UNA BATTAGLIA ANONIMA E SOLITARIA ovvero sia VARIAZIONI SUL CENSORE IMMAGINARIO

All’uomo moderno, che è povero e dimentica che  potrebbe essere forte,
nego il diritto di misurare il futuro e                                                       
il  passato con il suo metro di misura    
Czeslaw Milosz, La mente prigioniera

La libertà è la condizione della vita degna
dell’uomo, ma la sua realizzazione al di fuori della patria
è come la conquista dell’astrazione.
Ljiljana Šop, Est e Ovest di Czeslaw Milosz

1

       Fer, mio amico udinese – Ferdinando è troppo lungo, sia per me che per lui – mi telefonò alla fine dell’autunno scorso. Da lontano, disse con un riso fugace, interrotto da una tosse alquanto insistente. Questo novembre friulano, più caldo che mai, in Carnia è diverso. Il freddo è già arrivato, e nell’aria quasi si avverte l’odore della neve. Un villaggio, sette – otto anime, quello è il luogo del suo esilio, volontario e troppo long story per raccontare. Così ci guarda da una ‘certa altezza’, a cui vanno aggiunti uno – due metri di libri che, quando li lesse da giovane egli pensò di non aver compreso a fondo.  Non dovrei stupirmi di quella tosse, mi dice, essere settantenni nella vita reale non è come nelle pubblicità, dove gli anziani saltano recinti e flirtano con le ragazze in minigonna. A stupire lui è ben altro. Non appena pensai che mi avrebbe detto qualcosa sull’insorgere di fili spinati lungo le frontiere dei paesi europei, oppure sugli ultimi attentati di Parigi, egli rimarcò come un certo silenzio, in Europa, e così anche in Italia, si fosse accumulato intorno ad uno scrittore. Quest’anno avrebbe compiuto ottanta anni.

    Lui, Danilo Kiš[1].
Per quanto a sua conoscenza, nessuna delle università italiane aveva dedicato attenzione a questo anniversario così importante, uno di quelli che non dovrebbero essere solo un ‘pro forma’. Per quel che ne sa lui, se ne parlò un po’ a Parigi, presso l’ École des hautes études.
Presi paura che Fer potesse di nuovo raccontare dei baroni universitari e del loro egocentrismo di esperti, un racconto abbastanza esatto ma inutile perchè le parole non muovono le montagne.
Che fortuna! Nulla di ciò accadde e lui tornò all’argomento Kiš.
Per i tipi della casa editrice Adelphi, sette delle sue opere[2] sono apparse in italiano – anche questi libri Fer li ha trasferiti lassù. Nell’ultimo periodo Fer torna più spesso a Homo poeticus di Kiš e si ferma al suo breve saggio Censura/Autocensura. Ecco, non c’è più l’Est comunista, non c’è più la Jugoslavia, ma Fer è occupato dal dilemma quanto è attuale quel saggio di Kiš in questo ’mondo migliore’ in cui, se si parla di censura, il discorso torna sempre ai media come se dei servi trovassimo solo là. Avendo detto che non gli risultava chiaro il come mai la ’cosa’ gli fosse sfuggita, mi pregò di rileggere il saggio dello scrittore e scrivergli una lettera, di quelle vere – con francobollo.
Questo scritto lo devo a Fer e alla mia risposta non breve, affrancata e spedita a lui in una busta vera.

2

Il saggio Censura/Autocensura [3]  di Danilo Kiš è la sua relazione scritta per un convegno organizzato dal Federation for Human Right, a Budapest, il 16 Ottobre 1985.
Lo apre con la domanda posta a sé mentre nel periodo dell’apice degli eventi nella Polonia e del divieto del sindacato Solidarność’ ricevette una lettera con il timbro NIE CENZUROWANO (non è censurato): Che cosa volevano dire quelle parole? Probabilmente che nel paese di provenienza non esisteva la censura.
A questo punto della lettura Kiš tossì, sorrise o almeno alzò lo sguardo verso? Verso solamente i presenti? In ogni caso ironicamente – ma non c’è  ricordo di nessuno dei presenti.
Ma allo stesso modo potevano significare che tutte le lettere senza quel timbro erano soggette a censura, e ciò provava la selettività degli organi preposti, che si fidavano di alcuni cittadini, mentre nei confronti di altri non nutrivano la stessa fiducia. E, anche, che proprio quella lettera con il timbro era passata per le mani di un controllore. In ogni caso, quell’emeblematico timbro dai molti significati la diceva lunga sullo spirito della censura che intende sottolineare la propria legittimità e al contempo dissimularsi attraverso la propria negazione.  Per quanto la censura si consideri una necessità storica e un’istitituzione dedita a proteggere l’ordine pubblico e il sistema, essa palesa malvontieri la propria esistenza. Si comporta come un male inevitabile e temporaneo di un sistema perennemente in stato di guerra. La censura, dunque, rappresenta solo una misura temporanea, che verrà  nel momento in cui tutti coloro che scrivono, non importa se lettere o libri, diventeranno maggiorenni e politicamente maturi, quando la tutela dello stato e l’esercizio del potere sui cittadini non saranno più necessari.
Giacché, dunque, è frutto della necessità ed è, pertanto, provvisoria, la censura si considera come già superata, abrogata.  Non riconosce la propria esistenza e cerca di dissimularsi anche in seno a istituzioni democratiche che svolgono funzioni diverse (redazioni e consigli direttivi di case editrici e giornali), oppure cerca di esprimersi attraverso figure quali quelle dei direttori di giornali , dei responsabili di collane nelle case editrici, dei critici, dei lettori, ecc.. Se un messaggio dubbio sfugge al controllo  di tutti questi sostituti  della censura – che svolgono il loro lavoro con la coscienza tranquilla perchè non sono censori, non sono soltanto censori -, allora esiste una risorsa aggiuntiva: il tipografo, che in quanto parte cosciente della classe operaia si rifiuterà di stampare il testo incriminato. Questa risorsa, apparentemente democratica, è uno degli aspetti più cinici della dissimulazione della censura. Quando poi l’interdizione di libri e testi non venga pronnunciata in extremis dagli organi giudiziari – vale a dire dai sostituti della censura – e a nome dell’opinione pubblica, là dove un’opinione pubblica non esiste.

Ripeto – correva lì l’anno 1985. Appena si spegneva la polemica[4] provocata dal suo romanzo Una tomba per Boris Davidovič. Credo che al lettore non serva uno sforzo particolare per notare l’attenzione dell’autore dedicata alla scelta di ogni singola parola e la volontà di ridurre l’espressione all’essenziale. (Lo scrittore era già cosciente della sua malattia incurabile, e la sua tendenza evidente alla brevità del discorso – la lettura del suo intervento non era durata più di sei, sette minuti – è stata determinata solo da questo fatto? Cioè, in qualche modo, dalla volontà di non disperdersi nel tema che in fondo è nauseante?)  Ma questo frammento semanticamente è interessante per la presenza dell’ombra di Kant[5]   – Kiš sviluppa il suo discorso sarcastico anche sulla ’maturità’ non solo degli scrittori ma di tutti coloro che scrivono.  Però chi è l’Uomo nuovo, cioè quel prodotto della Rivoluzione comunista che non può diventare maturo senza un permesso della censura? Se l’Uomo nuovo abbraccia la Fede nuova, dove la professa e come? E’ possibile che la Rivoluzione, che includeva l’ateismo come uno dei pilastri semantici, diventi una Nuova Chiesa, cioè la guida per l’Uomo nuovo – nuovo, ma purtroppo minore e, in conseguenza, immaturo ed esposto alle influenze cattive attraverso le quali corre il pericolo di trovarsi sulla strada sbagliata? Questa domanda per Kiš è retorica;   fino alla fine dei suoi giorni Kiš non si staccò dallo scalpello chirurgico, il vero mezzo con cui ha scritto Lezione di anatomia.  E con lo stesso scalpello ci indica la tutela dello stato e l’esercizio del potere sui cittadini. (E’ scomodo questo Danilo, pure post mortem: il potere è sempre potere – dai tempi dei faraoni ai tempi nostri?) Qualcuno potrebbe restare perplesso riflettendo sull’attributo democratico là dove Kiš usa termine istutuzioni? Il sarcasmo dello scrittore, mirato soprattutto  sul ’socialismo democratico’ del suo paese, che ’democraticamente’ era una democrazia comunista per i tesserati del Partito unico[6], lascia spazio ai dubbi e ai dilemmi sulle qualità delle democrazie odierne e sulla relazione fra il cittadino e lo stato, fra l’individuo e l’intera scala delle élites politiche, manageriali, amministrative e culturali.

Parimenti, si deve prendere in considerazione un altro aspetto molto diffuso della censura, la cosiddetta censura amichevole – che rappesenta una specie di transizione dalla censura all’autocensura -, dove il redattore capo, anche lui uomo di lettere, vi consiglia, per il vostro bene, di togliere dal libro alcuni passi o versi. Se in tal modo riuscisse a convincervi delle buone intenzioni che animano la sua richiesta, si servirà del ricatto morale e scaricherà le proprie paure sulla vostra coscienza: dal vostro gesto – e cioè dal farvi voi stessi carico delle prerogative della censura, dissimulandola così all’opinione pubblica – dipenderà anche il suo destino. Pertanto, o diventerete censore di voi stessi, oppure distruggerete una carriera o un’esistenza. Lui, per ricambiarvi, non solo pubblicherà il vostro libro, ma farà anche passare sotto silenzio il fatto che vi erano originariamente dei passi i quali, se pubblicati, avrebbero rovinato entrambi.

Svelando le sfumature della censura amichevole Kiš ci interroga implicitamente su quanto essa è onnitemporale e onnipresente. Perciò è del tutto interessante chiedersi perchè nei paesi democratici è plurimascherata in ’buon senso’ e ’rispetto’ o in varie ,necessità’ – da quelle politiche e econonomiche a quelle  scientifiche e professionali. Lo scrittore ci ricorda che la censura amichevole di regola è orale. Così, sia il Consigliere che il Consigliato in qualsiasi ’dopo’ facilmente riescono a difendersi. Ma chi era censore? E chi era censurato? Quando, dove? Bisogna sottolineare che nessuno dei critici del sistema comunista  sia stato così preciso e chiaro descrivendo ’qualcosa’ di simile all’anticamera della censura, che ha pure la componente del tempo. Si tratta di quell’attimino in cui bisogna dire un ’sì’ che ci trasforma in ’qualcuno’ indesiderabile a noi stessi, e tuttavia utile per noi stessi – o un ’no’ che ci espone ai rischi che nei sistemi totalitari sono più pericolosi.  Aldilà delle conseguenze da subire, l’individuo è sempre lo stesso che sta di fronte a una scelta di coscienza. Bisogna scegliere fra l’indifferenza e la riflessione, fra il silenzio e la parola, fra l’udire e tappare le orecchie, fra non fare nulla e fare qualcosa. E che egli o ella non sia un Astratto, immaginiamo una donna o un uomo che sia estremamente interessato  alle questioni della guerra e della pace,  all’inasprimento delle differenze economiche (e altre) fra il Sud e il Nord del Pianeta,  alle sempre più presenti differenze fra gli impoveriti e i benestanti nel Nord, dalle ingiustizie sociali nel nostro oggi liberista – a partire dalla disoccupazione fino a mobing.

Troppi interrogativi? Siamo con un piede già nella letteratura o in un film che va solo osservato da lontano?
E il destino – è solo il destino del libro?
A questa parola il minimalismo saggistico di  Kiš si sparge ai pezzettini di cui ognuno è il destino di numerosi scrittori sovietici e degli altri paesi dell’Est che non hanno accettato l’autocensura, con o senza entrare in quella ’anticamera’ con l’amico’.

Qualunque aspetto assuma, la censura rimane, tuttavia, soltanto  la manifestazione esteriore di uno stato patologico, il sintomo di una malattia cronica che si sviluppa parallelamente a essa – l’autocensura. Invisibile ma presente, lontana dall’opinione pubblica, cacciata nelle regioni più segrete dello spirito, svolge la sua funzione più efficacemente di qualisasi altra censura. Nonostante entrambe si servano degli stessi mezzi – minaccia, paura o ricatto -, l’autocensura dissimula o, perlomeno, non dennuncia l’esistenza della coercizione. La battaglia con il censore è pubblica e pericolosa, perciò eroica, mentre quella con l’autocensura rimane anonima, solitaria e senza testimoni, risvegliando nel soggetto un sentimento di umiliazione  e vergogna per la collaborazione prestata.

Ritengo che il saggio di Kiš da questo punto venga svolto[7] con delle qualità del monologo teatrale, in cui l’io’ autocensurato, situato nell’aula di un tribunale immaginario (della Storia o della Storia dell’Infamia?)  appare come l’accusato, il procuratore e il giudice.  In ogni momento ci può sembrare che l’attore abbia voglia di aggiungere qualcosa? Forse che il presente di Kiš, per sfortuna nostra, non è ancora un trapassato prossimo che ci conviene molto se è legato all’epoca del comunismo che non c’è più?
Finendo questa parte dello scritto spero che non mi venga rimproverato il ’prestito’ dell’intero saggio Censura/Autocensura di Danilo Kiš, che ci abbia  facilitato nell’ arrivare sia  allo scrittore in esilio che a  quello spazio che separa l’arte dalla propaganda; e pure a Czeslaw Milosz.

3

Il libro di saggi La mente prigioniera Czeslaw Milosz[8] lo pubblicò nel 1953, a Parigi, dove giunse avendo compiuto il suo servizio diplomatico  a New York e Chicago. Già ex segretario dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Polacca, poeta e dissidente con questa opera irritò  i comunisti nella sua patria. Questo figlio ingrato dell’Ordine nuovo, che disdegnò la sua buona posizione nel potere popolare della sua patria, era criticato per l’anticomunismo, e non se la passò meglio con l’emigrazione polacca che lo considerò criptocomunista, nè  con gli eurocomunisti – l’opera criticava la realtà del ’sogno comunista’ e non solo in Polonia. Secondo Milosz, scrittore in esilio,  la ’mente prigioniera‘ é prodotto della repressione ideologica e del tentativo di creazione dell’Uomo nuovo costretto ad annientare e a dimenticare la propria identità. Così lo scrittore sposta i lettori  –  e non sono quelli degli anni cinquanta, ma pure gli attuali del periodo del dopo Muro fortemente segnato dal rifiuto politico di idee radicali su qualsiasi giustizia sociale , basato sulle  aspettative facili di schemi bianco neri. Nel suo libro Milosz ritiene che l’Uomo nuovo dell’Ordine nuovo tuttavia non rinnunci alla sua identità vera, anzi che provi a proteggerla.
Come? Si protegge usando due mezzi.
Il primo sono le pillole di Murti-Bing, il secondo mezzo è il ketman.

Ricordiamo che nel romanzo L’insaziabilità [9] di Stanisław Ignacy Witkiewicz è descritta una società in cui la religione è stata cancellata. Il suo posto è preso da una filosofia astratta. E non è tutto: astratte sono diventate anche le arti, quindi anche la letteratura. Sulla scena del romanzo allora arrivano i commercianti delle pillole del filosofo mongolo Murti-Bing, che esprimono la sua visione del mondo e dell’uomo e nei consumatori risvegliano la fede nel  pensiero. Ma quale? La pillola è magica – rende facile la strada per abbracciare la nuova fede, l’ordine nuovo e la spensieratezza di fronte al pericolo dell’attacco dell’esercito mongolo-cinese che avanza verso i confini del paese di quel popolo portando anche la filosofia di Murti-Bing. Godendo l’effetto delle pillole, i filosofi e gli artisti vivono una metamorfosi e diventano i membri utili della società. L’unica condizione di diventar  tali davvero è l’oblio della necessità al pensiero e all’azione individuali.    Ne La mente prigioniera  Milosz si appoggia a questa visione profetica espressa nel romanzo di  Witkiewicz, che nell’autunno del 1939, mentre l’esercito sovietico occupava la metà della Polonia, si suicidò.
Le pillole magiche di Murti-Bing, quindi, servono per imprigionare la mente.
E il ketman?
Questo termine proviene dall’opera di  Gobineau[10] Le religioni e le filosofie dell’Asia centrale. Laconicamente spiegato il ketman è finzione, l’arte di nascondimento che aiuta a ingannare gli avversari. Gobineau notò che nei modi di pensare dei mussulmani dell’Asia centrale l’abnegazione pubblica delle proprie convinzioni era un mezzo utile per la protezione della propria vita, della fede e della proprietà. Le caratteristiche di questo ’mezzo utile’ Milosz le notava nel comportamento dei fedeli della Religione nuova nella Polonia del dopo guerra. Del tutto dipendenti dal Centro creatore del Dogma, loro perfezionavano quella  arte di nascondimento  che chiedeva la  vigilanza della mente. Smascherando questo gioco perverso della difesa dell’ identità in cui il successo diventa la fonte del piacere, Milosz evidenzia, poi analizza specie più importanti di  ketman: nazionale, estetico, etico, metafisico, professionale e di purezza rivoluzionaria.
Anche se pare che la sua critica più aspra sia indirizzata sul ketman etico– se è necessario, la gente ketmanizzata è in grado di uccidere milioni di persone – la sua critica più complessa è quella del ketman estetico. E’ evidente che Milosz, realizzando una vera lezione di anatomia su quattro scrittori contemporanei, da lui nominati Alfa, Beta, Gamma e Delta, sottolinea che nel ketman estetico si incrocino altre abilità di nascondimento. Lo scrittore ritiene che nel loro oblio della necessità di pensare e di agire individualmente Alfa, Beta, Gamma e Delta siano scrittori sconfitti.
Tuttavia, Milosz era spietato nei propri confronti. In un’intervista lui condanna sé stesso dicendo che in quel periodo della sua vita praticava la prostituzione. E aggiunse che essere diplomatico della Repubblica Popolare Polacca nell’immediato dopo guerra indubbiamente sia stata una cosa vergognosa. E non perché lo facevo, in realtà non avevo compiuto nulla di terribile, ma per il solo fatto di esserci …

4

Nella Jugoslavia La mente prigioniera è stata pubblicata appena nel 1985[11], quindi a cinque anni dalla morte di Tito e quattro anni prima della caduta del Muro. L’interesse per questo libro[12] fu enorme e, in seguito, accompagnato da numerose recensioni. Avevo allora ventinove anni e coltivavo delle speranze sulla democratizzazione della Jugoslavia e sulle riforme economiche e politiche. Questo libro di Milosz per me letteralmente aveva il significato dell’ opera uscita da una mente liberata, critica fino in fondo nei riguardi dell’ ideologia comunista che aveva tradito speranze di milioni di persone che nel Novecento sognavano un mondo più giusto. Tuttavia, l’edizione de La mente prigioniera era giunta con un ritardo su cui si potrebbe scrivere un libro grosso, e inevitabilmente in relazione con gli anni Ottanta, il periodo dello scongelo e dello spartiacque fra la Democrazia e il Nazionalismo nell’ex Cuscinetto[13].
La verità dello scritto che resta di un cronista sarajevese dei tempi ottomani si è confermata anche nel caso del mio saggio Critica dello stalinismo e della poetica socrealista[14]. All’inizio del 2016, mentre cercavo alcuni dati bibliografici su Kiš e Milosz, che mi servivano proprio per questo scritto, nella Rete trovai  ’La mente prigioniera’ di Czeslaw Milosz nella pubblicistica serba, saggio[15] breve della polonista belgradese Ljubica Rosić. In questo scritto della professoressa pubblicato due decenni fa, accademicamente perfetto e ricco di note a piè,  ha trovato il suo posto anche il mio saggio sul libro di Milosz. Però è un posto strano, quasi di spicco anche se de La mente prigioniera si sono  scritti dei saggi e delle recensioni più profonde e più significative del mio contributo e come tali essi dovevano essere più approfonditi.  Pensai che l’autrice di questo contributo alla polonistica serba dovesse essere una persona giovane, massimo una dottoranda. Mi ingannai,– a quanto mi risulta – diventò docente universitario già negli anni settanta. Mi inganno se penso che la polonista c’era ‘là e allora’ ma non scrisse nulla su La mente prigioniera? La prova sono le note a piè del suo saggio fra le quali troviamo solo un suo contributo scritto su Milosz, però del 1995.
E perchè lei non scrisse nulla su quest’opera giustamente considerata una delle più influenti del Ventesimo secolo? Pongo questa domanda perchè mi è abbastanza conosciuto quanto sia diffuso il negazionismo della ’nostra’ presenza nel passato. Perciò mi pare logico constatare che questo negazionismo ormai sia locus classicus della mente dei nuovi democratici e degli intellettuali del dopo Muro, ai quali non è chiara la differenza fra gli esperti e le persone di pensiero libero. Non per caso uno scrittore spietatamente scrisse: Tutti noi sembriamo così dei mammuth tirati all’improvviso da un banco di ghiaccio storico, e ora è difficile, se non per mezzo della paleontologia, poter dimostrare  che abbiamo vissuto in una certa epoca per un periodo relativamente lungo. Perchè il luogo dove eravamo non esiste più, a parte il fatto che in quel periodo, oggi inesistente,  abbiamo lasciato le nostre vite, nonché, ancor peggio, il ricordo  di quella vita, ormai vissuta. La nuova democrazia, a differenza della ’disciplina del sistema comunista’, porta a un nuovo genere di oblio, per cui ciò che è avvenuto è come se non fosse mai accaduto, e noi che eravamo là, noi non eravamo affatto là. Noi veramente, ossia, quindi, cioè, eravamo là solo perchè là non desideravamo essere, e che noi mai, davvero, in fede mia, non abbiamo mai desiderato esser là, è provato dal fatto che oggi noi sosteniamo che là non siamo mai stati! Là erano solo ’loro’, quel gruppetto che desiderava davvero essere là, e noialtri, noi ’tutti’, noi là non c’eravamo, là c’era invece uno spazio vuoto[16].

*

Farò una digressione, sperando che sia essenziale per capire almeno uno dei ketman  apparsi nel dopo comunismo. Nel post Muro, eccetto che per una minoranza insignificante di ricercatori, di intellettuali e di turisti curiosi, lo sguardo della cittadinanza dell’Europa occidentale sui fenomeni della cosiddetta transizione alla democrazia e al sistema capitalista dei paesi dell’Est è mirato sulla politica e sull’economia. Certamente, si tratta della scoperta dell’acqua calda, ma all’autore di questo scritto ciò anche stavolta serve per notare quanto siano numerosi i fenomeni sociali e culturali di carattere ‘invisibile’, nei quali un ruolo importante svolge uno dei ketman del tutto speciale – quello della cancellazione della memoria.
Degli esempi ce ne sono tanti, ma alcuni sono più significativi. Penso in primis all’attacco dei voltagabbana della Repubblica Ceca democratica  contro Kundera[17] e della ex- Est Germania contro Christa Wolf – entrambi accusati di essere collaboratori del sistema comunista, utili ai servi del comunismo e ora  ortodossi della democrazia per le prove che allora non esisteva nessuna dissidenza. Ricordo che non solo in Cechia, ma nell’intero ex Est comunista, a cui aggiungo l’ex Jugoslavia, dagli anni Novanta in poi è emerso un genere di esorcismo strano solo a chi non lo pensa. Dopo la morte del comunismo a nessuno piace ricordarlo. Per molti era un abito, necessario come oggi lo è quello attuale, democratico, ma il diavolo da sempre abita nel corpo altrui. Chi ricorda l’ultima scena del film Kolja (1996), di Jan Sverak, regista ceco, credo riesca a ricordare i volti dei due persecutori del protagonista di quest’opera. Mescolati con la folla che con il tintinnio delle chiavi salutava la fine del comunismo, incubo della storia del popolo ceco, loro due con le loro chiavi in mano sembravano irriconoscibili. Coloro che rinunciano ad ogni coscienza relativa all’essere stati dentro un sistema e di averne fatto parte attiva, pare che costituiscano la parte più rumorosa dell’ attentato contro la memoria.
Cambiare abiti e mescolarsi nella folla che saluta i tempi nuovi era un costume diffuso da Warszawia a Belgrado, da Praga a Zagabria e Lubiana.  Nessuno allora spiava, nessuno denunciava, nessuno restava zitto-zitto, buono-buono. E gli esorcisti, quindi quella fetta dell’intellighenzia postcomunista che cerca i vampiri del passato, non vogliono vedere né attualizzare quelli del loro oggi. Czeslaw Milosz era sincero – sapeva che essere vicini al potere permetteva il successo, ma pure che è difficile ingannare il diavolo. Kiš, spogliando il sosia del censore in noi, partiva dal totalitarismo comunista, ma pare non abbia messo nessun punto definitivo né limite sull’autocensura in qualsiasi luogo e circostanza, anche se in quel suo saggio non usava il termine ketman, come forma e sostanza estrema dell’autocensura. Entrambi  gli  scrittori  sono  credibili. Non stavano sopra gli altri, da moralizzatori assenti dal loro tempo.

                                                       *

Citando il paragrafo intero, tuttavia, mi sento di compiere un’ingiustizia, anche se non sono colpevole, perché l’autrice di quella ricerca al mio saggio[18] ha dedicato un’attenzione più alta di quanto esso meritasse.
“Božidar Stanišić non osserva particolarmente del problema di manipolazione oppure di terrore o di repressione ne La mente prigioniera, ma giudicando alcune sintagmi, come ad esempio il sistema socio-politico repressivo si addatta alla riflessione del professore (Nikola, n.d.a.) Milošević su questa opera. Con moltitudine di epiteti lodevoli indirizzati sia all’opera che all’autore, Stanišić esprime il suo dispiacere perché La mente prigioniera da noi non sia stata pubblicata molto prima, perché allora sarebbe stata più utile e con dei significati estetico-semantici più diversi. Non c’è bisogno di ricordare  – dice lui – che sarebbe stato (anche se lo è pure oggi) uno dei sostegni al ‘no’ jugoslavo e di Tito contro Stalin e poteva offrire alla nostra opinione pubblica uno smascheramento dei postulati della demagogia stalinista e dell’arroganza politica dell’Est nei riguardi della nostra indipendenza. Secondo Stanišić, che con questa considerazione esprime la lode per la nostra indipendenza e la nostra via originale del socialismo, noi non abbiamo proprio niente in comune con il regime totalitario dell’Est. Però il fatto che l’attualità de La mente prigioniera non si sia ridotta neppure dopo trent’anni, lui lo spiega con la riflessione che questo libro non è solo critica dello  stalinismo ma pure della nostra civiltà attuale. Poiché Milosz non nega il socialismo, né scrive un elogio sull’Occidente, in qualche modo Stanišić lo avvicina alla politica non allineata della ex Jugoslavia Federativa (…). Mentre una parte dei critici letterari e dei recensenti (Mikić, Đorđević, Šop, Sekelj…) non osserva La mente prigionera come libro esclusivamente legato alle questioni polacche ma ai fenomeni più ampi, agli altri (come a Stanišić) questi fenomeni sembrano estranei, e tutto ciò che accadeva là, dietro la cortina di ferro, sembra una cosa un po’ esotica perché il nostro paese aveva un socialismo diverso’.
Non intendo fermarmi all’inizio del paragrafo in cui viene notata l’assenza delle mie osservazioni particolari ‘sul problema della manipolazione oppure di terrore o di repressione ne La mente prigioniera,  né sul giudizio di Lj.R. di ‘alcuni sintagmi’. Tuttavia sento un pizzico di piacere per la vicinanza con quel professore[19] ed esteta raffinato. No, non mi pento delle ‘lodi’ espresse nei riguardi di Milosz e della sua opera – ciò per me e alcuni miei amici e conoscenti era una grande scoperta. E ripeterei  di nuovo il mio lamento perché La mente prigioniera non è stata pubblicata molti anni fa;  ripeterei pure tutto ciò sull’importanza di quel ‘no’ a Stalin pronunciato da Tito in quel concretissimo anno 1948.
Resta però strano il fatto che la nostra polonista, visitando la Polonia comunista negli anni settanta e ottanta conoscesse l’esotico comunista, ma negli anni ottanta non scrivesse nulla della situazione vera là. Ciò non era conveniente: niente più scambi universitari, qualche ‘problemino’ qua e là?’ [20] Giacché la distanza del tempo apre delle possibilità probabilmente inimmaginabili di rilettura dello scritto che resta e molto, quasi niente,  dei silenzi, quelli da sempre utili – ciò mi riporta ad una autocritica. Cioè che in giovinezza sopravalutavo l’importanza sociale della letteratura e della filosofia, in conseguenza dei libri come ‘appoggi intellettuali’. Ma ciò sarebbe, come ad esempio Tito e il titoismo,  il tema per un libro ampio di saggi, nonché di un romanzo. In entrambi i casi quest’opera potrebbe aprirsi con il capitolo L’altro  socialismo, con o senza punto di domanda.  E se già viene ricordato il  ‘no’ di Tito di quell’estate lunga e bollente, dovrei ricordare – chi in realtà? – che non solo il mio o il racconto di vita della Lj.R. ma quello di milioni di jugoslavi, sarebbe stato diverso. L’elefante di Mosca  avrebbe comandato anche da noi e già sappiamo come. Perciò confermo che, aldilà di chi e come pensa dell’ex Cuscinetto (prigione dei popoli, dittatura dell’unico partito, non democrazia, paradiso per i malinformati in ‘materia comunismo’, dittatore, autocrata, mano dura, capitano del Titanik, utopista non compreso) – la Jugoslavia Federale era più indipendente delle piccole realtà statali sorte dalle su ceneri.
E il modo con cui avevo avvicinato Milosz alla politica non allineata dell’ex Jugoslavia’ credo  sia chiaro solo alla nominata polonista.

5

Alla fine sarebbe giusto sottolineare solo uno dei ketman più interessanti del dopo Muro – quello della memoria, la cui esistenza tuttavia diventa più comoda se la incateniamo al periodo post Muro dell’Est? E sottovalutarne altri – meno interessanti? Dire solo che si tratta di autocensura di varie qualità: etica, professionale e manageriale, politica, economica,  culturale? Spesso pare che il ’colpevole’  non possa essere il fenomeno stesso in sé, ma chi lo rivela.
E il  colpevole per questo scritto, tornando al ketman della memoria,  parla con la voce del matto che leggermente pone ‘alcuni’ interrogativi?
E si chiede quanto avevamo ketmanato là dove noi non eravamo affatto là? (L’Ex-Cuscinetto è l’unico paese nel mondo in cui La mente prigioniera causò la nascita del verbo ketmanare, rimasto sinora in uso.)
Quanto, come e perché ketmaniamo oggi? Là dove quel Cuscinetto si è strappato in diversi pezzi e dappertutto dove viviamo dispersi, quindi anche da emigranti. Ci interroghiamo più volentieri di noi, del nostro passato oppure siamo inclini a interrogarci di più nel nostro ‘ora e qui’? Dopo un quarto di secolo del vivere nel mio ‘ora e qui’ mi sembra che osserviamo e critichiamo di più i nostri nuovi paesi di quanto ci occupiamo delle cause delle nostre miserie reali. E sempre di meno della miseria di nome ‘vivere altrove per sempre’?
Forse vi lascio correre  un rischio palpabile: Se tutto ciò lo intendete  proiettare solo sulla vicenda dell’ex Est comunista, di quel Cuscinetto e degli ‘jugos’ dispersi ma immigrati senza distinzione e non diversi dagli altri provenienti dell’intero mondo  – si aprirà la porta di un grande inganno. Entrati nella leggerezza del ‘non si tratta di noi’, non sarete in grado di riconoscere un’intera varietà dei ketman dell’inizio del XXI secolo, ancora di meno chiedervi chi sono gli  Alfa, Beta, Gamma e Delta; certamente, non solo scrittori, scienziati o intellettuali e artisti, ma tutti coloro che praticano quell’arte di nascondimento.

__________________

[1] Danilo Kiš (1935-1989), scrittore jugoslavo, uno dei massimi rappresentanti  della letteratura del Novecento europeo;
[2] Clessidra, Dolori precoci, Enciclopedia dei morti, Una tomba per Boris Davidovič, Homo poeticus, Una tomba per Boris Davidovič e Giardino, cenere
[3] In Danilo Kiš, Homo poeticus – Saggi e interviste (pag. 41-46), Adelphi, Milano 2009 – traduzione dal serbo: Dunja Badnjević
[4] Romanzo  Una tomba per Boris Davidovič (1976) è tradotto in tutte le grandi lingue. Di questa opera hanno scritto Brodskij, Konrad, Kundera… La polemica scoppiata su questo romanzo è una delle più grandi e più lunghe nella storia delle letterature degli slavi meridionali. In breve: in tutti i racconti del romanzo sono incrociati il calvario dei lager sovietici e l’immaginazione. Durante i suoi lunghi soggiorni in Francia, negli anni sessanta e settanta, ’ossesso di questo tema’ Kiš ’di giorno e notte’ ne discuteva con intellettuali francesi che negavano l’esistenza dei lager sovietici.  ’Da questa ossessione’, sostiene Kiš, è nata questa opera. Uno spettabile professore di Belgrado accusò l’uso dei documenti in questo romanzo come plagio e su questa accusa Kiš scrisse la sua risposta, il brillante libro Lezione di anatomia.  Personalmente non sono sicuro che quel professore lo fece per l’invidia (Kiš era già scrittore di fama internazionale) oppure per l’ignoranza dei postulati basilari del  postmoderno, ma nella polemica ’pro e contro Kiš’ i numerosi avversari giocavano sulla carta dell’ortodossia ideologica e partitica.  Il caso ha rivelato che il comunismo è comunismo in qualsiasi forma esso sia stato. Osservata da distanza, questa polemica è significativa pure come contributo alla percezione più ampia delle occasioni perdute per la democratizzazione della Jugoslavia e per la percezione della metamorfosi dal comunismo al nazionalismo, e non solo nei territori dei Balcani occidentali ma nell’intero mondo ex Est comunista.
[5] L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! (…) E’ così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. (dal Che cos’è l’illuminismo, 1783, di Immanuel Kant
[6] I miei amici, rimasti nei vari paesi sorti dall’ex Jugoslavia, mi dicono che senza tessera di un partito è difficile sopravvivere; l’unico Partito non c’è più, ma è rimasta l’abitudine di ottenere ‘qualcosa’ attraverso la politica. Si meravigliano quando racconto delle mie esperienze italiane, ma il proverbio ‘il mondo è un paese’ non ci sembra consolante;
[7] ’Autocensura è leggere il proprio testo con occhi altrui, il che fa di voi il vostro giudice diretto, un giudice più dubbioso e severo di qualunque altro, perchè in quel ruolo riconoscerete nel testo ciò che nessun censore avrebbe scoperto, quello che avete fatto passare sotto silenzio senza metterlo mai sulla carta, ma che, vi sembra, è rimasto ’tra le righe’. Perché al censore immaginario attribuite anche facoltà supplementari, che nemmeno voi possedete, e al vostro testo significati che non vi sono. Quel vostro doppio segue il vostro pensiero fino alla sua vertiginosa conclusione, là dove tutto è sovversione e ogni tipo di approccio è pericoloso e punibile. Il soggetto dell’autocensura è il doppio dello scrittore, il doppio che si appoggia alla sua spalla e interferisce nel suo testo in status nascendi, rammentandogli di non commettere qualche sbaglio ideologico. Ed è impossibile raggirare questo doppio-censore, egli è come Dio, onnivedente e onnisciente, perchè nato dal vostro cervello, dalle vostre paure, dai vostri stessi fantasmi. Questa lotta con il proprio doppio, questa tensione intellettuale e morale non possono non lasciare chiare tracce nel testo, a meno che tutto lo sforzo non si riduca a un unico gesto morale – distruggere il manoscritto e rinnunciare al progetto. Ma anche rinnunciare alla lotta, e alla conseguente vittoria, sortisce il medesimo risultato: un senso di sconfitta e di vergogna. Qualunque cosa voi facciate, il doppio trionfa sempre: se lo avete respinto, egli riderà dei vostri timori, se gli avete obbedito, riderà della vostra viltà. Così, il doppio dello scrittore riesce alla fine a pregiudicare e compromettere anche la persona più morale, quella che non si era fatta piegare e distruggere dalla censura. Non volendo riconoscere la propria esistenza, l’autocensura diventa sorella della menzogna, corruzione dello spirito.  Se lo scrittore riesce a superare l’atto radicale dell’autodistruzione, se riesce, con la forza del proprio talento, con coraggio e abilità, a vincere il suo doppio-tentatore, tracce di questa lotta resteranno visibili nella scrittura sotto forma di metafora. E’ una doppia vittoria: non solo il testo, nonostante le tentazioni, ha trovato la grazia della forma, ma tramite quell’abilità, tramite la riduzione dell’idea a metafora (nel significato etimologico di trasposizione del reale nel figurato), l’autocensura ha trasformato il pensiero in una figura stilistica indirizzandola nel campo della poetica. Da ciò si potrebbero trarre considerazioni di grande rilievo in materia di storia e di teoria della letteratura e si potrebbe analizzare con questo metodo – il predominio della metafora – la genesi di molte opere, pensiamo per esempio alle avanguardie russe degli anni Venti del Novecento. L’autocensura conferisce a queste avanguardie una determinata sfumatura e un tono particolare. La proza di Babel’ e Pil’njak, la poesia di Mandel’štam e della Cvetaeva hanno ricavato dalla lotta con l’autocensura eccellenti esiti letterari. Una vittoria amara e tragica. L’autocensura è polo negativo dell’energia creatrice, infastidisce e irrita, e a contatto con il polo positivo può produrre una scintilla. Allora lo scrittore, disprezzando la propria paura, uccide il suo doppio, e in quella violenta liberazione dalla prudenza, dalla vergogna e dall’umiliazione accumulate per lungo tempo le metafore si disintegrano, le perifrasi si sciolgono, resta soltanto il nudo linguaggio dei fatti, un pamphlet. Per il vostro doppio-censore non c’è più nulla da scoprire tra le righe, tutto è scritto nero su bianco, fino all’ultimo atomo del vostro scontento. (In un momento simile Mandel’štam scriverà la sua poesia su Stalin, quella della liberazione dall’autocensura e dall’umiliazione. Quella che gli costerà la vita). La vittoria del principio morale uccide lo scrittore o la sua opera. Un io censurato, che ha sopportato a lungo la tirannia della paura, si serve del pamphlet come di una spada vendicatrice. E proprio questa lotta con il doppio-censore ha reso sterile più di uno scrittore in esilio. Vittime di un’annosa autocensura, molti hanno attraversato di colpo quello spazio che separa l’arte dalla propaganda; è accaduto ciò che Czeslaw Milosz chiama ’restringimento’. Quale conslusione ne deriva? Che un’autocensura protratta conduce inesorabilmente, sul piano creativo e umano, a catastrofi non meno gravi di quelle dovute  alla censura; che l’autocensura rappresenta una pericolosa manipolazione mentale, con durevoli conseguenze negative per la letteratura e per lo spirito umano.
[8] Czeslaw Milosz (1911-2004), poeta, saggista e romanziere polacco, premio Nobel per la letteratura 1980
[9] Scritto nel 1927, è pubblicato 1930;
[10] Joseph Arthur De Gobineau (1816-1882), teorico e politico francese, autore del discusso Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane (1853), in cui interpretò la storia umana in un contesto razziale;
[11] Casa editrice BIGZ, Belgrado; in Italia è pubblicato nel 1955;
[12] Tre anni fa, pubblicato nella Repubblica Popolare Cinese, subito è apparso fra i libri più letti;
[13] Soprannome della Jugoslavia di Tito, paese non allineato – che letteralmente era situato fra due blocchi, quello Atlantico e quello di Warszawia; si usava allora pure il termine ‘ammortizzatore’, che – servito come tale finché era necessario e utile – è sparito dalla carta d’Europa nel 1991;
[14] Rivista letteraria Gradina, Niš – 1985/12;
[15] Cento anni della polonistica in Serbia, Gli atti del Convegno scientifico giubilare, Cattedra di slavistica della Facoltà di Filologia dell’Università di Belgrado, Società slavistica della Serbia, Belgrado 1996;  in www.rastko.rs/knjizevnost/
[16] Bora Ćosić: Diario di un senza patria, in Dizionario di un paese che scompare – narrativa della ex Jugoslavia a cura di Nicole Janigro, Manifestolibri, Roma 1994, pag. 40-41
[17] Avevo reagito con l’articolo Il caso Kundera (Latitanze, 28.10.2008);
[18] Il mio saggio sul libro di Milosz, osservato dalla professoressa Rosić, sono riuscito ad averlo recentemente grazie alla gentilezza della redazione della rivista Gradina, Non c’è l’avevo, e non ho  altri miei saggi, recensioni e testi radiofonici  pubblicati negli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta – quindi prima del disfacimento di quel Cuscinetto. Anche se credo che potrebbero servirmi per alcuni dettagli sugli anni ottanta nei miei racconti e saggi, sia quelli pubblicati che quelli ‘work in progress’, non avevo provato a ritrovarli. I ritagli e le copie sono scomparsi nella nostra guerra civile vergognosa.
[19]  Nikola Milošević (1929-2007),professore universitario belgradese, autore di numerosi studi letterari, l’intellettuale che dal primo momento del potere del suo omonimo è stato il suo critico e avversario politico e culturale.
[20] Sono alcune domande poste alla polonista Rosić nella mia risposta che nel marzo 2016 sarà pubblicata sulle pagine on line del Progetto ‘Rastko’ di Belgrado;