Interviste Supplementi

Intervista. Christiana de Caldas Brito

10 DOMANDE CHE NON HANNO MAI FATTO A JULIO MONTEIRO MARTINS.

UN’INTERVISTA DI CHRISTIANA DE CALDAS BRITO, in «El-Ghibli», 9, 38, dicembre 2012

Una parte della personalità di uno scrittore rimane dimenticata quando gli si fa un’intervista. L’attenzione di chi intervista uno scrittore spesso si dirige verso argomenti complicati. Non è raro che l’intervista si trasformi in un quasi trattato di letteratura.
Questa qua sotto, non è una intervista di questo genere. Diciamo che sarà più leggera delle precedenti fatte a Julio. Come lui stesso disse, dell’intervista fanno parte stimolanti domande alle quali questa volta può rispondere l’uomo, più che lo scrittore.”
Il fatto è proprio questo: vogliamo conoscere il Julio di tutti i giorni. Sappiamo ormai che in quanto professore universitario e in quanto direttore della rivista Sagarana, lui espone sempre il suo pensiero con grande responsabilità e competenza. Ora vogliamo chiudere nell’armadio il professore universitario e il direttore di Sagarana e spontaneamente fare alcune domande al Julio sprovvisto di persona. Spero che così come mi sono divertita a porgergli le domande, e lui si è divertito nel risponderle, anche voi vi divertirete nel conoscere le risposte di Julio alle domande che nessuno gli aveva ancora fatto.

  1. Di che colore ti vedi?

J – Mi vedo allegramente grigio. Nel nostro impegno per eliminare i vecchi stereotipi, bisogna cancellare anche l’idea del grigio come qualcosa di scialbo, di burocratico, di polveroso, collegato all’immagine delle ceneri e quindi alla morte e al nulla. Il grigio invece è umanamente tenero, perché è la tenebra mitigata, addolcita, e al contempo è il bianco immacolato ora sporco di vita e di materia, il bianco inquinato (arricchito?) dai dubbi, timori, zone d’ombra. E poi, ora che vanno tanto di moda le “sfumature di grigio” a causa del best seller di Erika James, non bisogna dimenticare la particolarissima sfumatura che è il “flicts”. Ti ricordi del “flicts”? È stato creato nel 1969 dal fumettista brasiliano Ziraldo, e su questo colore ha scritto un bel libro illustrato per ragazzi intitolato appunto Flicts. È il colore della luna vista da vicino, della polvere e dei sassi che le ricoprono la superficie, illuminati da un sole crudo, senza il filtro dell’atmosfera. È un grigio chiaro, quasi avorio, leggermente crema, o leggermente rosa. Un grigio in tono pastello. Mi domando: sarò anch’io flicts?

  1. Qual è il giorno della settimana che ti piace di più e perché?

J – La domenica. Il giorno in cui mio figlio Lorenzo viene a pranzo da me e passa la giornata qui, con Alessandra e la nostra bimba di tre anni, Beatrice – una vera artista! Che si esibisce nei suoi piccoli show, le sue “costruzioni” dal traballante equilibrio,  le canzoncine brasiliane, “Atirei o pau no gato tô / mas o gato tô / não morreu reu reu…”, le favole adattate e raccontate da lei stessa… insomma, la famiglia tutta insieme in camera da letto, sul lettone, tra libri, giocattoli, disegni, cuscini, carte da gioco, marionette, tazzine di plastica per pic-nic e tasselli di puzzle sparpagliati dappertutto. Una festicciola molto intima.

  1. Il libro dell’infanzia.

J – Emília No País Da Gramática (Emilia nel paese della grammatica), di Monteiro Lobato. La bambola di pezza che guadagna vita ma viene fuori un po’ pazzariella e sempre irreverente. Dalla fattoria dove vive, il Sítio do Pica-Pau Amarelo (la Fattoria del picchio giallo), insieme ai bambini Pedrinho e Narizinho, alla nonna Dona Benta, col candido chignon, alla buonissima cameriera nera, probabilmente figlia di schiavi Tia Nastácia – una sorta di Hattie di Via col vento brasiliana – e il nobilissimo torsolo di granturco animato, il Visconde de Sabugosa, col suo cappello a cilindro, compie questo viaggio fantastico all’interno della lingua portoghese, trasformata da Lobato in un regno favoloso abitato da aggettivi, potenti sostantivi propri e umili sostantivi comuni, superlativi, carini vezzeggiativi, brutte parolacce, congiunzioni garbate, avverbi un po’ snob e suffissi birichini.

  1. Animale preferito.

J – L’unicorno, il grifone, il minotauro, il drago, la fenice, il cane cerbero con le sue tre teste, e tutti quegli animali che non esistono, che sono creature  della nostra immaginazione, ciascuna una metafora di qualcosa di terribile o di meraviglioso, o entrambe le cose, una simbologia oscura, percepita soltanto dall’inconscio ma non compresa dalla nostra ragione. Pensa alle sirene, per esempio, che da Omero a Andersen, da Malaparte a Walt Disney eccitano la nostra fantasia, e che sono promesse di felicità ma anche di annegamento.

  1. Qui in Italia, c’è qualcosa del Brasile che particolarmente ti manca?

J – Sì. Un particolare tipo di sguardo, una complicità silenziosa su certe intese di natura erotica o sentimentale che non devono in nessun modo essere verbalizzate: altrimenti diventerebbero brutte e volgari, o sconvenienti, o chissà addirittura immorali. Si tratta di un linguaggio tacito che è squisitamente culturale, che va oltre gli individui e non può essere capito da chi non è cresciuto in una certa cultura. Una complicità, diciamo, antropologica. La parola brasiliana “sacanagem”, nel suo senso gioioso, erotico – perché c’è anche un altro senso, negativo, di comportamento sleale, di sgarbo – significa proprio questo, ed è bello che ci sia un vocabolo specifico per qualcosa di così etereo e sfumato come questa complicità. Ho scoperto, dopo tanti anni in Italia, che anche qui esiste un codice silenzioso simile a quello dei brasiliani, e altrettanto culturale ed esclusivo. Ma, oltre a non avere una parola che lo esprima, che io sappia, è meno collegato all’erotismo e più connesso ai rimproveri e alle critiche, a una consapevolezza condivisa di una brutta figura altrui che non conviene palesare con parole.

  1. Parlami del primo ricordo di cui hai coscienza.

J – Si tratta di un ricordo molto antico, che mi veniva, e mi viene tuttora, nei sogni e negli incubi, ma a volte anche da sveglio, in brevissimi flash molto confusi e appannati. Sono per strada, a Niterói, in braccio a mio padre che sorride, mia madre cammina accanto a noi, ma intorno a noi tutto è diverso, spaventoso, ci sono odori forti, pungenti, rumori di tamburi, e mostri dappertutto, uomini con teste mostruose che si avvicinano al mio volto, mi spruzzano addosso dei liquidi puzzolenti, gettano su di me una pioggia di pezzettini di carta, mentre intonano delle canzoni urlate, con voce rauche o stridule, con dei versetti ripetuti come un mantra isterico. Sono terrorizzato e non riesco a capire come mai i miei genitori sono così tranquilli con tutti quei mostri intorno a noi. Un giorno raccontai a mia madre quel sogno/ricordo e lei mi sorrise e mi rivelò che si trattava del ricordo del mio primo carnevale. Che quando avevo due anni lei e mio padre mi avevano portato fuori a vedere le maschere, i clóvis,  che si divertivano per le strade di Icaraí, il mio quartiere, con i coriandoli, le stelle filanti e le bombolette di profumo.

  1. Due cose che ti piacciono.

J – La musica di Mozart, per esempio i concerti per flauto che ha composto quando aveva 12 o 13 anni e che trasmettono, insieme alla ricchezza musicale matura, l’estasi innocente di un bambino.  E le mattine fresche, con il sole e il cielo terso, della fine della primavera o dell’inizio dell’autunno, quando la pelle è delicatamente riscaldata dai raggi del sole mentre una brezza fresca, quasi fredda, soffia ogni tanto su di essa e rende il tepore del sole qualcosa di carezzevole, di affettuoso.

  1. Due cose che non ti piacciono.

J – La forte emicrania, quasi giornaliera, che mi ha perseguitato da quando avevo 15 anni, fino a qualche anno fa – per fortuna oggi è meno frequente – che mi impediva di leggere o di scrivere, ma soprattutto di ascoltare la musica, perché ogni nota più alta era una fitta di dolore (e parlo di dolore fisico, quello con cui non si può argomentare come si fa col dolore morale, e attraverso il quale si scopre quanto può essere impotente l’intelligenza). L’altra cosa che davvero non mi piace è il pensiero che fra poco dovrò morire. Lasciare per sempre lo spettacolo del mondo. E anche la musica! Non ascolterò più musica, mai più, puoi immaginarlo? Meno male che allora non ci sarà più nemmeno il ricordo della musica e di nient’altro, così non soffrirò la sua mancanza. Così spero. Il racconto che chiude L’amore scritto, intitolato Uno spettacolo immenso, l’ultimo tassello di quel grande mosaico sull’amore con una cinquantina di racconti, è proprio su questo abbandono forzato del mondo. Il personaggio, in silenzio, domanda al mondo che sta per lasciare: “Dove ti porteranno, mondo mio, in quale nulla? E poi, come farai senza di me? Chi ti guarderà come ti ho guardato io?”. Puoi chiedermi allora perché mi viene in mente così spesso un pensiero così triste. Non lo so. Forse è un atto di auto difesa, un modo di cominciare a poco a poco a metabolizzare una idea insopportabile, per avvicinarmi alla cosa in modo meno traumatico. In fondo è un tentativo di tener sotto controllo, di gestire goffamente, un sentimento che è ingestibile e indigeribile.

  1. Il libro che ti piacerebbe aver scritto? (Non vale rispondere con un libro scritto da te)

J – Rispondo, ma con una premessa: penso che uno scrittore può scrivere soltanto ed esclusivamente quello che ha effettivamente scritto, perché niente è più personale e intrasferibile della creazione letteraria. Non esiste la possibilità di uno “scambio d’autore”.  Ora ti rispondo: sono molti i libri che ammiro e che sarei orgoglioso di aver scritto. Brave New World, di Audous Huxley, Ficciones di Borges, Massa e potere di Elias Canetti o Macunaima di Mário de Andrade. Ma mi consolo pensando che, è vero non ho scritto queste opere, non potrei mai averlo fatto, ma nemmeno loro avrebbero potuto scrivere quello che ho scritto io. E così, come si dice in Brasile, “ogni scimmia sta sul suo ramo”.

  1. Un pensiero che ti illumina.

J – Mi viene in mente una frase di Clarice Lispector nel suo romanzo metaletterario A Hora Da Estrela (L’ora della stella): “Se non fosse la sempre novità che è scrivere, ogni giorno mi morirei.” Scrive in Portoghese “eu me morreria”, “io mi morirei”, e non “mi ucciderei” o semplicemente “morirei”. E così ri-inventa il senso dell’espressione, che esprime una morte naturale ma sottilmente, subdolamente, provocata da chi muore, come una somatizzazione fatale provocata da un vuoto inconscio. Mi identifico molto con questo suo pensiero. Anche per me gran parte del piacere del vivere viene dallo scrivere, dal navigare con lo sguardo nel mondo intorno e con la mente nel mondo interiore, e a partire da questo navigare ridisegnare la vita, riproporla come la sento io, attraverso storie e poesie, e in questo modo costruire un mondo particolare, originale, un pianeta a sé stante. Aprire col linguaggio una grande porta verso questo mondo immaginario, affinché chiunque possa visitarlo ogni volta che lo desideri.

L'autore

Christiana de Caldas Brito

Christiana de Caldas Brito ( www.miscia.com/christiana ), brasiliana, ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Rio de Janeiro. Psicoterapeuta e scrittrice, vive e lavora a Roma. In Italia ha pubblicato i racconti raccolti in:Amanda Olinda Azzurra e le altre (Lilith, Roma 1998; II edizione Oedipus, Salerno-Milano 2004. I Premio Narrativa “Il Paese delle Donne”, Roma 2003); la favola per bambini e adulti La storia di Adelaide e Marco ( Il Grappolo, Salerno, 2000). Presso la collana Kumacreola, diretta da Armando Gnisci, ha pubblicato il volume di racconti Qui e là. Nella stessa collana ha pubblicato nel 2006 il romanzo500 temporali.