saggio su julio – Milva Maria Capellini

VITA, MORTE E PERMANENZA DELL’AUTORE

 Il concetto di morte dell’autore mi è stato presente nel periodo abbastanza lontano in cui indagavo – sforzandomi di dare respiro a uno studio piuttosto asfittico – i meccanismi compositivi di uno scrittore otto-novecentesco dalla biografia antipaticamente ipertrofica. In quel caso, la debordante quantità di fonti e la rapacità delle procedure finivano paradossalmente per consentirmi quella libertà totale di fronte al testo sancita da Barthes: se l’autore è morto, se non esiste, allora egli si riduce a puro spazio di intersezione di linguaggio, di citazioni, di ripetizioni, di echi e calchi che il lettore è autorizzato a interpretare senza soggezione alcuna. Infinita polisemia del testo, infinita ermeneutica del lettore. Mi innervosiva, però, il rischio della confusione tra autore in senso biografico (o storico o sociologico) e autore in senso, appunto, ermeneutico; al tempo stesso, mi appariva assai interessante la relazione – possibile soluzione dell’intera faccenda – tra autore e intenzione (può essere l’intenzionalità il criterio dell’interpretazione?).

Tanta passione per l’argomento non mancava di una ragione contingente (e leggermente meschina): la cancellazione dell’autore prometteva infatti, all’epoca, di lenire una mia piccola sofferenza, nata da certa alterigia di autori vivi ma insofferenti di qualsivoglia lettura critica, per ostilità nei confronti del critico in senso biografico (o storico o sociologico) e per indifferenza nei confronti di ogni sua possibile intenzione interpretativa. Sofferenza, certo, sebbene piccola: perché, alla fin fine, con buona pace di ogni post-strutturalismo e post-umanesimo, scrittura e lettura sono pur sempre roba da esseri viventi.

Alla fine della ricerca, comunque, il quadro metodologico mi parve delineato, sebbene con qualche ambiguità: dell’autore morto in senso biografico (e storico e quindi sociologico) va studiato il testo come se fosse morto anche in senso barthesiano-foucaltiano, includendo le sue attività biografiche come pure funzioni di un metodo di interpretazione (i libri che ha letto, gli appunti che ha preso e via dicendo); dell’autore vivo, invece, non va studiato nulla, per non incorrere negli strali della sua intolleranza all’atto critico.

Conoscere Julio, ascoltare le sue parole, leggere i suoi libri portò scompiglio in quel mio quadro, rimescolando le carte, mettendo perentoriamente al centro la questione della presenza dell’autore. Con il suo carico di vita e di cultura, con la sua molteplicità di linguaggi e di orizzonti e anche con la sua cordialità di ascolto e intervento e dialogo, Julio incarnava il nodo buono tra autorialità e intenzionalità: l’intenzione della letteratura appariva ed era in lui talmente ricca, fertile e consapevole da non aver bisogno né modo di eclissare l’autore dell’opera. In questa pienezza di intenzione e di esistenza, trovava spazio e ragione perfino un’attitudine amichevole verso i critici: anche nella Macchina sognante, il suo ultimo libro (per noi prezioso testamento, nel senso di atto autentico), egli afferma la riconciliazione tra scrittura e lettura in nome dell’intelligenza: “mi commuove, come esempio di generosità e di amore per l’arte, vedere qualcuno che rivolge la sua intelligenza alle opere di altri, in un mondo e in un ambiente letterario così inzuppati di narcisismo”.

Ma – naturalmente – il nodo tra evidenza dell’autore e incisività dell’intenzione ha, nell’opera di Julio, ben altra forza e persistenza, poiché si trova nel cuore stesso della funzione che alla letteratura è propria: la contestazione radicale della morte, l’affermazione instancabile della vita. L’autore non muore (al di là di ogni antica illusione circa la possibilità eternatrice dell’arte) perché il suo compito è quello di tenere a bada, con le sue parole, la morte, di guardarla in faccia e smascherarla e con questo scongiurarla e redimere i mortali. Per fare questo – nei molti modi di cui la letteratura è capace* – serve  l’autore e serve l’intenzione, nel loro nodo tenace.

La fedeltà della scrittura di Julio a questa funzione – antropologica prima che culturale – di salvaguardia e di salvezza è sempre stata oltremodo chiara in ciò che ha scritto, se anni fa, recensendo il suo libro che più mi è caro, L’amore scritto, mi pareva di dover sottolineare il valore salvifico dell’amore nel bellissimo Antenne**, “asciutta allegoria della vita che scivola inesorabilmente verso il vuoto ma lascia i propri semi amorosi contro la morte”. E non mi prenderei la grossolana licenza dell’autocitazione se rileggendo oggi, come rituale di congedo, quello stesso libro, non avessi ritrovato in ogni pagina, in ogni riga, questa precisa, limpida intenzione dell’autore: testimoniare che la vita si può custodire e preservare anche quando sembra tardi, quando il tempo sembra finito, quando tutto sembra finito, quando tutto è finito davvero. In questa testimonianza – questo oggi mi appare certo – si annodano l’autore e la sua intenzione, la biografia e il testo, la scrittura e la lettura, senza più inimicizia o discordia, senza più nulla di superfluo.

Ripercorrere l’opera di Julio per rintracciare questo motivo guida – l’esorcismo della letteratura contro la morte: il più universale, il più estremo e definitivo – porterebbe, certamente, frutti abbondanti. Si rammenti per limitarsi a un solo altro esempio, sempre tratto dall’Amore scritto, l’ode struggente dedicata, in limine mortis, al mondo e alla vita:

Oh, mondo, spettacolo immenso. Gli sguardi più belli se ne vanno mentre altri ancor più belli si presentano. Dove ti porteranno, mondo mio, in quale nulla? E poi, come farai senza di me? Chi ti guarderà come ti ho guardato io?

 Ma è ancora La macchina sognante a offrire tematizzazioni, rilievi inequivocabili di un filo ininterrotto di senso e di esplorazione: l’icona materialista della colomba che scompare, per esempio:

Quello che la colomba rappresenta non è l’anima che vola verso il cielo bensì l’idea del vuoto, del nulla: l’uccello spicca il volo – come abbiamo già visto tante volte nei parchi durante la nostra infanzia – e cosa rimane al suo posto? Il nulla, il vuoto. Attorno c’è il vuoto totale, ma anche in alto l’uccello non c’è più, e scomparso, non si sa dov’è andato, forse si sarà nascosto tra i rami degli alberi o dietro il tetto delle case, ma nessuno ci pensa dove sarà andato, scompare e basta. E il fatto è che questa metafora per niente religiosa è aderente alla nostra percezione della morte. Fernando Pessoa diceva che “morire è non essere più visto”. La colomba bianca che si alza in volo è un segno della sua imminente e completa assenza, e non ci sono ipotetici “nidi” nell’aldilà.

Ma anche l’immagine “sensista” del frutto:

 Un frutto, nella sua invitante carnalità, è promessa di marciume, di disfacimento. Il frutto maturo, già morbido e dolce, è apice, e come ogni apice, è confine. Un frutto avvolge il seme e lo nasconde: un albero in potenza è il segreto del frutto. Per la rivelazione del segreto, del seme, per risvegliarlo dalla sua recondita letargia, bisogna che il frutto marcisca, si spacchi, rinunci alla condizione di frutto e scompaia. Molto di questo percorso lo fa l’uomo stesso, nella bellezza della gioventù, nella maternità, nella potenza, nella malattia, nella morte, nell’eredità biologica e spirituale.

 E più di tutto, con quella virtù di dolorosa anticipazione che egli stesso riconosceva nei grandi scrittori (Kafka che “prevede” l’universo concentrazionario: oggetto di una sua lezione di scrittura di quasi vent’anni fa), la meditazione sulla simultaneità del tempo – riconosciuto come tema al tempo stesso letterario e filosofico – e sull’impotenza della morte:

E così, ancor prima di scrivere le mie prime poesie, che sono del 1968, posso affermare che il tempo è stato il mio primo “problema letterario” – o meglio, in quel periodo ancora soltanto un “problema filosofico” – e lo è tutt’ora, in modo che non riesco più a dissociare la mia creazione dalla questione del tempo. Anzi, più mi avvicino alla mia morte, più diventa cruciale questa questione, perché se è vero, come credo, che il tempo non esiste e che tutto accade “simultaneamente” – fatto del quale il déjà vu è un assaggio miracoloso, anche se sarà solo un fenomeno elettrico del sistema nervoso centrale – allora io non morirò, perché anche nella morte e oltre la morte sarò sempre vivo in ogni momento vissuto, e tutti i momenti sono e saranno intangibili, integri come il presente. In altre parole, sarò sempre lì dove un giorno sono stato, sempre e anche adesso, perché adesso e sempre sono la stessa cosa, e contro questo la morte è impotente.

 Contro questo, sì, la morte è impotente.