Supplementi

La grazia di casa mia – Marisa Cecchetti 2

In Italiano ha cominciato a scrivere racconti a cominciare dal 2000 Julio Monteiro Martins, brasiliano di Niteroi, classe ’55, che aveva già pubblicato in Brasile fin  da giovanissimo. Racconti brevi, flash sui rapporti umani e sulla società, carichi di ironia sottile, realistici e ammiccanti aldilà del significante. Agli amici di cui si poteva fidare confidava i suoi dubbi sulla nuova lingua adottata e non rifiutava consigli.
In lucchesia, nelle lezioni di scrittura creativa, leggeva autori semisconosciuti ai più, che rappresentavano il meglio della produzione latinoamericana e non solo.
A soli  23 anni aveva frequentato il più importante International Writing Program per scrittori famosi ed emergenti di tutto il mondo presso l’Università dello Iowa,  tra i professori c’era Ray Carver, le basi del laboratorio le aveva date Flannery O’ Connor. Di lì a poco si trovò ad insegnare scrittura creativa al Goddard College nel Vermont. Del resto lui aveva imparato la seconda lingua dalla madre insegnante di inglese nei licei e in seguito di Letteratura nordamericana all’Università, che leggeva a voce alta davanti al bambino gli autori su cui lavorava. E quando, ancora piccolo, ha trascorso tre anni dai nonni in montagna, a Resende, riceveva ogni mese una cassa di libri da parte di sua madre.
Ora Monteiro, che è stato insegnante di scrittura creativa in varie parti del mondo, insegna Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria all’Università di Pisa. Nel 2002 ha fondato la rivista on line Sagarana.  «Il percorso dell’idea» è  stata la sua prima prova poetica del 1998 (Bandecchi e Vivaldi Pontedera).
Per  «La grazia di casa mia» si è rivolto a un gruppo di scrittori rumeni che hanno creato la casa editrice Rediviva con la pubblicazione di scrittori moldavi e rumeni che scrivono in Italiano, autori migranti. «C’è un grande significato simbolico in tutto ciò:  gli scrittori che hanno migrato scavalcano il sistema italiano.- dice Monteiro-. C’è stata una progressione: prima scrivevano in italiano pubblicati da italiani, ora un altro passo avanti, scrivono in italiano ma pubblicano con altri stranieri[1]»
«La poesia / si vestì di tutto punto / per la grande festa della domenica, / a solo due passi da casa sua. / Indirizzo alla mano, / si mise a camminare / tranquilla e decisa /[…] Pioveva però, / e le macchine / sfrecciando nelle pozzanghere / spruzzarono / la blusa linda stirata / di acqua sporca / mentre il fango / del marciapiede / inzaccherava l’orlo dei pantaloni». Così scrive Julio Monteiro Martins in «Un percorso poetico», che apre la raccolta. Questa Poesia che si inzacchera suo malgrado,  per strada incontra e raccoglie «in una busta di plastica / un gattino malato» e qualche cane maleodorante decide di seguirla. Per strada si lacera i vestiti e nel percorso non trova né il cancello che cercava né un varco e una luce. Comunque non si ferma finché non arriva ad una casa deserta: «Su uno sgabello / un vecchio quasi cieco / scarmigliato e intorpidito / guardando quella poesia sporca, / stracciona / non la riconobbe[…] -Sono riuscita ad arrivare, / ma in queste condizioni». Sono versi che segnano una netta spartizione tra ciò che per lui è poesia e ciò che non lo è.  Infatti la Poesia si mette in cammino nel rispetto dei canoni, con l’abito adatto alla grande festa, ma si trova presto a fare i conti con la vita, quella che sta fuori, nelle strade, che non si può fingere di non vedere. L’acqua sporca e il fango non la risparmiano. La vita vera è lì. Il varco montaliano continua a non apparire, eppure la Poesia non si ferma.
Il vecchio  non la riconosce. Chi è quel vecchio mezzo cieco e torpido? A chi è rivolto il je t’accuse metaforico di Monteiro?
Credo che si potrebbe aprire una vasta riflessione sul che cosa, il come, il dove della poesia, considerando un arco temporale che comprenda almeno tutto il secolo scorso. Senza escludere il chi: chi stabilisce che cosa è poesia e che cosa non lo è. Limite molto discutibile e discusso relativamente ad un genere letterario che tende a rimanere di nicchia, perché incute timore e reverenza nei più.
Se poesia si intende come  musicalità, poesia che canta e  lascia emozioni senza che il lettore possa afferrarne il nocciolo, non è questa la poesia di Monteiro. Se è la ricerca della parola di registro alto, o il calare un concetto dentro una perifrasi linguisticamente inafferrabile  ai più, anche questa non è la poesia del brasiliano. La poesia, lui dice, è stanca di metafore abusate: «infatti / non si può mica fare / poesia così. / E’ chiaro / non ci sono finestre / che si aprono verso l’anima / né porte / che si spalancano verso il passato».
Lui ha lavorato a «La grazia di casa mia» quasi sedici anni, e vi ha riversato la ricchezza del bagaglio linguistico di cui si stava appropriando con meraviglia e stupore, soppesando e rotolando nella bocca la parole che definivano questa sua nuova fase della vita. Si appropriava delle parole che definiscono le cose, per sentire la solidità del reale, padrone di uno scaffale vivente di sostantivi : «avevo tanta paura / dei sostantivi astratti / che mi sentivo al sicuro / persino tra gli aggettivi[…]  volevo circondarmi / di sostantivi concreti, / di cose semplicemente: / conchiglia, candela, / cometa, sapone, / vaniglia, frittella».
Ma il mondo cambia in modo strano, o forse è cambiato lui – dice con sottile ironia – c’è un grande vuoto intorno, la sua generazione si è spenta «come brace dispersa», allora  si recuperano i sostantivi astratti, «princìpi, lucidità, / equilibrio, equità, / riflessione / coerenza, correttezza, / fierezza, dignità, quelli che si  erano dati erroneamente per scontati, che invece hanno perso spessore nel tempo. La parola astratta diventa «un invito a riflettere, / a disegnare idee e / riversarle sulle cose / per dare loro un senso». Scrivere diventa un impegno etico del poeta, del resto, come  si legge nella postfazione di Alessio Pardi, «la scrittura è qualcosa di concreto, una sorta di legame reale, forse l’unico possibile tra il mondo delle cose e quello delle idee[…]la scrittura è una rivelazione rivelata. Il sogno esatto ma ancora perfettibile dell’unione tra l’idea e la cosa, tra l’anima  e il mondo». Impegno etico che la poesia riveste da tempo, insieme alla buona letteratura che secondo Monteiro rimane la più forte testimonianza di ogni momento storico.
Monteiro ha l’aspetto di un gigante che sorride, una voce che dà musica anche ai sassi, è un affabulatore che, dietro al ritmo cadenzato e lento, fa intuire molto di più di quel che dice. Del resto la sua vita, tra originalissima storia familiare – il padre assente e viveur, formazione culturale da parte materna, lotta alla dittatura brasiliana, impegno civile per i diritti umani e i ninõs de rua, esperienze  culturali statunitensi, impegno politico personale post dittatura,  delusioni ed esilio volontario – Portogallo, Italia- la sua vita non può stare in poche battute, è più il non detto.
Come nella poesia.
Lui ha abbandonato il Brasile dieci anni dopo la fine di quella dittatura militare  -1964-83-  contro cui aveva lottato, quando le prospettive della repubblica democratica indicavano che “al posto di cambiare il sistema ingiusto e pedissequamente filoamericano del periodo dei militari – sono parole di Monteiro – l’ha confermato e addirittura peggiorato con l’ondata neo liberale e le privatizzazioni corrotte del patrimonio pubblico». Definisce il suo abbandono «un suicidio amministrato», realizzato per  «riposare in pace» dalla vecchia vita e riprendere il cammino in quella nuova.[2] La terra da cui è fuggito, di cui conosceva ombre e miserie, da lontano, con l’Oceano in mezzo, appare scevra da quelle miserie, perché è casa: «stavo guardando /  quella mappa sul comò / attraverso il buchino / della molletta di metallo del fermacarte. / Ho centrato / la baia di Guanabara /e lì ho centrato casa mia».
La morte della madre, la morte della nonna nonché la solitudine in una grande casa, gli hanno dato la spinta finale a mettere in mezzo l’oceano, nella illusione di trasformare il dolore in nostalgia.  La nostalgia è trasversale alla raccolta, uno stato d’animo comunque più gestibile del dolore. Ma non ci sono barriere che tengano, il dolore si è accoccolato dentro, come in un’urna che ogni tanto trabocca:  si cerca sulla stessa mappa del Brasile un paese a nord, dove ci sono alte montagne e nebbie e intanto dentro gli scende il freddo, «il freddo dentro di me / sembra l’acqua che gocciola /dentro il frigorifero» -quello che ha dovuto scongelare perché non si chiudeva più lo sportello- «che c’entra il frigorifero / con il monte delle nebbie?/ Tutto c’entra con tutto / e la poesia è ovunque / caro mio».
L’immigrazione, lui dice,  è un trauma degenerativo che monta a poco a poco e finirà solo con la morte, perché dentro di noi rimane un antiquariato dell’anima, un vissuto che non ci abbandona e ritorna nei sogni: «ogni momento della nostra vita / si ferma / e si congela per sempre / da qualche parte / mentre noi crediamo / ingenuamente / di andare avanti».
La poesia è in quel senso di lacerazione, diviso il pensiero tra le due sponde dell’Atlantico, nelle condizioni di una «farfalla schiacciata / sotto il fondo trasparente / di un vassoio», con la sensazione di essere divorato da un giaguaro, come è successo al nonno nel sertão di Paraíba, in quella consapevolezza foscoliana di dover morire in esilio, «squallido ballo / senza musica, / corpi a dimenarsi / tra spasimi di ricordi / a scandire un ritmo vitale / ma sbagliato».
Poesia è il senso di straniamento per cui  si impara una seconda lingua ma si sogna in Portoghese, è paura: «quando mi sveglio ansimando / nel mezzo della notte / o la mattina presto stanco e ottuso / non so mai dove sono. / Tante volte / ho cambiato paese e città, / piume e pelame, / che non sempre riesco a ricordare / l’ultimo spaesamento»
Il ritmo vitale chiede comunque azione, pensiero: le relazioni umane, l’amicizia, la moglie, i figli, con i riti che si ripetono, danno il senso allo scorrere del tempo e colmano vuoti invisibili: «Ma chi ha detto / che la poesia /vale di più / di una tazza di tè? / Anche Eliot si imbatté / in questo dubbio / before the taking / of a toast and tea. / Io invece – ho già deciso – prendo il tè / con i biscotti al burro. / E così prendo anche la vita. / Almeno ci provo».  Nel suo tentativo di tracciare una rotta per sé e per gli altri, cerca almeno la rotta migliore «ero solo al porto ma ho seguito i passi / più svelti  / che ci fossero, / i più gioiosi / gli unici / che sembrassero ballare».
L’amore è sostegno e forza,  la sua scomparsa scava buchi dentro le persone, grandi come crateri. Se le spalle sono gravate da carichi insostenibili, l’affetto è curativo: «Mi siedo in poltrona, / chiudo gli occhi / e mi rendo baciabile, / fino a che non ci sarà / più nessuno / a volermi baciare». Il tempo è malfido, lo trasformerà senza scampo in polvere non baciabile, allora bisogna «afferrare il tempo / stringergli forte il polso» per godere della scintilla della sua permanenza. Si sente il bisogno di stare in un mondo piccolo, familiare, da difendere dagli attacchi esterni.
Ma la Storia non rimane oltre i vetri, né oltre l’oblò di una imbarcazione, gli eventi  premono su pareti e finestre, fuori tutto è precario, in movimento, si fa buio in pieno giorno, si costruiscono trappole senza scampo. Fuori si parlano parole canaglia, con accostamenti che provocano cortocircuiti : «Allora penso al nuovo secolo / quello delle guerre preventive, / dello stato canaglia, /  delle bombe esplose / per la libertà […] i sostantivi canaglia / del secolo cortocircuito / sono sassi imprevisti / sono puro fango mentale / mascherato / da diamanti retorici».
E’ stata solo un’illusione, quella che la Storia fosse sanata, invece avanza l’infezione sotto pelle, siamo «come bambini senza ricordi dei sacrifici / senza memoria di niente / senza conoscenza di noi stessi».  I terribili eventi dell’inizio di questo millennio hanno messo a nudo  la fragilità dell’esistere, hanno spalmato la paura su tutto il globo: «scrivo della mia grande paura / così disgraziatamente occidentale».
Per fortuna c’è la parola poetica, l’unica che costituisca un varco e allo stesso tempo un rifugio: «il vero mondo è abitato da parole, / non da uomini. Esse ci parlano, e così ci fanno esistere», ha già scritto a suo tempo ne   «Il percorso dell’idea»
Il mondo degli uomini è carico di tensioni e paure, subentra un bisogno di quiete.  Seduto immobile su uno scalino, nella piazzetta con la statua di Puccini al centro, mentre il tramonto si stende sui mattoni dei palazzi, arriva un canto. Sembra quello dell’uirapuru, minuscolo uccello dell’Amazzonia: quando canta, secondo una leggenda, scende un silenzio assoluto nella giungla, il giaguaro non ruggisce, le scimmie non urlano. Arriva nella piazzetta un uomo dai capelli bianchi -non più quello mezzo cieco e trasandato che non riconosceva la Poesia-   e gli dice che  quello è il canto dell’usignolo: «E’ l’usignolo. / canterà così / tutta la notte».
Si rinnova la magia della leggenda, torna la poesia salvifica,  perché poesia è dovunque, se la sappiamo riconoscere, perché è già dentro di noi. Con questa consapevolezza si può un po’ riposare: «Scende la notte / ma canta ancora / l’uirapuru toscano . / Fai scendere tu allora / il sipario della grande notte. / Dal tuo introvabile anfratto / fai zittire questa giungla. / E fai zittire anche me,  / che sono stanco».

[1] Intervista di Francesca Caminoli a Julio Monteiro Martins, in Una città n. 208/2013- dicembre

[2] Rosanna Morace, Un mare così ampio. I racconti-in-romanzo di Jiulio Monteiro Martins, Libertà ed. 2011

L'autore

Marisa Cecchetti