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L’italiano come scelta d’espressione letteraria

Procediamo con ordine. La scelta di esprimersi in italiano è dettata da numerose ragioni, ma forse la spia più significativa viene consegnata dalle parole di Tahar Lamri: “Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera”[1]. Lamri sembra contrapporre il monoteismo della lingua materna al paganesimo della lingua straniera. Contrappone alla coercizione (“protegge”) della lingua materna, la libertà della lingua straniera. La lingua materna fa rimanere nell’ambito della dipendenza, della non maturazione, la lingua straniera conduce alla libertà se non alla liberazione. Il compimento della migrazione non può che essere il pieno possesso della lingua d’adozione che si manifesta compiutamente solo nella produzione letteraria. Ogni migrazione può essere vista come un percorso di maturazione da una condizione di servitù ad una condizione di libertà, un po’ come il processo dell’esodo per gli ebrei schiavi dei Faraoni nell’antico Egitto. Il possesso della lingua altra diventa il segno, il marchio, la testimonianza, della rottura dai ceppi costrittivi precedenti.

È chiaro che questa è una posizione radicale, ma una concezione simile la esprime Julio Monteiro Martins il quale afferma: “l’italiano è invece la mia prima lingua, perché prima lingua è quella in cui lo scrittore scrive, ma non solo, è quella in cui l’uomo che fa il mestiere di scrittore sogna, si arrabbia, dice una parolaccia quando incappa in un sasso, balbetta per se stesso parole ‘innamorato.  È…niente è più naturale per me che scrivere in italiano”[2]. Julio Monteiro arriverebbe quasi ad una rimozione della lingua madre. In fondo anche per lui la lingua straniera è una forma di libertà.

Ed è altrettanto vero che scrivere in italiano era per l’intellettuale migrato l’unica possibilità di entrare a contatto con il mondo culturale italiano. Agli esordi quella che noi chiamiamo Letteratura Nascente vuol proprio essere una dimostrazione di esistenza dell’immigrato, di una esistenza non solo di forza lavoro, ma di cultura, di fatica, di percorso religioso. Gli inizi di questo genere di letteratura avvenuta a “quattro mani” dimostrano anche la necessità morale del mondo culturale autoctono, socialmente impegnato, di demarginare l’immigrato e ricollocarlo nella sua dimensione di persona. È quasi un gioco di rispecchiamento perché se da una parte si vuole reclamare il diritto all’esistenza dignitosa, dall’altra c’è un plurivischioso desiderio di difesa e/o ostentazione di presupposta civiltà, oscurata da rigurgiti e rinascenti razzismi. Esiste allora a questo riguardo un reciproco utilizzo dell’immigrato nei confronti dell’intellettuale, giornalista, scrittore autoctono e dell’italiano nei confronti dell’immigrato che lo usa per riconquistare una presunta o perduta innocenza, neppure “sporcata” da un rimossa e oscurata esperienza coloniale, che allora, alla fine anni ’80-inizio anni ’90, era ancora generalmente e subdolamente veicolata come scarsa o di nessun rilievo in confronto alle politiche duramente colonialistiche di, ad esempio, inglesi e francesi.

[2] D. Bregola, Da qui verso casa 2002, Iannone pag.11

[1] Tahar Lamri, I sessanta nomi dell’amore, Fara Editore, 2006, pag 6-7