Rémy e Virginia

Impossibile dire se la beatitudine diffusa tra i passeggeri fosse reale, o se per qualcuno di loro si trattasse solo di una lieta autoimmagine d’obbligo. Il fatto è che il traghetto si spostava come un tempio semovente tra quelle due grandi isole dell’Egeo. Non si sentiva niente oltre il rumore felino del motore e le grida attutite dei gabbiani. Anche i rari bambini presenti sullo scafo erano stranamente silenziosi, guardavano il mare pensierosi, disegnavano, manipolavano piccoli giochi elettronici o si mangiavano tranquillamente le unghie.
L’isola precedente li aveva sganciati tutti dalla routine infernale delle loro città d’origine. La prossima isola rappresentava il passo seguente, una promessa di placida felicità che sarebbe arrivata insieme alla brezza tiepida del primo mattino.
Rémy era sdraiato sulla panchina di legno della parte coperta del traghetto, con la testa posata sulle cosce di Virginia che gli accarezzava i capelli ricci, la fronte, mentre guardava l’orizzonte e le nuvole dal finestrino. Rémy aveva gli occhi chiusi e godeva di quello che sembrava l’arrivo del dormiveglia ma non era che puro stato di grazia.
Un bambino tedesco ogni tanto allontanava il suo sguardo dai fumetti e guardava a loro insaputa quella coppia diversa, lei bionda, occhi verdi, la pelle chiarissima in parte nascosta dalla tunica verde acqua, lui nero, un po’ stempiato, alto come un giocatore di pallacanestro, le mani enormi, in sandali, jeans sbiaditi e canottiera bianca aderente.
Strane cose accadono nella testa dei bambini: in quella del piccolo Christian comparve l’immagine di un dinosauro con un becco nero e il corpo ricoperto di piccole piume. Aveva letto recentemente su un sito Internet che i dinosauri non si sono estinti ma si sono trasformati negli uccelli di oggi. Il suo cuore accelerò i battiti al ricordo di quell’insolita scoperta.

Ora Virginia e Rémy erano soli in quella parte del ponte. Il piccolo Christian aveva abbandonato la coppia e i fumetti ed era andato sulla prua per osservare i gabbiani.
– Amore, quando riusciamo ad allontanarci da tutti e non abbiamo più nessuno tra i piedi, almeno nessuno che conosciamo, stiamo proprio bene, vero?
– Vero – rispose la donna.
– Non è il viaggio che ci fa bene, secondo me. È l’isolamento. È avere il raro lusso di non sentirsi osservati e giudicati, non avere quegli sguardi addosso.
– Hai ragione, tesoro. Anch’io provo la stessa cosa. È come levarsi di dosso un macigno. Ma prima o poi dobbiamo tornare e affrontare le cose a casa nostra, no?
– Affrontare i tuoi genitori, per esempio.
– I miei genitori, per esempio.
– Che palle.

La notte precedente Rémy aveva sognato Virginia ma non le aveva raccontato niente. Non avrebbe saputo come raccontarle un sogno talmente bizzarro in una sorta di cucina in una vecchia casa in Grecia. Lei lo chiama per mostrargli qualcosa, apre la borsetta e tira fuori il suo vecchio pene. Sì, vecchio, perché lei glielo aveva tagliato quando avevano fatto l’amore per la prima volta, e lui era convinto che lei allora l’avesse buttato via. Invece no. Virginia l’aveva conservato. Lui guardava con stupore e schifo il suo pene tra le mani di lei e diceva: “Dài, buttalo, che me ne è già cresciuto un altro, lo sai. Questo è il vecchio, è marcio, buttalo.” Ma lei non lo ascoltava. Accarezzava tra le sue dita il membro staccato, d’un brutto colore, pallido ed esangue. Allora, lui glielo prende dalla mano e lo getta nel bidone della spazzatura, tra bucce di patata e gusci di uova. Poi le dice: “Lascialo lì. Non riprenderlo. Se lo vuoi, ho questo qui che è nuovo. Quello era morto. Te lo ricordi, no? L’hai tagliato tu stessa…”
Il sogno Rémy lo rammentava vivamente, nei minimi dettagli. Ma come descriverlo? E poi, non se la sentiva di avviare tutta una lunga serie di analisi simboliche, speculazioni e digressioni sul suo pene. Sapeva bene che né lei, né forse nessuno, avrebbe sprecato un argomento così goloso per indagini mentali come quello della castrazione simbolica. Meglio lasciar perdere, pensò, mentre la linea tra il mare e il cielo s’irrobustiva sempre di più finché non si svelò l’isola del suo destino.

Solo il  giorno seguente all’arrivo sull’isola, una domenica o un lunedì, Rémy e Virginia uscirono dall’affittacamere per la prima volta. Percorsero lentamente, abbracciati, l’unica strada del villaggio, e si fermarono in una sorta di bar all’aperto per un bicchiere di ouzo Mistral, il loro favorito. Scelsero un tavolino sghembo sotto un grosso ippocastano, appartati dagli altri turisti. Sull’insegna del bar c’era dipinto un leone con una zampa su uno stemma. A Rémy non era sembrato una cosa molto tipica. Forse un’immagine turca? Sembrava piuttosto quasi veneziana, anche se al leone mancavano le ali.
– Rémy, che tu non accetti il pregiudizio dei miei nei tuoi confronti lo capisco bene. Ma se tu mi dici che non riesci a capirli, che non capisci che persone come loro, d’altri tempi, cresciuti in provincia, si sentano a disagio in questa situazione, allora per me questo è un tuo limite.
– Non c’è niente da “capire”. Un preconcetto irrazionale non è qualcosa che uno deve “capire”. È qualcosa da rifiutare e basta. Loro sono sbagliati. Non puoi chiedermi di essere complice del loro errore. Puoi chiederlo a chiunque altro, ma non a me, chiaro? Ci sono già abbastanza oppositori dall’altra parte, troppa gente a remarci contro, ed io sono praticamente solo da questa parte, a difendere la cosa giusta, a difendere noi.
– Capisco.
– Tu non devi “capire”. Tu devi stare dalla nostra parte incondizionatamente, al cento per cento. O vuoi lasciarmi solo in questa storia? Nella nostra storia?
– No, amore. Certo che no. Ma lo sai anche tu che io sono divisa. Che non ho alcun preconcetto, ma che soffro vedendo soffrire i miei genitori. E poi tutte le mie amiche sono scomparse così, all’improvviso, perché non vogliono accettare che io stia con te.
– Ma che razza di amiche sono mai queste?
– Le amiche che ho. Amiche da quando eravamo bambine. Sono loro la mia vera famiglia.
– Ah, sì? Bella famiglia. Ti hanno lasciata sola quando più avevi bisogno del loro appoggio…
– È vero. Ed io soffro molto per questo. Mi viene quasi da piangere. È una grande delusione. Ma loro sono così, che cosa ci posso fare? Sono i loro limiti.
– Chiami “limiti” il loro razzismo?
– Non il razzismo. Non credo che siano razziste. I miei genitori sì, ma loro no. Loro… sognavano una cosa diversa per me, forse. La speranza del ragazzo ideale. O almeno accettabile…
– Allora io non sono accettabile.
– No, per loro tu non sei accettabile.
– Perché sono nero?
– Perché sei diverso.
– Sono stufo di questa storia. Sembra una storia di due secoli fa. Qualcuno dovrebbe ricordare a questa gente che siamo già entrati nel Ventunesimo secolo. Non guardano mai la televisione, questi?
– Smettila, e cerca di capire.
– Io non cerco proprio niente. Ma ti rendi conto? Tocca a loro fare i prossimi passi.
– Non li faranno mai.
– Allora sarà così. Ognuno con la sua vita. Tu sarai con me, no? Spero bene, almeno questo…
– Sì, sarò sempre con te, amore mio. Ma mi dispiace tanto dover rinunciare a tutte le persone che amo per te… Ma dovrà essere così.
– Dispiace anche a me. Davvero.
– Lo so.
– Queste conversazioni mi fanno male. Mi buttano giù, con l’autostima a zero. Mi sento una sorta di mostro, di aberrazione.
– Tu non sei un mostro. Sei bellissimo. E forse questo è parte del problema. Anzi, sono sicura che questo è una buona parte del problema.
– Sì?
– Sì, tesoro. E poi, non è il colore della tua pelle ciò che più gli fa rabbia. È l’amore. L’amore vero sconvolge tutto, fa incazzare tutti. La gente accetta di vedere al cinema un’imitazione dell’amore piena di cliché, ma quando lo vedono dal vivo, nella vita reale, diventa qualcosa di insopportabile.
– So che vuoi dire.

Dieci anni prima di questa conversazione, Virginia aspettava la morte rinchiusa nel bagno di casa sua, dopo aver ingerito decine di pasticche di un forte sonnifero, quando il fidanzato della sorella riuscì a sfondare la porta e a condurla al pronto soccorso. Diversi giorni in prognosi riservata, stato di semi-coma. I suoi ed il suo ex ragazzo circolavano in ansia nei corridoi dell’ospedale senza scambiarsi parola, evitando inutilmente di incontrarsi. Tempo prima i genitori di lui gli avevano proibito di vederla non giudicandola “socialmente adeguata” al figlio, e allo stesso tempo i genitori di Virginia proibivano alla figlia di uscire di casa per evitare che s’incontrassero di nascosto. Lei si era trovata in mezzo a quel fuoco incrociato fra genitori indispettiti ed un ragazzino dal carattere debole, ricevendo lei, alla fine, il piombo di quegli spari. Ma i medici erano riusciti a salvarle la vita, e nei mesi successivi tutto si era dissolto.

 – So che vuoi dire.
Tante cose importanti su di sé Rémy non aveva raccontato a Virginia, almeno non ancora. Per esempio, non le aveva mai detto che una sua ex fidanzata, anni prima, era rimasta così turbata dalla pressione fatta contro di loro dalla sua famiglia, per la stessa ragione, che non volendo arrendersi era crollata in un modo particolare (ma per niente inconsueto): si era schiantata con la macchina contro un camion fermo sul ciglio della strada. Il volante, colpendole il mento, le aveva fratturato la mascella. Ricoverata in ospedale, senza poter parlare né mangiare, sofferente, spaventata a morte, era ricaduta nell’orbita autoritaria dei genitori e non aveva avuto più la forza per imporre loro la presenza di Rémy. Uscita dall’ospedale, riprendendo la vita normale, tutto era già molto diverso. Lei non poteva più vederlo. Il semplice fatto che lui esisteva la umiliava, evidenziava la sua debolezza e la sua sconfitta. Aveva cominciato a nascondersi da lui come un ladro ricercato dalla polizia.

– So che vuoi dire.
– L’amore in sé è percepito come una trasgressione, quasi un delitto, se è quello vero, se non è solo una parodia, come quelli degli sceneggiati, o un adeguamento rassegnato alle circostanze.
– Torniamo in albergo?
– Sì, amore. Stavolta l’ouzo l’offro io, va bene?
All’uscita del baretto passarono di nuovo davanti al leone che reggeva orgoglioso lo stemma, e Rémy non poté non pensare che quello avrebbe potuto essere lo stemma di una nuova famiglia, nata in quel bar ellenico, sotto l’ippocastano, di cui lui, Rémy, sarebbe stato il patriarca.

Quando ricominciò la scuola, nella quarta elementare dell’Istituto Robert Schumann di Wiesbaden, la maestra chiese ai ragazzi di scrivere una composizione sulle loro vacanze estive. Christian non dimenticò di inserire nel suo testo la descrizione della strana coppia con la quale aveva viaggiato in traghetto, un uomo nero alto alto, con la testa posata sulle gambe di una donna greca o italiana molto bella, con la pelle bianca e gli occhi di un verde trasparente, limpido. Poi gli venne in mente di scrivere qualcosa sui dinosauri che mettevano le piume trasformandosi in uccelli colorati, ma pensò in tempo che forse non c’entrava con l’argomento della sua composizione. Allora mise il punto finale e iniziò a copiarla in bella.