetti. La lingua che abbiamo imparato è quella della grammatica e del galateo, delle relazioni e dei ruoli sociali. Si può imparare una lingua senza conoscerla e, viceversa, conoscerla senza averla mai imparata. Le due lingue possono essere fra loro molto distanti (la lingua madre/la lingua di un altro paese, il dialetto/l’italiano) o possono sovrapporsi. Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, nella lingua che conosciamo resterà sempre uno spazio speciale, privato, che ospita alcune espressioni, il lessico familiare appunto di Natalia Ginzburg, che solo per noi e per i pochi che con noi le condividono, costituiscono delle “parole d’ordine”, dei lasciapassare che permettono di entrare in contatto con un mondo che con noi vive e con noi sparirà, che solo noi possiamo custodire, anche se non lo possiamo conoscere completamente.