Narrativa transnazionale

Sulla stessa barca 2

SECONDA PARTE

Prove di scrittura

La trama come conflitto

Sette (Aiko Milagros Samanez Flores)
Vidi mia figlia piangere accanto al mio corpo ormai senza vita…
Sono nato il sette luglio del millenovecentosettantasette. Da lì ho capito che il sette era il mio numero fortunato. Sono il settimo di sette fratelli e come loro, sono immigrato in Italia. Gli studi non sono mai stati il mio forte, ma quello in cui ero molto bravo era il mio lavoro come muratore. Giovanissimo mi sposai ed ebbi la mia bellissima bambina. Quando arrivai in Italia, all’inizio è stato un po’ difficile: già la lingua da imparare è molto diversa dalla mia, a questo vanno aggiunti gli orari, i lavori in nero e gli infortuni, dai quali non sono guarito del tutto. Ma tutto sommato c’era la mia famiglia accanto a me. Che mi supportava ogni istante. Questo mi dava molto sollievo. Quando ebbi trent’anni per un colpo di fortuna ho ottenuto il permesso di soggiorno insieme ai miei familiari. Da quel momento vedevo che la cara Italia ci voleva bene o almeno era quello che credevo. Al lavoro mi hanno assunto, però il mio stipendio ha iniziato a calare per via dei contributi e altre cose che non ricordo bene. Arrivo a fine mese con la corda stretta al collo. Vedendo questo, mia moglie si mise a lavorare, perché voleva contribuire. Il mio capo cambiò atteggiamento, mi guardava come se fossi stato spazzatura quando mi ammalavo. Secondo la legge italiana, le persone assunte che si ammalano usufruiscono il cinquanta per cento della giornata remunerata. Ma neanche quello. Tirammo avanti. La cosa più importante era che stavamo insieme. Si avvicinava il compleanno di mia figlia, lei era molto emozionata, voleva delle scarpette da ballo e io le promisi di comprarle. Mi si spezzò il cuore in due, quando arrivò il grande giorno e non c’era niente sul tavolo. Mi guardò, sorrise e mi disse: “Tranquillo babbo ho te e la mamma che è già il regalo più grande che Dio mi ha potuto dare”. Ci siamo abbracciati e poi ho pianto. Dopo questa giornataccia ho pensato cosa sarebbe successo se non fossi uscito dal mio paese, se non avessi portato qua mia moglie ma poi ho pensato che grazie a lei c’era la mia ragione di esistere e mi sono addormentato. Arrivò quel fatidico giorno, quando ogni speranza si spezzò. Finii presto di lavorare e dopo andai dal mio capo, per chiedergli se mi poteva dare cinquanta euro di anticipo per comprare le scarpette a mia figlia. Lui stranamente era di buon umore, mi diede i soldi e mi offrì da bere. Cinque ore dopo, ubriachi, ci siamo diretti alla stazione per prendere la metro. Quando siamo arrivati, stranamente lui prendeva la stessa direzione, siamo scesi ai binari, mancavano due minuti all’arrivo del treno. Ad un certo punto, quando mancava un minuto, il padrone si è ritrasformato in quella persona orrenda che era e mi ha detto: “Caro mio, l’Italia non fa per te e non è mai stata per te, voi stranieri pensate di trasformare un sogno. Vi sbagliate. Volevo licenziarti, ma a pensarci bene, se muori non è che farà dispiacere a qualcuno. La tua cara famiglia se ne andrà, così avremmo due persone in meno.” Prese il mio portafogli e mi buttò tra i binari. Sentii la mia carne sbranata, le mie ossa scricchiolare e la mia vita che se ne stava andando. L’ultimo pensiero è stato: cosa ne sarà della mia famiglia?

La trama come enigma

Il mistero del parco (Antony Gomez)
La signora Carla era una signora anziana e sola che ogni sera passeggiava nel parco con il suo cane. In queste sue camminate incontrava spesso due ragazzi innamorati, Nicol e Lucas. Anche quel giorno la signora Carla scambiò qualche parola con loro e tutto sembrava nella normalità. Però la signora quella sera aveva percepito una strana sensazione, come se stesse per accadere qualcosa di terribile. Al momento non ha dato molta importanza alla cosa e ha salutato la giovane coppia come se niente fosse, ma tornando a casa la brutta sensazione era rimasta. La sera successiva, ritornata al parco per la sua passeggiata, notò subito l’assenza dei due ragazzi. Preoccupata, ha ripercorso più volte la stessa strada per incontrarli, ma di loro nessuna traccia. Per altri giorni, ogni sera, la signora Carla li cercò durante il suo tragitto, ma non li trovò. Passando vicino ad un’edicola, compra un giornale locale e scopre che i giovani erano scomparsi, spariti proprio poco dopo che l’avevano incontrata al parco qualche giorno prima. Le indagini erano già in corso, ma la polizia non aveva ancora scoperto nulla.
La donna era rimasta sconvolta dalla notizia. Pensò di andare alla polizia ma era confusa e dubbiosa, così decise di continuare la sua passeggiata e ritornò al parco con il cane. Passando lì vicino, sente il desiderio di sedersi sulla panchina dove ogni sera si sedevano i giovani innamorati, ma una volta arrivata vede che la panchina non c’era più. Al suo posto era cresciuto un albero. La signora Carla è rimasta perplessa e pensa di essersi confusa. Ma in realtà non si era sbagliata: in quel punto era cresciuto un albero. Non solo, guardandolo meglio, Carla si rende conto che si trattava di due tronchi intrecciati. Stupita da quella visione, non crede ai suoi occhi, pulisce gli occhiali e osserva più attentamente: i due tronchi avevano assunto un aspetto quasi umano. La vecchia signora si lasciò sfuggire un urlo a metà tra la paura e la sorpresa. I due tronchi erano proprio Nicol e Lucas. Così i due ragazzi sarebbero stati uniti per sempre e il loro amore sarebbe stato custodito in eterno da quel parco. Ogni sera la signora Carla passava e ripassava vicino a quel luogo incantato, sapendo dentro di sé che quei due alberi erano in realtà i ragazzi scomparsi.

Il vecchietto dal gilet blu (Aiko Milagros Samanez Flores)
È comparso dal nulla una fredda mattina di metà settembre. Indossava un gilet blu a rombi, pantaloni neri, scarpe nere. Portava uno zainetto blu. Borsa e abiti erano sporchi e vecchi. Si mise a chiedere i soldi ai guidatori delle macchine sulla strada di fronte a casa mia. Da quel giorno è immancabile. Tranne i fine settimana, quando scompare. È un vecchietto di statura bassa, capelli bianchi e grigi. Ogni volta che passo lo vedo camminare lento ma sempre con un bel sorriso in faccia. Alcune persone gli danno qualcosa altri no. Quando lo vedo mi porgo le domande: dove abita? Ha famiglia? Dov’è? Sarà straniero? Avrà qualche vizio per il quale chiede dei soldi? Spero veramente di cuore che abbia una casa e non dorma sotto un ponte o in un luogo freddo dove si possa ammalare. La sua famiglia lo invierà a chiedere dei soldi o lui lo farà per conto proprio? Ma a che proposito? Aiutare la sua famiglia? Forse si sono dimenticati di lui. Però a tal punto di lasciarlo così in quello stato? I figli possono arrivare a quello? Sarà in Italia legalmente? Magari non troverà lavoro, ma anche alla sua età non credo che ce ne siano molti. Se è straniero, perché finire in quelle condizioni a chiedere soldi? Perché non rimanere nel proprio paese che almeno conosce e sa come funzionano le cose? Non credo che abbia un vizio. Non l’ho mai visto ubriaco o drogato. Una volta mi è capitato di aspettare il tram e lui era lì seduto a mangiare una scatola di tonno e un cracker. Aveva le mani rugose e sporche. Gli tremavano ogni volta che mangiava un boccone. Mi sono sentita veramente male. Mi veniva voglia di stringerlo forte e dirgli che tutto andrà bene, che era solo temporaneo quello che stava succedendo.

La trama come colpo di scena

Il barattolo (Leandro Macasaet)/p>
Erano anni che Stella lavorava come collaboratrice domestica del signor Rossi e non aveva mai toccato nulla in quella casa. Poi vide quel barattolo e non seppe resistere. Era la prima volta che Stella assaggiava il caviale. Aveva posizionato una piccola quantità di caviale beluga tra pollice e indice. La bocca aperta e la mano sospesa in aria, con la coda dell’occhio aveva visto una figura che la stava osservando. Era il suo padrone.

La chiamata (Daniela Winkler)
Cerca instancabilmente. Trova l’ultima moneta. Driiin, Driiin! si sentì dall’altro lato del telefono.
“Pronto” gli risposero.
“Laura!” disse disperato.
“No. Numero sbagliato” poi misero giù.

Sliding doors

Scrivere finali alternativi ad alcuni raccontiUfficio postale

Testo di partenza (Paola Balotta)
Marta lavora in posta, da molto tempo. È stato il suo primo lavoro, aveva poco più di 20 anni. Ricorda il giorno in cui ha firmato il contratto; quel giorno è diventata adulta. Con il primo stipendio ha comperato […] Allora lavorare in posta era diverso: c’erano moduli da compilare con la biro nera o blu in grafia chiara e leggibile, e poi tagliandi da ritagliare, incollare, numeri da riportare sui registri incolonnandoli con cura, francobolli colorati da tenere in ordine nel faldone, lettere da timbrare per spedirle ed altre da timbrare all’arrivo. Le lettere soprattutto le piacevano […] Da qualche mese Marta ha cambiato ufficio; le hanno detto che avevano bisogno di lei qui, ma non è così stupida da non aver capito. Con i computer non è brava, impiega più tempo dei suoi colleghi a fare le cose, deve chiedere aiuto ogni volta che si blocca qualcosa. E a lei si blocca sempre qualcosa. L’hanno mandata qui perché non c’è niente da fare, e di lei non sanno più cosa farsene.
Ha dovuto riprendere a guidare.
Ogni mattina quando deve alzarsi dal letto le viene da piangere.
L’ufficio è piccolo, c’è solo lei, e non viene mai nessuno: vanno tutti al paese vicino, lei lo sa. Là l’ufficio è grande, colorato, con lo sportello automatico di fianco all’entrata e la possibilità di fare operazioni che Marta non ha mai capito bene cosa siano. Non le piace chiedere.
Lei era capace di fare una raccomandata per l’estero, e chi ha lavorato in posta lo sa che cosa vuol dire; in tanti uffici gli impiegati cercavano di scoraggiare chiunque, inventavano problemi; lei sorrideva e una dopo l’altra faceva tutte le operazioni necessarie.
Lo ha detto quando l’hanno convocata l’estate scorsa all’ufficio provinciale. Si pente di averlo fatto. Si vergogna al ricordo. Non l’hanno nemmeno ascoltata.
L’ufficio è brutto, un parallelepipedo di cemento isolato fuori dal paese, sigillato da ogni lato da porte di sicurezza e vetri. Da una parte è meglio: Marta ha paura ad essere sola in ufficio, e chiude accuratamente tutte le serrature. Però non si respira. Fa caldissimo.
Entrano due ragazzi stranieri. E questi cosa vogliono adesso?

Prima variante (Erik Castillo)
Vengono da lei e si presentano come fratelli, sono Yousef e Haseb, dicono che sono dell’Algeria e vogliono spedire una lettera alla loro mamma, perché lei non sa niente di loro da quando sono arrivati in Italia. Però hanno un piccolo problema: non hanno nessun recapito dove fare arrivare la spedizione, soltanto sanno il nome della mamma e della città… Marta è disperata e non sa cosa fare, anche se ci prova a ricavare più informazioni per questi ragazzi… Lei pensa un po’ e si ricorda di un film che ha visto l’anno scorso: Lion – la strada verso casa. Ma si lamenta di non poter fare come faceva il protagonista del film, che usava Google Earth. Lei invece non sa usare bene il computer. I ragazzi se ne vanno e Marta pensa che quella poteva essere una buona occasione per aiutare questi due ragazzi, che, tra l’altro, erano così carini…

Seconda variante (Nadia Colella)
Oddio… e se chiedono qualcosa in inglese o, peggio, nella loro lingua oppure in un italiano incomprensibile? Ho fatto i corsi di inglese… ma se sono agitata non capisco nulla!!! Caldo, che caldo… mi manca il respiro… Aiuto…” Marta si affloscia sulla sedia e cade a terra senza un lamento.
Lentamente riprende conoscenza, un viso preoccupato è chino sopra di lei sdraiata sul pavimento, le tiene il polso: “Non si spaventi signora, nel mio paese sono infermiere, ho chiamato il 118… ora arriva il medico… fa molto caldo qui dentro, lei ha poche pulsazioni… forse pressione troppo bassa… non c’è nulla di rotto… vuole che telefoni a qualcuno… marito… Il mio amico è andato a cercare aiuto…” Irrompono due persone nell’ufficio, si avventano sullo sconosciuto e lo immobilizzano, mentre Marta è issata su una barella: è come inebetita… non proferisce parola. Non le viene di dire niente. Darà la sua versione dei fatti quando si sentirà sicura, deve pensarci bene.

Terza variante (Angela Colombo)
I due individui, armati, le si avvicinano con un’aria minacciosa intimandole di consegnare il denaro contante. Marta viene dominata dalla paura. Sente Il suo cuore battere all’impazzata, il suo corpo come un carbone ardente e ogni parte della sua faccia tendersi come un elastico. Senza distogliere lo sguardo sbarrato dai suoi possibili assassini, Marta assiste inerte alla rapina. I due, tenendo d’occhio Marta, vengono folgorati dai suoi occhi pieni di paura di morire. La confortano dicendole che non le torceranno un capello. Poi portano a segno il colpo e salutandola fuggono col bottino.

Quarta variante (Rita Colombo)
Però non si respira. Fa caldissimo.
Dalla sua postazione nota davanti all’ingresso due ragazzi con un pacco, uno ha la pelle scura, l’altro sembra anche lui straniero. Mai visti prima. Marta cerca di prendere tempo prima di aprire la porta automatica e intanto pensa al da farsi. Sono proprio male in arnese, e che facce poi! Le ricordano i seguaci dell’ISIS che ha visto la sera prima in tv. Chissà cosa nascondono in quel pacco. Non sa cosa fare, non vorrebbe aprire, ma se poi quelli tornano con la loro banda? Possibile che non arrivi qualche cliente conosciuto, che possa darle una mano per difendersi da quei due? Sì… prima che si veda un cliente in questo maledetto ufficio abbandonato nel nulla… possono passare ore! Mentre temporeggia si convince sempre più delle loro cattive intenzioni, sono senz’altro rapinatori, appena dentro estrarranno le armi dal finto pacco. Intanto all’esterno i due ragazzi insistono a bussare sul vetro, fanno cenni sempre più concitati per farsi notare, ma Marta continua a far finta di non accorgersi di loro ed è pronta a chiamare la polizia. Alla fine i due lasciano il pacco davanti alla porta e ripartono in tutta fretta su un furgone. Marta è ancora sospettosa, lascia passare qualche minuto, poi apre cautamente la porta, raccoglie il pacco e lo deposita sul bancone. Lo scatolone non è da spedire, è indirizzato a lei. Lo scarta con un misto di curiosità e apprensione. Dentro, un biglietto: Dai tuoi ex colleghi, in ricordo degli anni di lavoro passati insieme. Sappiamo quanto ami cucinare, aspettiamo un invito a cena. La batteria di pentole Gourmet a lungo desiderata risplende sul fondo dello scatolone.

Quinta variante (Mariangela Quaini)
Marta lavora in posta, da molto tempo. È stato il suo primo lavoro, aveva poco più di 20 anni. Ricorda il giorno in cui ha firmato il contratto; quel giorno è diventata adulta. Con il primo stipendio ha comperato …… un kimono, lo ricorda perfettamente, alla Fiera Campionaria di Milano, uno sfizio, un acquisto certo non indispensabile; non avrebbe poi avuto mai il coraggio di indossarlo, quell’indumento di seta, neppure ad una festa di compleanno, come si era proposta, giusto per fare un po’ di scena coi suoi amici, ma la sua chicca esotica era contenta di averla nell’armadio. Alla Fiera d’aprile sì che si vedevano cose particolari, non come l’esotismo a buon mercato che adesso si trova ad ogni angolo di strada: mobili etnici, monili africani, poi scopri che è tutta roba “Made in China”! Certo il mondo era diverso, poi è arrivata la globalizzazione e tutto il resto: prima di stranieri ne vedevi qualcuno, qualche marocchino sulla spiaggia, se lo ricorda anche lei che non è giovanissima, ma come oggi, mai.Allora lavorare in posta era diverso: c’erano moduli a compilare con la biro nera o blu in grafia chiara e leggibile, e poi tagliandi da ritagliare, incollare, numeri da riportare sui registri incolonnandoli con cura, francobolli colorati da tenere in ordine nel faldone, lettere da timbrare per spedirle ed altre da timbrare all’arrivo. Le lettere soprattutto le piacevano.Da come gliele porgevano gli utenti cercava di intuirne il contenuto, a seconda della persona che stava dietro lo sportello tentava di indovinarne le motivazioni: venivano i fattorini delle ditte, era facile, ma quelle erano lettere di lavoro, non le interessavano; ogni tanto passava l’anziana signora che scriveva alla sorella, e non si fidava ad imbucare, voleva consegnarla proprio a lei, “all’impiegata”; poi c’erano le adolescenti che spedivano le raccomandate (per essere più sicure, dicevano) ai pen friends: ricevuto un indirizzo dalla scuola, intavolavano una corrispondenza con coetanei che risiedevano in un’altra parte del mondo. Il carteggio spesso durava poco, lo sapeva perché le ragazze con lei si confidavano, talvolta si interrompeva per qualche improntitudine delle scriventi, come quando una si era messa a scrivere al corrispondente turco, già iniziato alla carriera militare, degli scioperi a scuola, delle manifestazioni di piazza e di Lotta Comunista. Dall’aspirante soldato di Ankara non avrebbe ricevuto più nulla. Paesi travagliati ce ne sono sempre stati, doveva riconoscere, ma come adesso, tra carestie, guerre e dittature, mai viste tante scene in TV di fame, guerra, fuga; la tragedia dei bambini soldato, poi, almeno il turco frequentava l’Accademia Militare per studenti medi, ma questi sono proprio bambini!
Da qualche mese Marta ha cambiato ufficio; le hanno detto che avevano bisogno di lei qui, ma non è così stupida da non aver capito. Con i computer non è brava, impiega più tempo dei suoi colleghi a fare le cose, deve chiedere aiuto ogni volta che si blocca qualcosa. E a lei si blocca sempre qualcosa. L’hanno mandata qui perché non c’è niente da fare, e di lei non sanno più cosa farsene.
Ha dovuto riprendere a guidare.
Ogni mattina quando deve alzarsi dal letto le viene da piangere.
L’ufficio è piccolo, c’è solo lei, e non viene mai nessuno: vanno tutti al paese vicino, lei lo sa. Là l’ufficio è grande, colorato, con lo sportello automatico di fianco all’entrata e la possibilità di fare operazioni che Marta non ha mai capito bene cosa siano. Non le piace chiedere.
Lei era capace di fare una raccomandata per l’estero, e chi ha lavorato in posta lo sa che cosa vuol dire; in tanti uffici gli impiegati cercavano di scoraggiare chiunque, inventavano problemi; lei sorrideva e una dopo l’altra faceva tutte le operazioni necessarie.
Lo ha detto quando l’hanno convocata l’estate scorsa all’ufficio provinciale. Si pente di averlo fatto. Si vergogna al ricordo. Non l’hanno nemmeno ascoltata.
L’ufficio è brutto, un parallelepipedo di cemento isolato fuori dal paese, sigillato da ogni lato da porte di sicurezza e vetri. Da una parte è meglio: Marta ha paura ad essere sola in ufficio, e chiude accuratamente tutte le serrature. Però non si respira. Fa caldissimo.
Entrano due ragazzi stranieri. E questi cosa vogliono adesso?
I ragazzi chiedono un servizio che in quello sportello postale non viene erogato, lei cerca di farsi capire, devono recarsi alla posta del paese vicino, ma i due sembrano non intendere, dopo diversi tentativi uno dei due, spazientito, le chiede: “Allora tu che ci fai qui?”. Bella domanda, pensa tra sé, come glielo spiego io a questi che mi hanno parcheggiata qui perché non sapevano dove mettermi, che con l’informatica non sono mai andata d’accordo e che la mia vita professionale, e forse non solo quella, è un fallimento? Sposta un paio di faldoni per nascondere il nervosismo quando l’altro ragazzo esclama: “Ma tu sei la zia di Laura, la nostra compagna di classe!”, lei guarda prima uno poi l’altro, in effetti ha l’impressione di averli già visti, forse a casa di sua sorella, assieme ad altri amici della nipote. Dio mio, adesso cosa faccio, probabilmente si aspettano aiuto, che io dia una mano, ma anche volendo… quelli di là certo non li aiuteranno, anzi, se chiamo io, se capiscono che sono miei conoscenti, potrebbe essere anche peggio… Che brutta figura con Laura!
Il mal di stomaco aumenta, pensa alla pensione e maledice quel lavoro che la vede ghettizzata in ufficio che serve a poco più di niente. Poi si sente in colpa: lamentarsi quando si ha un lavoro è una bestemmia, basterebbe pensare a chi il lavoro non ce l’ha o a tutti quelli che, se il lavoro lo perdono, sono nei guai, loro e tutta la famiglia. Istintivamente il pensiero corre alla condizione giuridica dei due ragazzi che ha davanti, legata a doppio filo com’è all’impiego dei genitori: saranno cittadini italiani questi due ragazzi? E se i genitori dovessero perdere il posto di lavoro?
Si riscuote dalle sue riflessioni, vorrebbe saper reagire al senso di impotenza, ma non le viene nessuna idea. D’un tratto guarda l’orologio e si accorge che forse il gong può trarla d’impaccio, quindi si alza e, in mancanza di cartello elettronico, gira un foglio formato A4 inserito in una busta trasparente, e dice: “Mi spiace stiamo per chiudere” e lascia i due ragazzi con un palmo di naso davanti alla scritta che torreggia da dietro il vetro: “CHIUSO”.

Sesta variante (Aiko Milagros Samanez Flores)
La salutano gentilmente e le chiedono di fargli una assicurata per l’estero, lei molto fiera lo fa senza paura. I ragazzi la ringraziano e se ne vanno. Col passare dei giorni li vede molto spesso. Si salutavano sempre. Un giorno uno di loro entra in ufficio e le chiede se vuole venire con loro in una avventura nella giungla nell’Amazzonia. Lei molto titubante gli disse che ci avrebbe pensato. Trovandosi tutta da sola si è chiesta perché no. Tanto non aveva niente da perdere. Ormai si era stancata della vita monotona che faceva. Il giorno seguente gli dice di sì. Si licenziò e andò con loro. Arrivati in Amazzonia si sentiva molto emozionata di aver fatto qualcosa d’incredibile. Per giorni e giorni si sono addentrati nella foresta, mi sa un po’ troppo. Li ha catturati gli uomini di una tribù e li hanno dati in sacrificio alla Quilla per avere un buon raccolto quest’anno. Lei non ebbe paura di morire. Almeno la sua vita era servita per il bene della tribù.

Contaminazione

Testo di partenza (Nadia Colella)
In poco tempo avevo spogliato la casa delle cose accessorie, ninnoli, quadri, specchi, lampadari, tutto ciò che era superfluo: rimanevano solo i mobili essenziali e quelli più belli, che erano anche quelli più intrisi di ricordi. Era ora che le pareti tornassero bianche: volevo togliere quella patina grigiastra di sporco che ricopriva i soffitti e rinfrescare quei muri ingialliti; e far verniciare gli infissi. Celestino si presentò alla porta con un’aria un po’ stanca, gli occhi erano vigili; non so più dare un’età alle persone… so che non era giovane; capelli ricci, più grigi che castani, alto come me; pelle un po’ olivastra; le dita erano macchiate di marrone. Mi era stato consigliato da un’amica: “Chiamalo… è bravo e affidabile”. Argentino, a Milano da una decina d’anni. Restauratore di mobili, e, all’occorrenza, imbianchino o tappezziere e anche altro. Non sapeva quando il mio appartamento sarebbe stato pronto… non aveva molto tempo libero… sarebbe venuto le domeniche necessarie con qualche capatina in settimana; all’inizio fui perplesso… avevo fretta di vedere tutto finito al più presto, perché io sono così, voglio sempre tutto subito; ma poi pensai che, in fondo, ancora non sapevo che cosa avrei fatto di quella casa…: l’avrei mai riabitata? Non ci saremmo dati fastidio, io ero spesso fuori per lavoro, anche nel weekend, e comunque l’appartamento era abbastanza grande perché non ci intralciassimo. E ci accordammo. Non era un gran periodo per me: mi ero tuffato nel lavoro con ritmi frenetici; niente svaghi, pochi amici, una solitudine cercata più che capitata: avevo perso mio padre da poco e il lavoro mi anestetizzava.
Lo guardavo mentre si dava da fare: era meticoloso; si muoveva lento e silenzioso, si fermava spesso a controllare il risultato. Lavorava con calma e una precisione che mi stupiva: a prima vista uno poteva pensare che se la prendesse un po’ comoda e fraintendere la sua accuratezza. Si muoveva con grazia, le mani maneggiavano gli strumenti con attenzione. Se dovessi definirlo, a costo di far retorica direi che lavorava quasi con amore. Ma se mi chiedi com’era Celestino… non saprei… Era malinconico? Era felice? Era timido? Era composto. Un pomeriggio sentii dalle scale la musica e mi fermai ad ascoltare davanti alla porta. Non l’avevo riconosciuta… ma… che emozione… Entrai in casa. Per terra uno stereo portatile e CD impilati. Astor Piazzolla, sbirciai dalle copertine. Celestino bloccò lo stereo… come se lo avessi sorpreso in un momento di intimità; lo invitai a riaccendere: mi era piaciuto sentire la musica salendo le scale. Come quando ero bambino.
Non ci fu mai un gran dialogo fra noi, non ci furono confidenze; si parlava, a volte, della sua grande passione. Sverniciava l’infisso di una finestra e mi spiegava che Piazzolla aveva reinventato il tango argentino nella contaminazione con altri ritmi, e che il suo tango andava soprattutto ascoltato più che danzato. Che questo grande compositore era di origini italiane e aveva scritto musiche come Libertango, Oblivion… famose in tutto il mondo… Che Adios nonino, che era diventata la mia preferita, l’aveva composta quando il padre era morto. Che aveva iniziato suonando una specie di fisarmonica, lo strumento indispensabile nelle orchestre di tango argentino. Io di Astor Piazzolla sapevo poco o niente, ma mi lasciavo contagiare e ascoltavo con trasporto quelle note struggenti. Anche quando ero solo. Vecchi ricordi e immagini nuove pervadevano la mia mente.
Per ultimo Celestino lucidò le maniglie di ottone e con pazienza tolse il nero che si era annidato nelle parti incise: mi disse di non cambiarle, perché erano belle e ben fatte.
Quando il lavoro finì, se ne andò come un estraneo. L’appartamento sembrava rinato: le pareti luminose, gli infissi verniciati di fresco, le maniglie d’ottone splendenti. Odore buono di pittura.
Sulla mia scrivania trovai un CD.

Prima variante (Christiana De Caldas Brito)
L’appartamento era pronto. Celestino si era offerto di fare la pulizia finale. Non so se le case possono sentirsi meglio quando vengono svuotate come avevo fatto con la mia. L’eccesso di mobili e troppi oggetti di antiquariato avevano soffocato la mia casa. La volevo libera.
Celestino sarebbe andato via appena finita la pulizia. Doveva solo sbattere la porta che non si apriva da fuori. Sarei arrivato presto quella sera e gli avevo lasciato una busta con l’assegno che copriva le spese di materiale e mano d’opera.
Tornando a casa, prima di prendere l’ascensore al pianterreno, sentii la pungente fisarmonica di Piazzolla. Celestino è ancora a casa che lavora, mi dissi. Ero contento di trovarlo, ormai abituato al suo atteggiamento discreto, ai gesti silenziosi con cui muoveva i suoi strumenti di lavoro. Avrei sentito ancora gli strani tangos che mi erano entrati in testa e nel cuore. Avrei approfittato per chiedergli di registrarmi quel CD.
Davanti alla porta di casa il volume della musica era molto più alto. Aprii la porta e gridai forte in modo da superare l’altezza della musica: “Celestino, sono io!” Non volevo spaventarlo con la mia presenza. Nessuna risposta. Lo cercai in tutte le camere, stordito dalla musica. Celestino se n’era andato. Cercai lo stereo per abbassare l’audio. Non c’era. Da nessuna parte.
La casa, impeccabilmente pulita, era quasi del tutto vuota, ma la musica era salita sulle pareti della sala senza quadri, si era rovesciata sul pavimento nudo di tappeti, vibrava negli spazi vuoti dove prima erano stati alcuni mobili. Andai in camera mia. Anche lì insistenti suoni si erano messi sul mio letto, sembravano ballare in perfetto accordo con le note del tango di Piazzolla. Le note della fisarmonica giravano, giravano in un vortice. Mi resi conto che c’era qualcosa di ossessivo in quel ritmo che andava avanti, tornava e andava avanti per subito tornare ancora ai primi accordi.
Dopo alcuni giorni vissuti in assoluta sintonia con quella musica incessante, il tango prese possesso, prima dell’appartamento, poi, di me. Oggi, viviamo nel suo ritmo, respiriamo le note della fisarmonica di Piazzolla, totalmente invasi, completamente contaminati, io e la casa.

Seconda variante (Angela Colombo)
In poco tempo avevo spogliato la casa delle cose accessorie, ninnoli, quadri, specchi, lampadari, tutto ciò che era superfluo… Rimanevano solo i mobili, soprattutto quelli più intrisi di ricordi. Era ora che le pareti tornassero bianche: volevo rinfrescare quei muri ingialliti; e far verniciare gli infissi. Celestino si presentò alla porta con un’aria un po’ stanca, ma gli occhi erano vigili. Non so più dare un’età alle persone… so che non era giovane: capelli ricci, più grigi che castani, alto come me, pelle un po’ olivastra. Le dita erano macchiate di marrone. Mi era stato consigliato da un’amica: “Chiamalo… è bravo e affidabile”. Argentino, a Milano da una decina d’anni. Restauratore di mobili, e, all’occorrenza, imbianchino o tappezziere e anche altro. Non sapeva quando il mio appartamento sarebbe stato pronto… non aveva molto tempo libero… sarebbe venuto le domeniche, con qualche capatina in settimana. All’inizio fui perplesso… avevo fretta di vedere tutto finito al più presto, perché io sono così, voglio sempre tutto subito; ma poi pensai che, in fondo, ancora non sapevo che cosa avrei fatto di quella casa… L’avrei mai riabitata? Comunque io e lui non ci saremmo dati fastidio, io ero spesso fuori per lavoro, anche nei weekend, e comunque l’appartamento era abbastanza grande perché non ci intralciassimo. E ci accordammo. Non era un gran periodo per me: avevo perso mio padre da poco e il lavoro mi anestetizzava.
Lo guardavo mentre si dava da fare: era meticoloso, si muoveva lento e silenzioso, si fermava spesso a controllare il risultato. Lavorava con calma e una precisione che mi stupiva… A prima vista uno poteva pensare che se la prendesse un po’ comoda e fraintendere la sua accuratezza. Si muoveva con grazia, le mani maneggiavano gli strumenti con attenzione. Un pomeriggio sentii dalle scale la musica e mi fermai ad ascoltare davanti alla porta. Non l’avevo riconosciuta… ma… che emozione… Entrai in casa. Per terra uno stereo portatile e CD impilati. Astor Piazzolla, sbirciai dalle copertine. Celestino bloccò lo stereo… come se lo avessi sorpreso in un momento di intimità; lo invitai a riaccendere: mi era piaciuto sentire la musica salendo le scale. Come quando ero bambino.
Io di Astor Piazzolla sapevo poco o niente, ma mi lasciavo contagiare e ascoltavo con trasporto quelle note struggenti. Anche quando ero solo. Vecchi ricordi e immagini nuove pervadevano la mia mente.
Per ultimo Celestino lucidò le maniglie di ottone e con pazienza tolse il nero che si era annidato nelle parti incise: mi disse di non cambiarle, perché erano belle e ben fatte.
Quando il lavoro finì, se ne andò, dimenticandosi il suo stereo con dentro il CD di Piazzolla. L’appartamento sembrava rinato: le pareti luminose, gli infissi verniciati di fresco, le maniglie d’ottone splendenti. Odore buono di pittura.
Gli telefonai, dicendogli che avrebbe potuto recuperare lo stereo da un vicino di casa e che
lo ringraziavo di avermi offerto la grande occasione per la quale valeva la pena di essere ladro.
Dopo qualche giorno, sulla mia scrivania, trovai un CD.

Terza variante (Mariangela Quaini)
In poco tempo si era sbarazzato dei ninnoli: acquisti di viaggio, bomboniere di vecchi parenti, regali di amici senza volto, acqua passata, oramai, cianfrusaglia senza senso. I mobili no, la credenza in legno massello e il divano in radica, quelli non si toccavano: troppi ricordi, li aveva comprati suo padre quando lui era ancora bambino.
Quella casa aveva veramente bisogno di una bella rinfrescata, le pareti leggermente scrostate, gli infissi anneriti erano segni del tempo, di un tempo che comunque non sarebbe più tornato. L’indomani sarebbe arrivato Celestino, l’uomo tutto fare consigliatogli da un’amica; sapeva che era argentino e che era a Milano da una decina d’anni.
Il giorno successivo Celestino si presenta alla porta con un’aria un po’ stanca, gli occhi sono vigili, lui non sa dare un’età alle persone, certo non è più giovane. Capelli ricci, più grigi che castani, alto come lui, pelle un po’ olivastra, le dita macchiate di marrone.
Quando sente che Celestino potrà occuparsi del suo appartamento solo nei ritagli di tempo, rimane perplesso, abituato com’è a programmare avrebbe preferito poter fissare tempi di lavoro, decidere scadenze, ma alla fine si convince che non fa poi una gran differenza: non ha ancora deciso se potrà tornare a viverci, in quella casa, dopo così tanto tempo, dopo tanta vita.
Suo padre è morto da poche settimane e lui si è buttato a capofitto nel lavoro, gli serve da anestetico; nella casa del padre ci sta poco e niente, l’appartamento è grande, con Celestino si incrociano raramente perché lui, in trasferta rispetto alla sua sede di lavoro abituale, è fuori per la ditta anche durante il week end. Non è un gran momento, non vuole incontrare gli amici di una volta, risponde malvolentieri alle mail e talvolta lascia che il telefono squilli. Vuole star solo, vuole riflettere. Il fatto è che non ci riesce.
Ogni tanto osserva Celestino mentre lavora: si muove lentamente, mai uno scatto o un movimento brusco. Terminata una rifinitura, si ferma a controllarla, la guarda a distanza, magari apporta dei ritocchi; nota che è meticoloso, non fosse per il rischio di cadere nella retorica, gli verrebbe da dire che lavora proprio con amore. Ma com’è Celestino? È malinconico? È triste? No è una persona riservata e composta, ecco, dovesse trovare un aggettivo per quest’uomo che lavora adagio, ma con cura e senza mai fermarsi, direbbe proprio che è una persona composta.
Un pomeriggio, salendo le scale, sente una musica, entra in salotto e scopre che Celestino sta ascoltando alcuni CD con lo stereo portatile che si è portato: sembra colto di sorpresa, Celestino vorrebbe spegnere, ma lui lo prega di lasciare che la musica suoni. Poi, senza niente, esce dal salotto, entra nella stanza accanto senza accendere la luce e, appoggiandosi alla parete, socchiude gli occhi. Inutile pensarci: indietro non si può tornare.
Quelle rare volte che lo trova a casa, non si parlano molto lui e Celestino; il factotum è un lavoratore taciturno, solo per il tango, il tango argentino, si infervora e si accalora. In quei momenti diventa loquace, quella passione gli scioglie la lingua, e allora si prodiga in lunghe spiegazioni che lui, ignorante, capisce a stento. Lui comprende solo che la gente si sbaglia, il tango non è solo casqué e sensualità, il tango è musica struggente, nostalgica. Quando Celestino se ne va lui continua a sentirsi i CD: sembravano fatti l’uno per l’altro, il tango e il suo dolore, quel dolore rattenuto che gli rantola dentro e non vuole uscire.
Celestino ha completato il suo lavoro: sono luminose le pareti e splendenti le maniglie di ottone (belle, aveva detto Celestino raccomandandosi di non cambiarle), gli infissi sono tirati a lucido e l’appartamento sembra tornato a vivere.
Celestino raccoglie i suoi attrezzi di lavoro, avvolge il cavetto dello stereo portatile e raccoglie i suoi CD, ne conta nove, pensava di averne portati dieci, ma forse si è sbagliato. Saldato il conto, lui gli tiene aperta la porta perché possa passare con tutto il suo carico, e lo ringrazia ancora. Chiude l’uscio e, di soppiatto, si avvicina allo stereo nello studio, estrae dalla tasca interna della vestaglia un CD e lo osserva: “Tango Argentino” recita il titolo in copertina: Celestino lo perdonerà, ma quella sera del tango non può proprio fare a meno. Infila il CD nel vano e si siede in poltrona, non ha neppure bisogno di pensare a suo padre, la fisarmonica si impone sugli altri strumenti e si apre un varco nelle sue resistenze, gli basta spegnere la luce e il dolore, finalmente, si tramuta in pianto.

Storia di Hisham

Testo di partenza (Paola Balotta)
Hisham è arrivato in Italia la scorsa estate; ha 17 anni e se suo padre non avesse fatto il ricongiungimento famigliare quest’anno, non lo avrebbe più potuto far venire. Sua mamma e i fratelli sono rimasti in Egitto.
Va a scuola, ma non capisce niente di quello che succede intorno a lui: non sa la lingua, e gli insegnanti si comportano diversamente da quelli a cui era abituato. Non andava a scuola da diversi anni, ma suo zio ha insistito. E comunque non ha altro da fare. Al pomeriggio va in palestra: un amico ha un abbonamento, e non controllano tanto. Suo padre gli ha regalato una playstation, e passa parte del pomeriggio a giocare. La sera telefona a casa in Egitto e parla con sua mamma. Quando suo padre torna dal lavoro prepara qualcosa per cena. Mangiano spesso pizza o kebab e patatine. Suo padre gli chiede come va a scuola e lui risponde “tutto bene”. Non sono abituati a stare insieme, si vedevano solo d’estate quando il padre tornava in Egitto in vacanza e non hanno molto da dirsi.
Hisham ha imparato a prendere i mezzi pubblici per andare a scuola, e a volte cambia percorso e esplora zone nuove della città. Ma poi non ricorda i nomi dei posti. Quando sale sull’autobus o sul tram tutti stringono un po’ di più la loro borsa; quando si siede accanto a qualcuno, lo vede ritrarsi. Come se lui avesse un cattivo odore.
Hisham è molto arrabbiato, ma non sa con chi prendersela.

Prima variante (Caroline Braga)
La sua famiglia non è mai stata troppo religiosa, a casa non si facevano i ramadan né i suoi andavano spesso alla moschea. Ma un bel venerdì Hisham decise di andare alla moschea del suo quartiere, pensò che la religione magari avrebbe potuto aiutarlo a trovare un po’ di conforto, e più che altro lì, lui avrebbe potuto conoscere degli altri ragazzi della sua età, che parlavano la sua lingua, sarebbe stato anche un posto dove fare nuove amicizie, visto che a scuola, lui non ne aveva tante.
E così è successo, Hisham trovò un posto dove si trovava bene a Milano, iniziò a mancare a scuola tutti i venerdì per andare alla moschea. Conobbe dei ragazzi magrebini che inizia a frequentare, ragazzi che, come lui, non si trovano bene in Italia, che come lui, non avevano molta prospettiva di vita nel loro paese e sono venuti in Europa, seguendo qualche parente, seguendo un sogno, ma che in una certa maniera, sono rimasti delusi.
Fra questi ragazzi, c’era Mohamed, un marocchino di 22 anni, da poco arrivato in Italia, dopo aver vissuto in Francia, essere stato per un certo periodo in Siria, ed essere stato segnalato dalla polizia francese per la sua radicalizzazione.
Mohamed spesso invita Hisham e qualche altro ragazzo per mangiare, fumare, giocare al biliardo. Paga sempre lui. È un tipo intelligente, il suo linguaggio è articolato, si veste bene, ha una bella macchina, fa impressione a Hisham ed agli altri. Parla con odio dell’Italia, di tutto l’Occidente, ed è bravo a manipolare i ragazzini, a far crescere anche in loro la rabbia.
Loro si aggiungono su Facebook. Nella pagina di Mohamed, Hisham vide dei post e dei video che lo intrigarono. Ed improvvisamente si trova a fare parte di una comunità, che condivide la sua rabbia.
La mancanza di sua madre gli fa male, lontano da lei, da tutti, da tutto si sente perso, mentre la sua amicizia con Mohamed si stringe. A un certo punto, egli gli racconta del suo allenamento in Siria. Questo addestramento aveva un obiettivo: un attacco in Italia. Ed era il suo ruolo reclutare dei ragazzi con il profilo di Hisham per farne parte.
Pochi mesi sono stati sufficienti perché Mohamed riuscisse a formare il suo team. Comunque non ci vuole tanto per convincere dei ragazzini che sono già deboli di testa.
Anwar, 19 anni, tunisino. Obiettivo: Piazza del Duomo.
Zaher, 22 anni, anche lui egiziano. Obiettivo: Corso Buenos Aires.
A Hisham tocca Via Dante.
Gli attacchi sono stati pianificati per un sabato pomeriggio. Arrivata la mattina, si trovano da Mohamed. Si fanno un bel pranzo, l’ultimo pranzo, tranne per Mohamed, che riuscirà a scappare tornando in Siria.
Cinture esplosive a posto, ognuno si dirige verso il suo obbiettivo.
Mentre si avvicina a via Dante, Hisham suda freddo, si sente il cuore sparato. Pensa a tutte le persone che perderanno dei figli, dei genitori, dei fratelli, delle sorelle. Alle persone che si faranno male. Al dolore che causerà a sua madre. C’è ancora tempo per cambiar idea. Ma lui va avanti. Per la prima volta si sente parte di un progetto. Si guarda intorno e si accorge che odia l’Italia, odia gli italiani, odia i turisti. E dice a se stesso: “Anche la mia famiglia è sfigata, e la sofferenza, anche queste persone se la meritano”. E con la rabbia addosso urlò “Allahu Akbar”.

Seconda variante (Caroline Braga)
Un certo giorno, mentre faceva il suo giro, è passato davanti a un negozio siciliano e si è comprato lo sfincione. È stufo di mangiare sempre il cibo arabo, lui vede cosa mangiano gli italiani quando sono in giro e vuole mangiare quello che mangiano loro. Si siede su una panchina in una piazzetta pochi metri davanti al siciliano, e mentre assaggia lo sfincione pensando “Non è male”, vede avvicinarsi un bastardino che si siede davanti a lui. È un cucciolo, dal pelo marrone chiaro e luminoso, ha lo sguardo triste, tenero, agita la coda, mentre fissa lo sfincione.
Hisham si guarda intorno, cercando il padrone del cane, ma non vede nessuno.
“Sarà da solo? Sarà scappato? O abbandonato? Un cucciolo così carino in giro da solo, senza guinzaglio, niente…” Spezza la punta del suo sfincione e lo dà al cane, che lo divora.
“Poveraccio, ha fame. E freddo certamente”. Hisham lo accarezza, e il cane sembra sorridergli.
Diventa buio. Sono ancora le cinque e mezzo, ma siamo a dicembre. Hisham decide di andare a casa, fra poco arriva suo padre. In arabo, saluta il cagnolino e se ne va.
Prende la direzione di casa e dopo qualche passo si rende conto che non è da solo. Il cane lo seguiva.
Hisham ride e continua a camminare. Si ferma alle strisce, aspetta che il semaforo si fermi per attraversare la strada, e vede il cucciolo sedersi di fianco a lui.
“Che roba, gli ho dato da mangiare e lui si è innamorato di me”.
Cammina più veloce per distanziare il suo stalker, ma non serve a nulla, lo fa anche lui.
Arrivati alla fermata dell’autobus, pensa: “Vedo spesso gli italiani che prendono i mezzi con i cani…” E sempre in arabo, dice al cane “Dai, scherziamo un po’, ti porto a fare un giro in autobus”.
Con il cucciolo sulle ginocchia, vede tante persone che gli sorridono, e certe che gli dicono “Che carino!”.
Una signora si siede di fianco a loro e sorridendo glielo chiede:
“Come si chiama?”
“Ciccio”
Aveva già visto in tv un cane che si chiamava Ciccio.
Gli piaceva far finta di avere un cane. E subito decise di avere un cane. Se tante persone lo fanno, una ragione ci sarà. Il fatto che le persone lo guardino in una maniera diversa adesso che è in compagnia di un cane è già qualcosa. A parte che l’idea che quel piccolo animale, così carino e indifeso, dormisse sul marciapiede in una notte così fredda, gli faceva pena.
Consapevole che sarebbe una pazzia, ci prova lo stesso. Entra a casa con il cane.
Suo padre è arrivato da poco, gli prepara la pasta.
Quando lo vede entrare con il cagnolino in braccio, dice:
“Cos’è questa storia Hisham?”
“Lui mi seguiva per strada babbo. Non ho avuto il coraggio di chiudergli la porta in faccia, fa troppo freddo”
“Ma sei fuori?! Liberati di questo cane immediatamente Hisham!”
“Babbo… Tanti italiani hanno un cane. Voglio averne uno anch’io”
“Non siamo italiani, un cane dentro casa è Haram. Non se ne parla neanche”
“Non siamo italiani, ma la pasta ce la mangiamo?! Non so più cosa siamo, cosa sono. Tu mi hai portato in Italia, ma non posso permettermi di far niente di quello che fanno tutti. Sono stufo di esser diverso da tutti i miei compagni di scuola”.
“Ma tu cosa dici? Allora tutti quanti della tua scuola hanno un cane? Ci mancherebbe”
“Non parlo solo del cane e tu lo sai, babbo. Ma ti prego, lo prendiamo? Mi farai il ragazzo più felice al mondo. Il Corano dice che il cane è amico dell’uomo, ti faccio vedere, l’ho trovato su Google”
“Smettila Hisham. Domani mattina, visto che tu non devi andare a scuola, cerchi sul tuo Google un’associazione che si occupa degli animali. Non lo buttiamo sulla strada, visto che è troppo piccolo e che fa così freddo, non siamo cattivi comunque”.
Si mangiano la pasta tutti e tre. Il discorso sul cane prosegue, ma il padre è irriducibile.
Hisham va a coricarsi e mette per terra uno straccio, accanto al suo letto, per Ciccio.
La mattina, appena apre gli occhi trova subito Ciccio seduto davanti a lui, che lo guarda e lo aspetta. Lo aveva eletto il suo padrone, e questo lo commuoveva.
“Sei la cosa più bella che mi è successo da che sono arrivato in questo paese. Adesso che siamo diventati amici, come farò senza di te?”
Esce della sua camera e trova suo padre che sta aprendo la porta per uscire. È sabato, ma lui lavora lo stesso.
“Sei consapevole della responsabilità che rappresenta avere un cane? Si deve farlo uscire, dargli da mangiare, portarlo dal veterinario, ecc.”
“Si babbo, e ti prometto che me la assumo”
E con il viso serio come di solito, anche quando c’è una cosa bella da dire, chiudendo la porta suo padre glielo dice:
“Ti ho lasciato i soldi. Compragli un guinzaglio e dei mangimi”.

Terza variante (Marta Cabrini)
Hisham è arrivato in Italia la scorsa estate. Ha diciassette anni. Ha raggiunto il padre che qui vive e lavora da molti anni. Sua mamma ed i fratelli sono rimasti in Egitto. A Milano Hisham si sente molto solo. Non ha amici. Suo padre è al lavoro tutto il giorno, poi, con lui non ha molta confidenza. Non sono abituati a stare insieme. Si vedevano solo d’estate quando suo padre tornava in Egitto in vacanza. Non hanno molto da dirsi. Non conosce questa nuova lingua e non capisce cosa accade intorno a lui. Tuttavia, ogni giorno gira per il quartiere dove abita, curioso di tutto questo nuovo.
Ed una mattina vede molti ragazzi ed anche qualche ragazza che entrano in un edificio. Non sono sicuramente italiani. Lui li ha ascoltati parlare. Linguaggi sconosciuti. Ma ecco che, improvvisamente alcuni di loro parlano in arabo come lui. Finalmente capisce! Il buio nella sua mente scompare. Si sente a casa. Si avvicina a loro e chiede dove vanno, cosa fanno, da dove vengono. Sono marocchini, tunisini e perfino due ragazzi egiziani come lui. Hisham si sente strano e leggero. Pieno di emozione. Finalmente può parlare. I ragazzi gli dicono che stanno andando a scuola. Una scuola di italiano per stranieri. Può entrare anche lui se vuole. È aperta a tutti. Non costa nulla. Ci sono delle donne, delle ragazze che insegnano loro a parlare, a scrivere ed a leggere nella nuova lingua. Hisham esita. Ha un po’ di paura. Poi si fa convincere. Entra in una grande stanza con tanti tavoli e sedie intorno. È il salone della biblioteca. In mezzo uno spazio vuoto. In un angolo un tavolino con the, caffè, biscotti per accogliere chi arriva. Chi ha bisogno di fare colazione. Tutti si salutano, parlano, scherzano. Ci sono ragazzi dalla pelle di varie tonalità dal nero al caffelatte, dall’ambrato al bianco. Negli occhi di molti, anche quando sorridono, traspare un velo di tristezza, nostalgia e vuoto profondo. Alcuni sono spavaldi, altri molto timidi e riservati ed hanno bisogno di essere spronati. Alcuni fanno giochi ai tavoli. Altri con cartellini che riproducono le lettere dell’alfabeto e le immagini degli oggetti formano le parole, orgogliosi dei loro successi. Ad un certo momento una delle insegnanti dice qualcosa, i giochi vengono riposti, tutti vanno nello spazio al centro del salone e formano un grande cerchio. Anche Hisham si unisce a loro. La stessa insegnante dice “Buongiorno!” e tutti rispondono allo stesso modo “Buongiorno!”. La tonalità cambia “Buongiooornoo” e di nuovo tutti rispondono allo stesso modo. Così più volte, cambiano sempre il suono, cambiando la persona che incomincia. Qui tutti sono uguali. Poi si prendono per mano. Parte una musica e tutti si mettono a cantare ed a ballare insieme. Anche Hisham balla trascinato dagli altri. È molto divertente e fa sentire bene. Battimani alla fine. Poi il cerchio si scioglie ed i ragazzi si dividono in gruppi. In ogni gruppo una giovane volontaria italiana e la lezione incomincia. In arabo viene chiesto ad Hisham come si chiama e di raccontare, se vuole, qualcosa di sé. Lui è un po’ timido ma si sente accolto. Si sente a casa. Nelle settimane, nei mesi successivi torna alla scuola due mattine alla settimana ed a poco a poco comincia ad esprimersi in italiano e questo gli permette, anche fuori, di muoversi con più sicurezza. Comincia a leggere le parole dei cartelli, delle pubblicità, i nomi delle vie. Ha degli amici con i quali trovarsi al parchetto per giocare a calcio o a basket. La sua vita è cambiata. Lui che si sentiva così sperduto ora si rende conto di essere un fortunato. Tutti gli anni che suo padre ha trascorso qui per lavorare e che hanno permesso a lui, ai suoi fratelli ed alla madre di vivere meglio in Egitto, sono serviti anche a spianare a lui la strada per venire in Italia. Lui ora ha un regolare permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, ha una casa e può stare tranquillo. Non così per quasi tutti i suoi compagni di scuola.
Alcuni, in fuga da paesi in guerra, sono presso centri di accoglienza in attesa di avere il riconoscimento di rifugiato per motivi umanitari. Altri invece sono clandestini sempre in giro, in strada, dormono dove capita, sempre con la paura di essere scoperti, fermati e magari rimandati nei paesi dai quali erano partiti con tanta fatica. Una vita di ansia, paura e precarietà continua.

Quarta variante (Nadia Colella)
Il padre di Hisham riceve una convocazione dalla scuola di Hisham. È preoccupatissimo, intuisce il malessere del figlio, ma i due non sono abituati a parlarsi. Sta in ansia fino al giorno fissato, è in pensiero per Hisham, per sé, per il futuro. Crede che Hisham abbia combinato qualcosa di brutto e si reca all’appuntamento pensando a quale punizione infliggere e se esista una punizione che possa servire a qualcosa. L’insegnante che lo riceve in realtà gli parla del talento naturale del figlio nel disegno e nella pittura e gli propone l’inserimento di Hisham in un progetto apposito in cui potrà esprimere al meglio le sue attitudini. Il padre corre a casa per comunicarlo a Hisham, ma lo aspetterà invano.

Quinta variante (Rita Colombo)
Una sera il padre di Hisham torna a casa con una sorpresa. Il suo capo al cantiere gli ha offerto in regalo una bicicletta che il figlio non usa più. Forse non è proprio della misura giusta per Hisham, non è perfetta, è un po’ arrugginita e va sistemata, però non se l’è fatta scappare, così il figlio potrà andare a scuola autonomamente, senza prendere i mezzi pubblici dove dice di trovarsi a disagio, con tutta quella gente che lo guarda male e si scosta. Hisham scende in cortile con il padre per vederla, ma non si dimostra molto contento del regalo. Il padre, notando la sua delusione, gli promette che la domenica successiva lo aiuterà a sistemarla, e non sembrerà più la stessa bicicletta, una volta aggiustata.
La domenica mattina Hisham viene svegliato dal padre più presto del solito, si rigira nel letto, non gli va di alzarsi così presto, per che cosa poi? Non c’è mai niente da fare, la domenica. Ma il padre insiste, è una bella giornata di sole, finalmente, e potranno lavorare in cortile. Ah, già, la bicicletta… ma cosa pensa suo padre, di farlo contento con quel ferro arrugginito? Si sbaglia se crede che userà quel catorcio per andare a scuola, con il risultato di essere preso ancora più in giro dai compagni. Di malavoglia lo raggiunge in cortile, dove lo trova già al lavoro. C’è anche Rashid, il collega di suo padre, stanno discutendo animatamente su come procedere nella riparazione, fanno sempre così quei due, ogni volta sembrano sul punto di litigare, ma poi sono più amici di prima. Chi li capisce è bravo. Hisham si aggira in cortile, osservando distrattamente il lavoro dei due uomini, finché Rashid lo chiama, vuole fargli vedere come si sistemano i freni, così se gli capita di doverli riparare un’altra volta, sarà capace. È un gran chiacchierone Rashid, parla di calcio, fa battute sui colleghi di lavoro, dice che sua moglie dovrebbe raggiungerlo presto dall’Egitto, racconta dei figli che ha una gran voglia di rivedere. All’inizio il ragazzo è infastidito, ma un po’ alla volta Rashid riesce a coinvolgerlo nei discorsi e Hisham finisce per raccontare qualcosa anche di sé. Il padre sembra contento oggi, guarda il figlio con aria soddisfatta, per la prima volta fanno qualcosa insieme, che non sia mangiare o guardare la partita. Chissà se questo figlio così scontroso, così arrabbiato, riuscirà ad adattarsi alla vita non facile che lo aspetta. Ci vorrà pazienza, con lui. Se sua madre fosse qui, allora tutto sarebbe diverso.
A fine giornata la bicicletta è pronta per un giro di prova. Anche se Hisham sale a bordo con cautela, la vernice rossa gli lascia una traccia sui pantaloni. Ma che importa. Tanto nessuno lo sgriderà per questo. La bicicletta sembra quasi nuova, aveva ragione suo padre. Tutto sommato domani potrebbe usarla per andare a scuola.

Sesta variante (Theresa Lee)
Ieri Hisham ha scoperto il lavoro di suo padre al mercato. È pesante. Lui è rimasto male.
Stamattina, mentre lui camminava, ha avuto fame e ha sentito che la chiesa aiuta. Lui va lì e ha ricevuto due giacche e un pacco per mangiare. Mentre lui mangiava, controllava la marca delle giacche. Lui poi esce e va al McDonald per cercare il padre. Lui ha visto il padre che sta parlando con una donna. E suo padre ha visto lui e gli si è avvicinato. Hisham gli ha fatto vedere le giacche. Poi suo padre ha parlato con la donna e lei ha dato a Hisham 50 euro. Suo padre ha detto nella loro lingua di non spendere i soldi, gli ha detto anche di prepararsi, perché doveva venire con loro al negozio. Hisham si sente pronto a scoprire la vita di suo padre quando lui non c’era.

Settima variante (Mariangela Quaini)
Non sempre sale sull’autobus, però, talvolta cammina senza meta in giro per la città. Questo pomeriggio è in Piazza Duca D’Aosta, il Pirellone proietta la sua ombra sulla facciata della Stazione Centrale e lui è lì, proprio nel primo posto che ha visto a Milano appena sceso dal treno. Senza sapere dove stia andando, percorre il lato destro dell’edificio, fa caso alle decorazioni leonine, ma ha la testa nei suoi pensieri: quei musi ruggenti gli fanno impressione, gli sembrano smorfie di dolore.
Dopo qualche centinaio di metri vede un tunnel, alla sua sinistra, e si rende conto che per arrivare dall’altra parte e superare la barriera della stazione può percorrerlo a piedi. Si inoltra per qualche metro nell’oscurità del passaggio; il caldo è soffocante, lo smog, l’odore d’urina gli attanagliano lo stomaco, il rumore dei mezzi che sfrecciano a pochi metri è un rimbombo assordante. Pensa a suo padre che lo sprona sempre a non scegliere la soluzione più comoda. Decide di procedere e, d’un tratto, è investito da uno sferragliare indiavolato, ci mette qualche secondo per rendersi conto che deve trovarsi sotto i binari e che un treno sta passando proprio in quel momento. Prova l’istinto di girarsi, mettersi a correre, scappare, ma è quasi a metà strada e poi vuole farcela, sa che può farcela; ancora qualche metro e la luce dall’altro imbocco si avvicina.
È arrivato in viale Lunigiana, tira il fiato, da quel tunnel è finalmente uscito e adesso è lì che si guarda attorno. Verso la stazione rivede il Pirellone, questa volta di profilo: il grattacielo mostra il suo lato corto, esile e snello, appare quasi fragile; questione di punti di vista, si dice, da sotto sembrava un gigante, da qui assomiglia ad un palo della luce un po’ fuori misura, tutto il contrario dei miei sogni: l’Italia, Milano sembravano grandi, enormi, ricchi, visti da vicino, invece… è un’altra cosa.
Si incammina lungo il vialone, c’è il sole, ma sta calando la sera, fa un po’ meno caldo. Loro scansano me, pensa, e io scanso loro, ci vada lo zio a scuola, senza capire nulla di quello che dicono e a farsi prendere in giro dai ragazzi più grandi. Arriva in Piazza Carbonari, quel posto a metà tra il cavalcavia e il giardinetto gli sembra particolare, decide di fermarsi all’ombra dei pini. Si stende sul tappeto di aghi, da quella posizione intravede un altro grattacielo, riesce a decifrare la scritta della Regione Lombardia: manco fossimo a Dubai, ma è tutta scena, chissà cosa si credono questi coi loro grattacieli, soldi ce ne saranno anche qui, non come a Dubai, però… e comunque non per tutti.
È ancora assorto nei suoi pensieri quando con un movimento brusco schiva un pallone che rischia di arrivargli proprio in faccia, si alza di scatto per lo spavento e si trova davanti un ragazzino, avrà sì e no otto anni, è solo. Hisham recupera il pallone e senza dire niente comincia a palleggiare, da solo, per conto suo; il ragazzino gli fa capire che vuole giocare anche lui. Si scostano dagli alberi, trovano uno spiazzo e iniziano scambiarsi qualche tiro, non è agevole giocare a calcio in quel posto, devono prestare attenzione alla strada, da un lato, e che il pallone non scivoli giù dalla china, dall’altro, ma pian piano si adattano a quello spazio esiguo e, solo dopo qualche minuto, anche se lo sanno di non essere allo stadio, tutt’e due, bambino e adolescente, sentono subito l’incitamento della curva e il boato dei tifosi, in un attimo è già l’esaltazione di San Siro.

E poi…?

Scrivere possibili sequel (o prequel) al brevissimo racconto di Scerbanenco,

La colpevole e il silenzioLa mamma venne a prenderla alle otto del mattino, disse subito che da basso il tassì aspettava e non aveva soldi da buttar via; lei aveva già preparato il bambino, avvolto nella soffice coperta di la¬na, ritaglio di una coperta più grande; la suora e il medico vennero a salutarla, perché era la più giovane puerpera della maternità, ap¬pena sedici anni e il medico le regalò una scatola di iniezioni rico¬stituenti da fare perché lei stava appena in piedi.
«Grazie, dottore, grazie suora, grazie», diceva sempre grazie seguendo la madre che pensava al tassametro del tassì, «grazie», il bambino dormiva quieto, tra di sé lei continuava a pensare che rassomigliava a Renato, ma non lo avrebbe detto certo alla madre, né al padre, che appena avessero udito quel nome si sarebbero sbiancati d’ira in volto, l’avevano avvertita tante volte che era un delinquente, e infatti lo era stato e l’aveva lasciata lì, con quel bam¬bino e la madre dal viso tagliente di disperazione e di furore. Nel tassì sua madre disse, guardando il tassametro: «Alé, altre mille lire» e non guardava neppure il bambino. La portinaia che sapeva bene la storia li osservò senza dire nulla, neppure salutare. Papà venne ad aprire la porta e non disse niente, come se non la cono¬scesse, anche se la lasciò entrare, non guardò il bambino e lei andò in cucina, sulla branda dove aveva sempre dormito e non disse nulla neppure lei, conscia della sua disastrosa colpevolezza e solo il bam¬bino, d’un tratto, disse che esisteva e che aveva bisogno di lei, gri¬dando, e allora lei si aprì il giacchino e gli porse il seno, nel silen¬zio di padre e madre che la guardavano.G. Scerbanenco, in La vita in una pagina, Milano, Mondadori, 1989, p. 38

Prima variante (Marta Cabrini)
Tristezza solitudine e miseria affettiva, quello che impregna il racconto di Scerbanenco.
Inevitabile, per me, il confronto con quanto accaduto alla mia mamma. Anche lei, a sedici anni, aveva il suo Renato. Mio padre si chiama proprio così. Avevano iniziato presto a frequentarsi: lei quattordici anni e lui diciotto. Prima di nascosto dai genitori di Nella, poi ufficialmente. Renato andava a trovarla a casa la sera. Si diceva “andare a veglia” e sempre in presenza della mamma di lei, come era d’uso allora. Ma non ci sono guardiani che possano fermare il desiderio. Trovarono il modo di restare un po’ insieme da soli e mamma rimase incinta. Sedici anni. In un piccolo paese. Con una mamma molto religiosa, bigotta e di temperamento. Deve essere stato terribile per Nella. Vergogna, paura, ma Renato c’era. E c’è ancora. Questa la differenza tra le due storie simili. La nonna è stata durissima e tagliente con la mia mamma. Nella, ancora oggi, racconta che sua madre le disse che non l’avrebbe mai perdonata! Questo senso di colpa credo l’abbia segnata ed abbia influito molto sulla sua fragilità. Mentre invece suo padre, il mio mitico nonno Ortensio, non la rimproverò per quanto accaduto.
La sua gravidanza colpevole fu invece motivo di chiacchiere continue. Fu additata dalle comari e portata come esempio negativo per le proprie figlie. Ma il desiderio, la curiosità, la voglia d’amore non si fermarono con le chiacchiere. Subito dopo la mia mamma ci furono diverse sue amiche che si trovarono nella stessa situazione. Figlie proprio di quelle pettegole malvagie. Nella e Renato si sposarono il 19 aprile del 1950. Quando io sono nata, nel mese di settembre, tutti erano pronti ad accogliermi.
Solo il dolore di mamma non si è mai cancellato. Sopito nel suo animo, ha continuato a restare. E a fare danno.

Seconda variante. Accaduto molto dopo (Erik Castillo)
“Costantino è un bravo ragazzo” dice la mamma, “Di sicuro diventerà medico” gli dice il papà, lui a scuola prende dei voti sempre alti, nel quartiere gli altri ragazzi gli vogliono bene. È anche un bravo giocatore di calcio. Per un ragazzo come Costantino gli anni passano velocemente, lui già è arrivato alla trentina, infatti una volta laureato in medicina e chirurgia inizia a lavorare e fare l’internato in oncologia all’Ospedale Sacro Cuore Immacolato di Maria. Adesso lui è il Dottor Di Vita, pochi lo chiamano Costantino in ospedale.
Sara Richmond (da nubile Di Vita) ha 46 anni, è vissuta da circa 30 anni a New York, sposata da circa 25 anni, Rene e Sary sono i suoi due gemelli di 20 anni. Sara vedova da poco tempo decide di tornare a Milano, ormai tutti sono morti, anche lei a Milano è morta da 30 anni circa. Pensa che a Milano può trovare la cura al cancro al seno che gli è stato diagnosticato tre mesi fa, sul un giornale ha letto che in un ospedale a Milano c’è un medico prestigioso: il Dottore di Vita che fa delle ricerche sul cancro al seno e ha trovato una cura per questa malattia.
Nell’accettazione dell’ospedale sicura di sé Sara chiede del Dottore di Vita, ma lei dice alla segretaria che è sua madre… la segretaria dice: “Mi scusi signora i genitori del Dottore di Vita sono morti da cinque anni circa in un incidente automobilistico”. Sara ancora dice: “Devo proprio parlare con mio figlio”. Lei pensa che è arrivato il momento di rompere il silenzio, non è colpevole e vuole prendere quello che le era stato tolto 30 anni fa.

Terza variante. Accaduto molto dopo (Erik Castillo)
Prete: Don Luciano Moroni. 62 anni. Parroco Chiesa del Preziosissimo Sangue Little Italy (Manhattan) – New York
Donna: Sara Richmond. 46 anni.
Si trovano all’aeroporto John F. Kennedy – New York.
Don Luciano: “Finalmente ce l’hai fatta figliola mia”
Sara: “Senza di te non sarebbe stato possibile”
Don Luciano: “Mai ti sei arresa, da quando ti ho conosciuta 28 anni fa hai avuto tanto coraggio e fiducia in te stessa”
Sara: “Grazie di cuore Padre, sei stato sempre come un angelo, mi hai salvata”
Don Luciano: “Soltanto ho fatto quello che dovevo fare, ricordo tanto quello che mi diceva la mamma: devi essere un uomo di Dio al servizio del più bisognoso, fa tutto con amore e saggezza. Lo so bene, con te non ho sbagliato mai”
Sara: “Luciano grazie a te sempre ho saputo dei miei genitori, di quella perfida strega e di quella canaglia di mio padre, non credo proprio a quello che diceva lei, che è stato lui e che l’ha ricattata a farlo, mi hanno rubato mio figlio e lo hanno preso con loro”
Don Luciano: “Non devi parlare così Sara, adesso che vai oltre il mare troverai la felicità che ti è stata tolta, lo sai bene che tuo figlio ti aiuterà a guarire del cancro. Tu sarai come la fenice che sempre risorge. Vai con Dio”
Sara: “Grazie Luciano…”
Lacrime…

Quarta variante. Accaduto prima (Nadia Colella)
SEI MESI PRIMA
Si fece coraggio ed entrò: era un locale ampio, un po’ buio; una fredda luce al neon mandava bagliori giallastri; a sinistra tre tavolini, al centro il bancone, a destra uno spazio col tavolo da biliardo.
Si sedette, si sbottonò il cappotto e si allentò la sciarpa; si appoggiò al muro, chiese timidamente un bicchiere d’acqua. L’aria era pesante di fumo.
Lui stava giocando, e vinceva: lo si intuiva dall’espressione tronfia. D’un tratto, piegato sul tavolo verde con la stecca tra le dita accostata al viso, la vide riflessa nel lungo specchio a fianco del biliardo. Aveva ricevuto la sua lettera. Sapeva. Finse di concentrarsi ancora di più sul tiro.
Lei lo fissò. Gli aveva scritto, l’aveva cercato ovunque: alla fine lo aveva scovato. Per un lungo istante, nello specchio, i loro occhi si incontrarono.
Lui non si voltò, fece un giro intorno al tavolo e colpì la boccia che andò a battere contro una sponda. Poi ancora, e ancora.
Lei si alzò in piedi, si riabbottonò il cappotto con cura e si riavvolse nella sciarpa; si avviò dritta verso l’uscita e scomparve nella nebbia.

Quinta variante. Accaduto prima (Angela Colombo)
Renato, carnagione scura, spalle stupende, alto, occhi neri penetranti. Una bellezza, tuttavia, solo esteriore.
Nel quartiere girava voce che si drogasse e che fosse l’autore di certi furti d’auto. Malgrado la sua cattiva reputazione, il solo vederlo suscitava in lei un forte desiderio di conoscerlo.
Raffaele, come d’uso in quel periodo, in assenza dei genitori, una domenica mette a disposizione la sua casa per una rimpatriata con gli amici del quartiere. Lei, per la prima volta, esce di casa di nascosto dai suoi. Seduto su una delle sedie lungo la parete della sala, Renato fissa il suo sguardo ammiccante su di lei, che seduta di fronte, risponde ingenuamente con un sorriso, interpretato da Renato in maniera maliziosa: allora ci sta!
Dopo essersi tutti scatenati con i twist e i rock è il momento dei soliti lenti. Renato si avvicina a lei.
Si spengono le luci. Iniziano a ballare. Lui la stringe forte a sé e, accarezzandole i capelli, la bacia subito con voluttà. Lei, dopo aver assaporato tutta quella delizia di emozioni, si scioglie, chiude gli occhi ed estasiata si abbandona a lui con dei baci senza fine. Un’esplosione di piacere.
Non si era mai sentita così tanto amata. Per provare ancora lo stesso sentimento, combina un incontro a casa di Renato. È il momento della passione. Rimane incinta, lo dice a Renato sicura che anche lui provi per lei gli stessi suoi sentimenti e che accolga con gioia la fioritura della loro passione. Lui, non solo non vuole riconoscere il bambino, la fa anche sentire colpevole di essersela andata a cercare. Anche i suoi genitori respingono l’idea di lei mamma-bambina per di più di un figlio, forse, con un padre delinquente. Perciò cercano di convincerla ad abortire, ma lei si oppone fermamente.

Sesta variante. Accaduto dopo (Rita Colombo)
La casa rimase in silenzio tutto il giorno, soltanto il pianto a intervalli regolari del bambino segnalava la presenza di vita tra quelle pareti. Ogni volta a quel pianto la ragazza, seduta sulla sua branda, porgeva il seno al bambino come le avevano insegnato in ospedale e al termine della poppata ai vagiti seguiva un sonno tranquillo. Il padre uscì nel primo pomeriggio, lo aspettavano gli amici al bar. Più tardi anche la madre uscì per andare al mercato, lamentandosi di quanto le sarebbe costato allevare il figlio di quel delinquente. Appena rimasta sola la ragazza per la prima volta accarezzò il suo bambino, lo avvolse più stretto nella coperta e cominciò a cullarlo. Poi tenendolo ancora in braccio provò a chiamare Renato, ma il telefono squillò per molto tempo a vuoto. Mentre si faceva buio, pensò che né lei né il suo bambino avrebbero potuto sopportare un’altra giornata come quella. Doveva trovare una soluzione, cercare qualcuno che potesse aiutarla. Raccolse in una borsa le poche cose sue e del bambino, mise il cappotto che era stato di sua sorella e chiuse la porta alle sue spalle.

Settima variante. Accaduto dopo (Mariangela Quaini)
Percorsero la corsia osservati dall’infermiera, il padre davanti e lui dietro, a testa bassa. Il padre si fermò a chiedere in guardiola, lui proseguì ancora qualche metro e, istintivamente, come se ci fosse già stato, si piazzò sul varco della porta: la stanza era vuota, il letto rifatto. Nessuno gli aveva detto che quello era stato il posto di lei, ma intuì che se ne era andata, che aveva portato via il bambino e che oramai era inutile cercarla lì.
“Tanto valeva rimanere al bar” pensò, e disse a suo padre che intanto lo aveva raggiunto: “Hai visto? Te l’avevo detto o no?”. “Non fa niente”, disse subito il padre: “Non cambia niente, Renato, li troviamo a casa”. Girati i tacchi, ripercorsero i loro passi sotto lo sguardo curioso del medico e della suora: avevano capito di chi si trattava, il dottore inarcò il sopracciglio e la suora scosse la testa.
Scesero dalla Cinquecento scassata, che era un miracolo se camminava ancora, salirono i pochi gradini e passarono davanti alla portiera che quando vide Renato avrebbe voluto fare domande, conoscere i particolari, ma si trattenne. L’ascensore era rotto, davanti alla rampa di scale il ragazzo ebbe un attimo di esitazione, fu il padre a sospingerlo verso i gradini, quasi con uno spintone: “E non pensare sempre al tresette!” gridò sottovoce.
Quando la madre aprì, si trovò davanti un signore di mezz’età e lui, Renato, quel delinquente. Non sapeva se richiudere la porta, se inveire o lasciarli entrare. Si guardarono in faccia, tutt’e tre, e nessuno disse niente. Da sopra la spalla della donna Renato la vide in cucina, con un fagotto in braccio, la muta risposta di lei gli parve un sorriso. Non aveva le idee chiare, Renato. Fu il padre della ragazza a toglierli dall’imbarazzo: “Cosa fate lì impalati, entrate, allora!”
La cucina era piccola e lo spazio ridotto, era impossibile non osservare il bambino da vicino; il gruppetto si strinse attorno alla puerpera, nessuno parlava e mentre i due giovani si guardavano negli occhi, il neonato, dimenandosi, era riuscito a liberare le braccine dalla coperta. Sembrava capire che, in fondo, erano tutti lì per lui.Finale alternativoLa cucina era piccola e lo spazio ridotto, era impossibile non osservare il bambino da vicino; il gruppetto si strinse attorno alla puerpera, nessuno si ricordò delle presentazioni e dei convenevoli, le osservazioni si accavallavano convulsamente, solo i due giovani tacevano. “Ce la faranno” si sentì dire “sono giovani, ma con un po’ di aiuto…”. Il neonato, dimenandosi, era riuscito a liberare le braccine dalla coperta. Sembrava capire che, in fondo, erano tutti lì per lui.

Il personaggio

L’aggettivo nascosto

Pensare a un tratto distintivo (sintetizzabile in un aggettivo) che caratterizzi un personaggio e che emerga solo da ciò che fa o che dice

(Marta Cabrini)
Miriam non faceva mai giochi di squadra. A bandiera lei teneva sempre la bandiera e si entusiasmava a vedere gli altri giocare. Avrebbe voluto farlo anche lei ma non riusciva a vincersi. Lo stesso accadeva a nascondino. Lei partecipava solo se qualcun altro si offriva di stare sotto al suo posto. E questo accadeva. C’era sempre qualche coetaneo che accettava di farlo. In casa invece con solo una o due compagne non disdegnava di proporre o guidare il gioco.

(Nadia Colella)
Lesse in silenzio la comunicazione scritta mentre gli altri la fissavano con curiosità, non un muscolo del viso tradì il suo turbamento; chi la conosceva un poco si accorse che avvampava. Era un richiamo, la si invitava a presentarsi in direzione la settimana successiva per un chiarimento a voce. Tornò a casa a piedi sotto la pioggia battente e, mentre si destreggiava nell’evitare le pozzanghere e parare le raffiche di vento con un fragile ombrello, ripeteva come in un mantra tutte le cose che aveva conquistato o realizzato negli anni: una casa piccola ma confortevole, un bambino che cresceva con amore e attenzione, un lavoro in cui dava il massimo e che aveva ottenuto tra mille difficoltà; aveva fatto tutto da sola. Neanche i suoi genitori sapevano quanto fosse stata dura. Tutto quello che era lo doveva solo a se stessa. In piscina nuotò con rabbia e alla fine, quando riemerse dalla vasca, si sentì meglio: niente più poteva scalfirla.
Lunedì si sarebbe presentata con un sorriso disarmante.

(Angela Colombo)
Due amiche, Laura di quattordici anni e Matilde di un anno più giovane, sono state invitate dalla loro amica Sara, che abita a Sesto San Giovanni, a festeggiare il suo compleanno. Matilde ha il compito di comprare una piantina di fiori e così compra una primula. Sull’autobus per Sesto San Giovanni, Matilde si accorge di aver dimenticato a casa la piantina per cui dice a Laura di voler tornare a casa a prenderla, perché lei non va da Sara a mani vuote. Laura risponde in modo perentorio che ormai sono a metà strada e che non se ne parla proprio di tornare. E ancora: “Ti dico che si va da Sara senza il regalo e che glielo daremo non appena possibile”.
Matilde si lascia andare in un pianto di disperazione. Laura infastidita da questa reazione, le molla un ceffone. Arrivate a destinazione continuano la discussione sul marciapiede fino alla casa di Sara.

(Rita Colombo)
Andrea scende le scale di corsa dopo aver trangugiato un caffè, questa mattina ha un impegno di lavoro importante e non vuole arrivare in ritardo. Sulle scale incontra la portinaia che sta spazzando e ingombra il pianerottolo. “Buongiorno signor Maggi!” “Sì, sì, salve, ma si tolga di mezzo, non ho tempo per i convenevoli!” e continua la discesa a scapicollo, arriva in cortile e inforca la moto. Casco, accensione e via, per le strade di questa città di m…, guarda ’sta vecchiaccia che manco mette la freccia, “Ma fatti ricoverare, invece di andare in giro come un bradipo a rompere i …!” Finalmente arriva in ufficio, i suoi colleghi stanno già attendendo il nuovo cliente inglese. “Allora, chi ha il coraggio di intavolare il discorso con l’inglese? Non certo tu, Crippa, che sai al massimo dire “The cat is on the table”, per non parlare di te, Sansoni, non spiccichi una parola neanche in italiano, dovrò occuparmene come sempre io, che so come convincere la gente in tutte le lingue!” Durante il colloquio con il possibile cliente, Andrea interviene spesso, sovrapponendosi agli altri che tentano di spiegare con calma la proposta dell’azienda e correggendoli senza pietà. Il risultato è un cliente piuttosto confuso, che non sa bene se affidare la sua campagna pubblicitaria a questa scoordinata equipe. Andrea, soddisfatto per essersi fatto valere, quasi si dimenticava che questa mattina deve anche precipitarsi al colloquio con la professoressa di italiano di suo figlio, la vecchia megera l’ha convocato, pare che Luca le abbia risposto male, e ha fatto bene! Se non è capace di insegnare, non se la prenda con i suoi alunni. “Stavolta mi sente!”

Ritratto di Fiorella
Descrivere (nei tratti fisici o psicologici) una persona che tutti conosciamo

(Marta Cabrini)
Domenica pomeriggio di parecchi anni fa. Novate, festa di compleanno del fratello di un’amica. Una festa dove lo scopo era andare lì per cantare. Non l’avevo mai vista. Non sapevo nulla di lei. Io, in territorio poco conosciuto, mi metto in ascolto ed osservo chi ho intorno. Lei mi ha colpita ed interessata. Era a suo agio. Sicura e decisa. Un po’ rude forse, tagliata con l’accetta ma schietta. Questa l’idea immediata che a pelle mi ero fatta di lei. Poi, durante il pomeriggio, ci siamo ritrovate sedute vicine al tavolo del cibo. Abbiamo cominciato a parlare di figli, di mariti, di genitori, di vita quotidiana. Come se ci conoscessimo da sempre. Dietro la sua apparente durezza molta semplicità ed un cuore grande. Mi ha fatto sentire bene.

(Nadia Colella)
Grinta. Volontà. L’impegno. La scuola. La montagna. Viaggiare. Lettrice insaziabile. Autorevole. Risolve. Non fa sconti. Si spende. Contralto. Un bel portamento.

(Angela Colombo)
Fiorella l’ho conosciuta o meglio l’ho vista per la prima volta alla presentazione del corso di scrittura creativa.
Una persona di media statura, sui sessant’anni, con un corpo ben proporzionato alla statura, con capelli corti neri un po’ sparpagliati, con lineamenti tondeggianti, con occhi vivaci color castano.
Al di là dell’aspetto fisico, ho scoperto il lato spiritoso di Fiorella, durante il corso di scrittura creativa, leggendo la sua risposta ad una mia lettera incentrata sul decadimento del corpo. Lei personificando il corpo ribaltava le mie critiche che lo riguardavano sul decadimento cognitivo con frasi come: “Vogliamo parlare di tutte le volte che chiedi, facendo finta di niente, il nome di persone o luoghi che dovresti conoscere bene?” Persona con uno spiccato atteggiamento estroverso, simpatica, disponibile, dai mille impegni personali soprattutto sociali, una lettrice accanita.
Se proprio devo trovarle un difetto è quello di essere golosa.

(Rita Colombo)
Fiorella mi sembra una persona energica, concreta, estroversa e schietta. Penso che si dedichi a molte attività e abbia capacità organizzative. Non le sfugge niente e ha spirito critico. Fisicamente è piuttosto minuta, ha i capelli abbastanza corti non proprio pettinati con cura, occhiali grandi, voce forte e un po’ roca (da insegnante).

(Theresa Lee)
Fiorella è una donna mitica, energetica, che si dimostra una potenza. Ma è una vera donna, che qualche volta cambia il programma. Sei una vera donna con le tue debolezze.

(Apolonia Santo Domingo)
Una donna molto aggressiva, veloce quando cammina, e tosta. Aiuta molto gli egiziani e i cinesi. Lei lavora come maestra, però riesce a fare tante altre attività per “la Tenda”. È anche membro di un gruppo musicale e sta anche alle bancarelle a vendere piccoli articoli, per raccogliere fondi sempre per “la Tenda”. Mi piace questa donna, perché lei dice quello che è giusto dal suo punto di vista, anche politico.

Una stanza, un personaggio

Immaginare e descrivere l’appartamento o una stanza di uno di noi corsisti, lasciando intuire di chi si tratta

(Marta Cabrini)
Entrando ti colpisce la luce ed il colore. Tutto molto informale. Non segue nessuno stile di arredamento. Solo mobili arrivati per caso o ricordi di un tempo. Quadri ed oggetti poveri comperati in viaggi reali o immaginati. Di grande valore affettivo. Regali di amici portati dai loro viaggi. Sul tavolo, sui ripiani mucchietti di documenti, pratiche da evadere ed annotazioni. Tutto mischiato nei colori. Giallo, azzurro, arancione a seconda della stagione per smorzare od accentuare la luce nella stanza.

(Nadia Colella)
La porta dell’appartamento è appena accostata e lei entra: non si sente un’intrusa, è una sua amica, non la vede da una settimana… non risponde ai suoi messaggi… non è normale. Ha chiesto in giro, nessuno l’ha vista. Mentre la chiama con voce forte e chiara, si guarda intorno: sembra tutto a posto.
In camera da letto aleggia un lieve profumo; il letto è stato rifatto, la trapunta rossa a fiorellini è gonfia e morbida, i cuscini sprimacciati. Sul tappeto a colori vivaci ballerine rosa col fiocchetto. Leggings fantasia e una maglia verde piegati sulla sedia. Sul comodino orecchini turchesi e una catenina, una cremina per la pelle, un rossetto, due pettinini coi brillantini per raccogliere i capelli. Una maschera scolpita nel legno e uno specchio tondo alle pareti tinteggiate di color albicocca. Una borsa di tela e una sciarpa viola sull’attaccapanni. Sul tavolo penne e matite, una pila ordinata di libri, fogli sparsi disordinatamente: tredicesimo incontro, lezione 16, lezione 11… una foto di una festa coi suoi compagni di corso, lei sorride contenta, denti bianchi e labbra colorate. In una ciotola di ceramica azzurra un mazzo di chiavi.
Manca qualcosa? Chi lo sa… sembra di no, ci sono anche la sua giacca a vento nera e gli stivali. Sospira, scrive un biglietto e lo lascia sul cuscino: “Ma dove sei??? Chiamami, sono preoccupata”.

(Angela Colombo)
La persona a cui mi riferisco è una corsista che si prende cura, in maniera semplice e precisa, del modo di vestire e di pettinarsi. Perciò, se penso alla sua stanza mi prefiguro uno spazio ordinato con una scrivania dotata di un computer, una stampante, un telefono, un portapenne e portafogli per gli appunti e una sedia girevole.
Su una libreria, oltre ai libri di narrativa, di poesia e d’arte, ci sono quelli geografici: atlanti, libri sui paesaggi, sulle popolazioni e sull’economia delle città di tutto il mondo. Materiale che questa persona raccoglie e conserva ordinatamente perché ama molto viaggiare.
Per questa sua passione conserva, su delle mensole, di ogni suo viaggio, il relativo diario dove racconta il suo vissuto con le sue esperienze, i suoi ricordi, le sue sensazioni e gli itinerari da lei seguiti durante il viaggio.
Sparsi per la stanza troviamo vari manufatti: quadri, fiori di stoffa, monete, ecc. Acquistati, in posti particolari da lei visitati, per non perderne la memoria.
Contrariamente a quanto si possa pensare, le innumerevoli fotografie, lei non le archivia in qualche cartella del suo PC, ma le fa stampare e le sistema in diversi album che tiene a portata di mano nella sua stanza per poterle vedere in ogni momento.

(Rita Colombo)
X abita in un appartamento piccolo ma ordinato, ben organizzato e accogliente; nella cucina affacciata sulla sala da pranzo non manca nulla e quando viene qualcuno a trovarla c’è sempre qualcosa di buono pronto per accogliere gli amici. Sulla credenza sono esposte alcune foto, soprattutto dei nipotini che ha lasciato al suo paese, ritratti a diverse età, come per tenerne d’occhio le tappe della crescita. Su un tavolino basso si trova un televisore non modernissimo, che accende alla sera, quando non è troppo stanca. C’è un balconcino dove tiene alcune piante fiorite e dove esce ogni mattina per controllare che tempo fa. La camera da letto è in ordine, tutto è riposto nell’armadio a muro, sul letto una coperta a fiori e sul cassettone un peluche che le ha regalato un’amica. C’è solo un dettaglio non in ordine, il materiale del gruppo di scrittura che si accumula settimana dopo settimana sul tavolo nella massima confusione, d’altra parte il tempo è così poco per pensare a tutto!

Il fattore umano

Prendere un fatto di cronaca. Utilizzare alcune frasi o passaggi e inserire in corsivo dei piccoli ampliamenti relativi ai soggetti della vicenda.

Paura al Carrefour (Nadia Colella)

(“Milano Today”, 19 gennaio 2018)
FA IRRUZIONE IN UN SUPERMERCATO E CON UNA PISTOLA MINACCIA LA CASSIERA PER FARSI CONSEGNARE TUTTI I SOLDI
Paura all’interno del Carrefour di via Alserio, in zona Farini a Milano. Nel pomeriggio di giovedì, attorno alle 18, un malvivente ha rapinato il market, senza provocare alcun ferito. Stando alla prima ricostruzione degli agenti delle volanti, intervenuti subito dopo il colpo, il rapinatore era armato con una pistola semiautomatica. L’uomo è fuggito con un bottino di circa 150 euro. S’indaga, anche con il supporto delle immagini riprese dalle telecamere, per capire l’identità del bandito.

FA IRRUZIONE IN UN SUPERMERCATO E SI FA CONSEGNARE TUTTI I SOLDI DALLA CASSIERA
Paura all’interno del Carrefour di via Alserio, in zona Farini a Milano. Nel pomeriggio di giovedì, attorno alle 18, un malvivente ha rapinato il market, senza provocare alcun ferito. Stando alla prima ricostruzione degli agenti delle volanti, intervenuti subito dopo il colpo, il rapinatore era forse armato con una pistola semiautomatica. Difficile stabilirne l’identità poiché le testimonianze raccolte sono alquanto discordanti. La cassiera, in stato lievemente confusionale, ha affermato di non ricordare nulla. Mentre i “testimoni” hanno rilasciato dichiarazioni contraddittorie. Un signore ha descritto un uomo alto e nervoso, un po’ scuro di pelle, straniero (“ma poteva essere anche un meridionale”); uno studente ha affermato trattarsi di una donna bassa con un giaccone a quadri bianchi e neri e uno zainetto, ma non ha potuto essere più preciso avendola vista solo di spalle. Altri concordano nella descrizione di un tipo anonimo, maschio, “ma poteva essere anche una donna”, vestito di scuro, con gli occhiali e la bocca coperta da una sciarpa, “forse” armato, “perlomeno… teneva qualcosa in mano”. La versione più lucida appare quella di una anziana insegnante in pensione: “Era sicuramente un italiano, ho sentito che chiedeva gentilmente alla commessa di dargli l’incasso, per favore; e la commessa glielo ha dato, senza battere ciglio”. Chiunque sia stato è fuggito con circa 150 euro. S’indaga, anche con il supporto delle immagini riprese dalle telecamere, per capire l’identità del bandito. L’episodio presenta analogie con alcune curiose microrapine avvenute alcuni anni fa presso gli sportelli di banche della stessa zona: anche in questi casi l’impiegato allo sportello appariva confuso e affermava di non ricordare nulla.

Laura e Barney (Angela Colombo)

 

(“Corriere della sera”, 24 gennaio 2018)

LAURA E BARNEY, STRANA COPPIA DEL JAZZ
Una pianista jazz e il suo cane in scena. Viene subito alla mente, in tutt’altro contesto, la cagnolina “musicista” di Laurie Anderson che nel film “Heart of a dog” poggiava le zampe sulle tastiere elettroniche della sua famosa padrona. Con un approccio meno impegnativo (anche per il cane) Laura Fedele porta sul palco il suo amato quattrozampe Barney come presenza affettuosa, dal primo all’ultimo brano sotto il pianoforte. E l’idea alla base del recital-concerto di stasera al Bonaventura Music Club (ore 21, via Zumbini 6, ingresso libero). “Sola con un cane” che debutta proprio nel locale della Barona: “E nato tutto per caso”, racconta la jazzista, alla fine di un concerto Barney è uscito dalle quinte e si è infilato fra le gambe dei musicisti al momento degli applausi che gli sono piaciuti molto; da lì è nata la scintilla per lo show”. In scaletta una decina di pezzi per affrontare il tema della solitudine con monologhi intercalati dalle note di “Solitude” di Ellington, “I soli” di Gaber e “He’s a Trump” da “Lilli e il vagabondo”, quest’ultimo forse il brano preferito dallo “showdog” Barney.

LAURA E BARNEY, STRANA COPPIA DEL JAZZ
La pianista jazz Laura Fedele sarà stasera sul palco del Bonaventura Music Club a Milano, orgogliosamente insieme al suo amato amico a quattro zampe Barney.
Secondo la sua padrona Barney è un cane speciale perché, oltre a capire ciò che lei gli dice, ha una spiccata attitudine per la musica. Ogni volta che lei prepara il suo concerto al pianoforte di casa, lui si sistema in un angolino e l’ascolta come uno spettatore competente.
La jazzista racconta che l’idea di portarlo in scena le è venuta dopo quella volta che, poco prima che iniziasse un suo concerto, vide Barney avvicinarsi al palco per cercare di saltarci sopra.
Lei gli va incontro incredula, pensando alla strada percorsa da lui per raggiungerla e gli dice: “Come hai fatto a venire fin qui?”
Barney, da cane intelligente quale è, risponde prontamente con una serie di: bau, bau-bau-bau, bau-bau…
Laura, convinta di capire e sapere decodificare il linguaggio del suo cane, lo interpreta così: “Semplice, nei giorni scorsi mi hai portato con te alle prove e, come tu sai, noi cani siamo dotati della capacità di orientamento”.
Resasi conto della temerarietà di Barney, lo riprende: “Lo sai che hai corso il rischio di venire investito da una macchina? Non farlo più. E poi, perché sei venuto?”
Per tutta risposta: “Perchè mi sono stufato di sentirti suonare per ore le stesse frasi musicali e quindi volevo assistere al concerto senza quelle continue e noiosissime ripetizioni” (diamo qui direttamente la traduzione, per facilitare la comprensione del lettore).
Laura non sa se mostrarsi offesa o divertita. Ma il legame d’affetto è così profondo che si abbracciano. Dopodiché gli indica dove mettersi sotto il pianoforte ad ascoltare il concerto presentato col titolo più che appropriato di “Sola con un cane”. Da allora, Laura e Barney sono inseparabili.
Stasera il concerto affronterà il tema della solitudine, con monologhi intercalati dalle note di brani prestigiosi, compreso quello di “Lilli il vagabondo” forse il preferito dallo “showdog” Barney.

Il ciuccio caduto (Angela Colombo)

 (“Corriere della Sera” 24 gennaio 2018)
IL CIUCCIO CADUTO. LA LADRA RECITA DA BABY SITTER
Un ciuccio buttato sul balcone. La scusa trovata da una 34enne a Roma per intrufolarsi in casa di anziani era sempre la stessa. “Sono la baby sitter del piano di sopra. Il bimbo ha fatto cadere la tettarella. Me la può ridare?”. Un trucco che faceva leva sulla tenerezza. Una ragazza sorridente e ben vestita e il neonato monello. Per altro la truffa era compiuta sempre in appartamenti sotto case di famiglie con bebè. Al momento in cui l’anziana andava sul terrazzo, entrava la complice a fare razzia di denari e gioielli. Ma al Commissariato Prati una poliziotta ha incrociato i dati. E la truffatrice del ciuccio è stata pizzicata al colpo successivo.

IL CIUCCIO CADUTO. LA LADRA, LA VITTIMA E LE FORZE DELL’ORDINE
Quartiere Bovisa, sono le 10,30 di lunedì scorso, 21 gennaio 2018. Suona il campanello della signora Antonietta, che sospettosa chiede: “Chi è?” e non apre. Dall’altra parte della porta una voce giovanile (quella della truffatrice): “Signora, il bambino del piano di sopra ha fatto cadere il ciuccio sul suo balcone e continua a piangere. Io sono la sua baby sitter. Potrebbe ridarmelo per favore?”.
Per questo tipo di truffa le vittime vengono scelte fra gli anziani che stanno sotto l’appartamento abitato da famiglie con neonati. Peccato (per la ladra), che la signora Antonietta fosse la nonna di quel bambino. E proprio quella mattina la figlia, che abitava al piano superiore, glielo aveva affidato per poter sbrigare alcune commissioni.
Antonietta di 72 anni, tutt’altro che sprovveduta, si rende conto subito del tentativo di truffa. Per prima cosa guarda attraverso lo spioncino della porta per capire con chi ha a che fare. Vede una ragazza sorridente e ben vestita alla quale si rivolge, per prendere tempo, interpretando la parte dell’ingenua: “Abbia pazienza signorina, ma non riesco a trovare le chiavi. Adesso le cerco”.
Intanto recupera il telefonino e, allontanandosi dall’ingresso, telefona ai carabinieri che la guidano nella recita.
Torna vicino alla porta: “Un attimo ancora. Vado a vedere in bagno dove sono andata stamattina dopo essere rientrata dalla spesa”.
Dall’altra parte la ragazza: “Signora si sbrighi, non posso lasciare solo il bambino per tanto tempo”.
Antonietta, cercando di sembrare preoccupata: “Mi spiace, ma non so davvero come aiutarla! Ah ecco… Potrei incartare il ciuccio e gettarglielo giù dalla finestra”.
La signora riesce in questo modo a temporeggiare fino al punto di sentire dall’altra parte: “Favorisca i documenti”. Quindi apre immediatamente la porta e si trova davanti alla scena finale di due carabinieri che incastrano una delle tante “truffatrici del ciuccio”.

Nessuna gioia assomiglia a un’altra

Facendo tesoro di quanto osservato da Saint-Exupery, rappresentare un personaggio colto in un suo momento “felice”

“Non si può creare un personaggio vivo attaccandogli qualità e difetti e deducendone poi il romanzo, bisogna invece esprimere impressioni sperimentate. Anche un’impressione semplice come la gioia è troppo complessa per essere inventata, se non ci si vuole accontentare di dire del proprio eroe «era felice», che non esprime niente di specificamente individuale. Nessuna gioia assomiglia a un’altra. È proprio questa differenza, la vita di questa gioia che bisogna esprimere […]. Bisogna esprimerla attraverso le conseguenze, le reazioni dell’individuo. E allora non si avrà neanche bisogno di dire «era felice», la gioia nascerà da se stessa, con la sua individualità, come quella gioia che si prova e che nessuna parola può esprimere perfettamente. Se si trova che la parola gioia esprime bene quella del proprio eroe vuol dire che è artificiale, che non si ha niente da dire.”

(A. de Saint-Exupery, Lettere di giovinezza all’amica inventata, Firenze, Passigli, 1998)

Luglio ’72 (Marta Cabrini)

Lei era già partita. Faceva caldo in città in quel mese di luglio. Andare in campagna era stato necessario. Lei aspettava un bambino. Era già da giorni in quella vecchia casa di famiglia. La settimana era stata lunga ed anche un po’ noiosa. Dopo cena, era seduta appena fuori il portone d’ingresso. Aspettava l’ora di andare al bar su in piazza, per telefonare al suo compagno rimasto in città. Era pensierosa. Aveva nostalgia di lui. Alzò lo sguardo ed in cima alla scalinata che conduceva alla piazza lo vide. Scendeva saltellando i gradini. Il volto illuminato da un grande sorriso. Le aveva voluto fare una sorpresa. Assolutamente riuscita!

Felicità 1 (Nadia Colella)

Al suono della campanella si precipitò fuori dall’aula, scese i gradini a due a due, e corse, corse, corse come se dovesse tagliare un traguardo, incurante degli astanti. Con il viso contratto si catapultò in casa, con un balzo fu in bagno, la porta che sbatteva. Finalmente! Sospiro di sollievo… Anche oggi ce l’aveva fatta: non riusciva proprio nella turca a scuola.

Felicità 2 (Nadia Colella)

“Allora… lei pensa che io ce la possa fare?”
“Non ho dubbi, tu ce la fai… ce la stai già facendo!”
Rimane impassibile, ma… gli brillano gli occhi.

Un regalo per Martina (Angela Colombo)

Lei non ha avuto il regalo a Natale, ma le avevo promesso che l’avremmo scelto insieme dopo le feste.
E una bellissima giornata di gennaio. Non una nuvola. Camminiamo a passo veloce per le vie del centro semideserto. È presto. Siamo le prime ad entrare in un negozio d’abbigliamento molto conosciuto dalle teenagers. Lei salta freneticamente da un reparto all’altro. Prende una felpa qua, una t-shirt là, un paio di leggings da un’altra parte. Imparo a conoscere i suoi gusti. Usciamo dal negozio tenendoci per mano.
Ci fermiamo a mangiare un toast in un bel locale, con i tavoli in vetrina, dove i nostri sorrisi vengono visti anche dai passanti.
Tornate a casa, la mia amata nipote Martina si avvicina e mi regala un grande abbraccio.

Cledi ce l’ha fatta (Rita Colombo)

Come ogni martedì Cledi mi segue fuori dall’aula, lungo il corridoio. Oggi il suo passo è quello di un gatto, si copre il viso con una mano, con timidezza di adolescente, ma intuisco che nasconde a fatica un sorriso. Solo quando ci sediamo faccia a faccia nell’aula recupero, esplode: “Ho preso 8 nella verifica di grammatica!”

Improvvisamente (Christiana De Caldas Brito)

Improvvisamente,
in mezzo alla montagna
andando verso l’alto
fui come toccata
dal mantello della Vita
che passava.

Cuccette per diciottenni: felicità e polvere (Mariangela Quaini)

Lo scompartimento è illuminato da una luce fioca, loro sei sistemano le valigie e cercano di trovare la posizione giusta nello spazio angusto che hanno a disposizione. Le voci da dietro il finestrino non mi arrivano, ma intuisco dai gesti che le conversazioni si incrociano freneticamente. È la loro prima vacanza senza i genitori.
L’ambiente squallido e opaco del vecchio treno non sembra infastidirli, della polvere che certamente deve impregnare i sedili e i poggiatesta non si curano minimamente: a quell’età, al cospetto di una vacanza con gli amici del liceo e per di più indipendenti dalla famiglia, un po’ di sporco non preoccupa.
La vedo, d’un tratto inizia a battere le mani, il suo volto si illumina in un sorriso, i riccioli hanno un movimento sussultorio. C’è chi ride, chi alza la voce, chi cerca di imporre il silenzio. I progetti per le due settimane a venire sembrano accavallarsi, ognuno propone una variante, magari un po’ strampalata, ma alla fantasia dei diciott’anni non si può mettere limite.
Lo scompartimento, pur incrostato dai sedimenti dei molti viaggi, si colora e si carica d’energia, anche la luce fredda delle FS sembra spandere tepore. Ci salutano agitando la mano, e noi genitori, lì in piedi sulla banchina, a rimpiangere e a ricordare.

L’arrivo (Oumar Sy)

Paolo era davanti all’uscita dei viaggiatori mezz’ora prima.
Aspettava Fiorella che doveva arrivare da Londra.
Fiorella era sua moglie.
Non si vedevano da sei mesi.
Mentre aspettava, lui faceva avanti e indietro, sistemava la cravatta e la giacca per essere bello. Era agitato!
Arrivato il momento in cui appare Fiorella col suo bel sorriso, si vedeva l’allegria sul viso di Paolo. Contento e raggiante, s’è affrettato a prenderla in braccio e si sono baciati.

Questioni di dettaglio

Costruire una storia a partire da un particolare colto in una persona

8 novembre 2016, Metrò (Marta Cabrini)

Questa sera tornando in metrò davanti a me una giovanissima coppia orientale. Forse cinesi. Non so distinguere. Entrambi a braccia incrociate. Forse intimiditi da quello che stava accadendo. Forse timorosi di esporsi troppo. Ma i loro sguardi che meraviglia! Il loro avvicinarsi e poi allontanarsi appena percettibile. I lunghi silenzi e poi di nuovo il parlare come se tutto fosse un banale incontro. Poi tutto ricomincia e si ripete come in un balletto. Una danza di corteggiamento. Quanta tenerezza. Quanta bellezza. Giochi già visti. Sensazioni già provate. Nuove ed antiche insieme. Emozione e nostalgia. Improvvisamente i miei occhi si sono riempiti di lacrime. Temevo che qualcuno mi guardasse e mi facesse domande. Ma nessuno di chi c’è intorno se ne accorge. Ognuno è preso e perso nei propri pensieri o nell’impresa di annullare i propri pensieri. Gli occhi fissi sul proprio cellulare e le dita frementi a schiacciare tasti. L’altro intorno non esiste. Quante emozioni perdute. Quanti incontri perduti. Quante fantasie perdute.

Compòrtati bene (Nadia Colella)

Le avevano raccomandato di comportarsi “bene”, e cioè niente “perché” e tanti “per favore” e “grazie”. Ma, ora che era lì, non era così facile. La casa era vastissima, piena di luce. Un bagno grande tre volte il suo. Piante dappertutto. Porte scorrevoli e due ingressi: lei era entrata da quello di servizio. Laura camminava in punta di piedi e pensava che le sarebbe piaciuto saltare da un quadrato all’altro del pavimento di legno su un piede solo, oppure farci delle gare di velocità, lasciandosi scivolare senza scarpe… era così lucido. La stanza del bambino era come un negozio di giocattoli del centro, impressionante… scaffali pieni di libri colorati, giochi in scatola dappertutto, ammonticchiati, pezzi di costruzioni, automobiline. Doveva guardare tutto bene perché la sera avrebbe raccontato ogni particolare alla mamma. Il bambino Maurizio era alto come lei e aveva gli occhiali: gli occhi parevano dilatati dietro le lenti e la guardavano seri. Era vestito come se fosse domenica. Poi vide la mano: aveva la mano sinistra raggrinzita, cinque dita ma corte e rattrappite, la pelle rugosa e di un colore più scuro: non riusciva ad usarla, si serviva del polso e dell’altra mano per afferrare qualcosa. Nonostante lei si rendesse conto che non si doveva fare, non riusciva a staccare gli occhi dalla mano deforme, ne era attratta. Non provava ribrezzo, era solo curiosa. Si chiedeva come fosse successo, se lui fosse nato così, se avesse avuto un incidente, se gli facesse male, come mai i suoi genitori non l’avessero fatto guarire… tante domande, ma frenava la lingua. Maurizio, ogni tanto, sentendosi così osservato, nascondeva il braccio dietro la schiena. Laura giocò tutto il pomeriggio con lui, a quello che voleva lui, assecondandolo come le avevano detto di fare. Furono ore un po’ strane, allietate da una merenda come non ne aveva mai fatte. Ritornò ancora altre volte; man mano che entrarono in confidenza il disagio di entrambi si allentò, lui fu meno prepotente e lei meno sottomessa; dopo un po’ non fece più caso alle sue dita rattrappite; si piacevano, si poteva giocare bene comunque. Le rimase la curiosità di sapere se la mano sarebbe mai diventata normale.

Fuori posto (Rita Colombo)

Il ragazzo che ho davanti non si fa mancare niente per sembrare un tipo alternativo: entrambe le braccia, per quanto posso vedere, sono interamente ricoperte di tatuaggi a più colori, porta i capelli lunghi fino alle spalle raccolti in una coda di cavallo e una barbetta caprina gli spunta dal mento. Ma la mia attenzione è attirata soprattutto da una sorta di grosso orecchino a forma di disco infilato nel lobo, che appare allargato, come si usa in certe tribù africane. Al collo porta un fazzoletto nero, su cui spiccano file di piccoli teschi bianchi. E per finire diversi piercing punteggiano la sua faccia, che in sé sarebbe piuttosto anonima. Incontrarlo per strada di notte per qualcuno potrebbe essere un’esperienza lievemente inquietante. E invece: “Sacchetto? Tessera?” Sta lì, seduto alla cassa del supermercato, come se niente fosse, rilevando con aria professionale i codici dei prodotti che ho deposto sul nastro. “Ma come ci è finito qui un tipo così? Uno che tutt’al più vedrei bene impegnato a eseguire tatuaggi in un tattoo shop o a suonare il bodhran in un gruppo celtico…” penso raccogliendo i miei sacchetti. Mentre mi allontano fantasticando ancora sul personaggio, la sua voce mi raggiunge: “Signora, ha dimenticato i punti per la raccolta premi… non vorrà perdersi il set di coltelli da cucina firmati?”

La bellezza ritrovata (Leandro Macasaet)

Ritardo. Lento e vecchio, il treno regionale proveniente da Olbia per Cagliari si è fermato nella stazione di Ozieri. Sedendo di fianco al finestrino, un turista annoiato sta guardando il flusso di gente che sale sul treno. Come in un ralenty cinematografico, gli occhi hanno fatto una scansione tra la gente e hanno trovato una figura che sta risvegliando la sua curiosità. Immediatamente, tutti gli altri intorno si sono trasformati in immagini indistinte. Lui ha visto “Malena”. È viva. Lui sapeva che la vera Maddalena Scordia era siciliana, ma adesso lei era lì, in Sardegna. Era un mezzogiorno d’estate, ma lei era apparsa come la Venere nella primavera di Botticelli: indossava un vestito coi colori abbinati con le sue scarpe e la borsetta, la faccia era fresca, senza traccia di sudore, e con i capelli rossicci. Nel treno tutti gli uomini hanno guardato con ammirazione o lussuria, mentre tutte le donne hanno girato la testa con invidia e odio. Il treno è arrivato alla stazione successiva di Oristano. Malena è scesa. Sulla banchina la gente indistintamente l’ha seguita come se stesse facendo una sfilata. Tutti innamorati di Malena.

Una donna elegante (Apolonia Santo Domingo)

Io, camminando per Milano, ho incontrato spesso una donna. La incontro tutte le volte che devo andare al lavoro, al mattino. Siccome ha un bell’aspetto da come si veste, ho pensato che fosse un’impiegata di banca. Lei è sempre vestita con un tailleur, con orecchini in tinta con le scarpe. Però con molto trucco in faccia. Una mattina l’ho incontrata che era insieme ad un uomo più grande di lei e siccome vado in quella direzione che lei va, ho visto che loro entravano in un hotel. Per cui ho pensato di aver capito quale era il suo lavoro. Ma spero di essermi sbagliata.

L’invalido (Apolonia Santo Domingo)

La gente quando arriva a una certa età prende ciò che le spetta per diritto dal governo (INPS). C’è un signore che è sempre su una sedia a rotelle e che viaggia in strada per prendere le sue necessità, mangiare, vestire etc. Va anche in giardino. La sua vita è sempre così, anche quando è insieme ad altri invalidi. Con lui c’è un cane.
Alla sera lui scende senza la sedia a rotelle e cammina con il suo cane, per fargli fare le sue necessità. Lui fa sempre così e una volta qualcuno ha denunciato questo fatto e il signore è stato penalizzato e ha dovuto restituire i soldi perché non era invalido.

Essere/sembrare

Scrivere una storia in cui l’aspetto e l’atteggiamento del personaggio non corrispondano alla sua reale identità.

Liberamente ispirato (Nadia Colella)

Era proprio un sindaco a modo, garbato, corretto, così lo descrivevano. I giornali locali ne parlavano bene: “bilanci in ordine, tasse sotto controllo, amministrazione saggia, forse un po’ poco caratterizzata, ma buona”. Insomma una brava persona, un moderato, mai una parola fuori posto. Famiglia solida, stimato avvocato. Era talmente convinto che il segreto del successo fosse dar ragione un po’ a tutti, che indossava, a seconda delle occasioni, delle maschere: erano su misura, aderivano perfettamente; gliele aveva confezionate un artigiano di talento. Maschere: come Diabolik. E così, se doveva andare in una scuola in cui era crollato un tetto, indossava la maschera del rincrescimento misto alla volontà di intervenire quanto prima. Se si trattava di una fabbrica che licenziava, mostrava la faccia di quello indignato ma con una strizzatina d’occhio anche ai padroni. Se i cittadini si lamentavano per l’accattonaggio la maschera era quella dell’affidabilità: prometteva, prometteva, prometteva di fare, di risolvere.
E così, quando gli garantirono una carica più importante, gongolò e si preparò a cogliere i frutti di anni di accortezze. Anzitutto si tagliò la barba, chè la barba, per quanto curata, faceva sempre “un po’ brutto”. Poi abiti sobri, una rinfrescatina all’inglese con un’insegnante privata, qualche intervista neutra ai giornali: sempre pacato, sempre inappuntabile (di “facce” con quelle caratteristiche ne aveva a iosa).
Quel giorno, però, per leggerezza o per sfida, lasciò a casa ogni maschera, si presentò con il suo vero volto: si sentiva sempre più sicuro di sé. E successe che, durante il comizio, gli uscì quella frase, così, d’istinto, niente di calcolato: chissà, forse, preso dalla foga. “Quale frase?” Ma sì, quella sulla “razza bianca”. Appena l’ebbe pronunciata, quell’enormità, estrasse un fazzoletto dalla tasca per tamponarsi il naso che sudava quando si agitava, ricordandosi che non portava alcuna maschera di circostanza. Constatò con orrore che aveva mostrato la sua vera faccia. E l’aveva anche persa: aveva perso la faccia.

Un altro (Daniela Winkler)

Avevo quattro anni quando ho visto uscire questo uomo con i baffi dalla stanza di mia mamma. Ho visto uscire anche lei. Come al solito, preparò il cibo, apparecchiò il tavolo e mi chiamò a mangiare. L’uomo si sedette lì, con noi, nel posto di mio padre. Io invece, mi sedetti dall’altro lato del tavolo, di fronte a lui, a sbirciarlo. Parlava con mia mamma di un viaggio lungo, in cui doveva guidare tutta la notte. “Meno male, così non ti vedrò più”, penso. Aveva l’iride verde col bordo blu. Me ne resi conto perché a volte mi guardava, mi sorrideva, faceva smorfie mentre mangiava, voleva interagire con me. “Non con me”, penso. Mi chiede se voglio mangiare un panino con il dolce di latte. Penso di dirgli di no, ma ho fame. “Sì”, rispondo. Prese una fetta di pane, la lasciò su un piatto vuoto, prese il suo coltello e spalmò accuratamente il dolce di latte su tutta la superficie della fetta. “Tieni”, dice, avvicinandomi il piatto lentamente. Lo presi in silenzio e mangiai.
Cambiai di posto e mi sedetti accanto a lui. Guardai come metteva l’indice dentro il manico della tazza per bere il caffè, come mescolava lo zucchero, movendo il cucchiaino dal fondo della tazza verso l’alto. Guardai i suoi occhi verdi col bordo blu quando mi guardava. Finì di mangiare e si alzò. Entrò nella stanza di mia mamma, tornò con una valigia e disse: “Devo andarci”.
A questo punto, l’uomo dai baffi mi stava un po’ simpatico. Mia mamma esce di casa con lui. Io vengo dietro. Si china verso di me con le braccia aperte, riguardo i suoi occhi verdi col bordo blu e lo abbraccio. Questa fu l’unica volta che ho visto mio papà senza la barba.

 

L’assente

Due personaggi (A e B) parlano (in un dialogo, al telefono…) di una persona assente (C), la cui identità è svelata solo alla fine

A proposito di Giorgio (Rita Colombo)

A: Hai più sentito Giorgio?
B: No, ma dopo quello che è successo, non mi stupisco…
A: Sì, però… non farsi più vedere neanche da noi, in fondo siamo i suoi migliori amici…
B: Qualche giorno fa ho parlato con Silvia, dice che l’ha incontrato e che non sembra più lui. Ovviamente gli ha affibbiato tutta la colpa di quello che è capitato, e si è pure fatta una bella risata.
A: Naturale, lei ha sempre avuto poca stima per Giorgio, figurati dopo questa storia!
B: Comunque io non penso che l’idea sia stata sua, sarà stata quella simpaticona di sua moglie a organizzare tutto.
A: Hai ragione, Giorgio non è il tipo da badare all’estetica. Ma come avrà fatto a convincerlo? E lui non poteva consultarsi con noi, prima di decidere?
B: Lo sai com’è, è sempre stato riservato sulle sue scelte, fin dai tempi del liceo.
A: Chissà quanto gli sarà costato, si sarebbe comprato un SUV con quei soldi. E adesso chissà come si vergogna, visto il risultato, ci credo che non abbia il coraggio di farsi vedere.
B: Sai cosa ti dico? In fondo penso che la colpa sia un po’ anche di tutti noi. Ma ti ricordi quando tutti lo prendevano in giro a scuola, chiamandolo, quando andava bene, Cyrano? E Gigi che gli faceva la caricatura con la proboscide?
A: Vabbe’, erano cose da ragazzi, ma Giorgio adesso è un uomo, sposato, con due figli, che bisogno aveva di rifarsi il naso?

L’uomo del balcone (Christiana De Caldas Brito)

*
Gentile Signora,
sono mesi ormai che mi metto a contemplare la sua bellezza e la calma eleganza dei suoi gesti. Abito alla palazzina numero 5 e il mio balcone, anche se distante, si trova davanti al suo. Devo confessarle che mi ha conquistato la delicatezza con cui lei ha accettato la mia corte.
Signora mia, avendo vissuto in Germania, vicino al lago di Costanza, mi vidi totalmente calamitato dalla forza serena di quel lago, placido e altero, come lei, gentile Signora.
Le scrivo perché non posso più trattenere il mio sentimento. Mi perdonerà se lo dirò in semplici parole, ma io… io sono innamorato di lei, gentile Signora.
So che è sposata. Tutte le sere, vedo suo marito entrare nella portineria della palazzina 7. La governante gli apre la porta di casa. Le trasparenti tende mi permettono di seguirlo con lo sguardo quando poggia la cartella su una sedia e immediatamente si dirige al balcone a salutare lei. Oh, beato chi le vive accanto, mia gentile Signora. Io, invece, sono da lei separato da un abisso, un abisso d’aria tra i nostri balconi.
Nel momento in cui suo marito entra in casa, spengo la luce per non essere visto. Rimango doppiamente al buio quando lui la porta via dal balcone.
Non so il suo nome, Signora, ma avrei potuto chiederlo al suo portiere. Ho evitato di farlo per non crearle alcun imbarazzo. Per varie volte l’ho aspettata in strada, ma lei probabilmente esce negli orari in cui io sono al lavoro. Non mi è ancora toccata la grazia di vederla da vicino o di rivolgerle la parola, ma in futuro, se riusciremo a superare l’abisso e mi sarà concesso di essere vicino a lei, sono sicuro che i miei occhi non le diranno più di quanto non le abbiano già detto nel silenzio dei nostri balconi.
La sua governante ogni tanto esce. L’aspetterò davanti alla vostra palazzina e le chiederò di portarle questa lettera.
Gentile Signora, se il suo sentimento non dovesse corrispondere al mio, le prometto che abbandonerò il balcone. Ma se in questi mesi fosse in lei cresciuto lo stesso affetto che trabocca dal mio essere, Signora mia, le chiederò un appuntamento.
Grande è stata la sua saggezza nel mantenermi imprigionato alla speranza di una sua parola, di un suo sorriso. Sono stato conquistato dall’eloquenza dei suoi occhi.
Le racconterò tutto di me se accetterà la proposta di un nostro incontro. Le chiedo di essere gentile con la mia audacia. Per adesso mi lasci semplicemente essere

L’ uomo del balcone

Gentile Signore
Giorni fa, lei si è rivolto a me per strada. Voleva sapere se io fossi la governante della famiglia che abita alla palazzina numero 7, il cui balcone si trova davanti al suo. Le risposi di non essere la persona da lei cercata.
La cosa sarebbe stata di poca importanza, se lei, due giorni dopo, non si fosse presentato al portiere per chiedergli di consegnare una lettera alla giovane signora il cui balcone si trova davanti al suo.
Gentile Signore, la sua lettera, per ovvie ragioni, è stata consegnata a me. Ho rotto il suo sigillo e l’ho letta.
Questa è la prima e l’ultima risposta che lei avrà dalla palazzina 7. Signore, io non lavoro come governante nell’interno 2, ma sono la proprietaria della casa. La giovane donna, che lei dichiara di amare, è mia figlia.
Rimasta vedova molto presto, mi dedicai totalmente ai miei due figli. Da quando mi avevano messo in braccio un fagottino accompagnato dalle parole “È una bambina”, vivo soprattutto in funzione di quella bambina. Mio figlio, l’unico a poter testimoniare la mia totale devozione, dice che sua sorella è la mia bambola. E se così fosse, gentile Signore? Non ho per caso il diritto di giocare con mia figlia? La pettino, la trucco, la vesto. E, soprattutto, prendo per lei le decisioni che ritengo giuste.
Le posso garantire che sarò l’unica a leggere la sua lettera. Per mia figlia lei non esiste né mai esisterà.
Gentile Signore, diriga pure i suoi occhi ad altri balconi. D’ora in poi, non vedrà più la mia bambina seduta davanti a lei. La metterò dall’altra parte della casa, guarda a nord.
La pregherei di non insistere o sarò costretta a denunciarla.
Gentile Signore, mia figlia, la giovane donna i cui occhi sono per lei così eloquenti, è nata cieca. Sono ormai diciannove anni che vive nel più assoluto buio.
La saluto, gentile Signore.

La proprietaria della palazzina 7

*Il testo, gentilmente inviato dall’autrice, è pubblicato nel blog di Daniele Barbieri
http://www.labottegadelbarbieri.org/luomo-del-balcone/ (url consultato il 10/4/2017)

A tu per tu

Instaurare un dialogo con un assente, usando la seconda persona, in una lettera, un soliloquio, un ricordo, una domanda di aiuto…

Mi sorprendo a cercare i tuoi occhi (Paola Balotta)

Mi sorprendo a cercare i tuoi occhi in mezzo alla folla, dopo tutto questo tempo. Ti cerco ancora tra i visi giovani, i passi decisi. Come se su questo marciapiede accanto al binario ci fosse spazio per i desideri soffocati, i futuri immaginati, per ciò che non è stato.
Come se questa attesa lunga e dolorosa si potesse sciogliere in un abbraccio. Come se questa fosse ancora una attesa.
Eppure mia nipote me lo ha spiegato, e non aveva più di quattro anni: se c’è la magia è una storia, non è vera.
Non stavo con te perché mi facevi stare bene, nemmeno quando mi facevi stare bene. C’era qualcosa nel dire ‘noi’
che lo dico a fare
a chi
le mie parole non hanno più un destinatario. Nessuna bottiglia in cui chiuderle, né tappo, né corrente a cui affidarle. Galleggiano intorno a me come rifiuti nell’acqua sporca
TU
una sillaba troppo gonfia di fantasia ormai. Ha dentro solo aria, si è tutta consumata agli angoli.
Manda un cattivo odore.
Non è il passato che mi manca, ma il futuro che avevamo immaginato. Strappandolo è venuta via anche la pelle. La brezza del mattino mi colpisce sulla carne viva.
Mi hai salutato qui, hai promesso che avresti chiamato. Ora che la rabbia è passata, vedo bene che non avresti potuto.
Come chiamarmi per dirmi che stavi bene, lontano da me e da questo posto? Magari con un’altra donna, una casa, degli amici?
O per dirmi che stavi male, che lasciare tutto non era servito, che il mio dolore aveva anche la vergogna di essere inutile?
In quale lingua, con quale voce parli ora? Con quali piedi cammini? Con quale sangue ti scaldi?
Avevi forse un cuore di scorta, da qualche parte, dove io non so?
Un altro filo del discorso?
Altri suoni, altri sguardi, altre direzioni?
Eri stato così saggio da custodire un altro futuro, un futuro di scorta, al riparo da noi, al riparo da me?

Le parla ancora (Nadia Colella)

La prima volta fu che non trovava più quella sua piccola spilla d’oro e corallo, pensava di averla persa per strada e si sentiva in colpa perché era un suo regalo e non era stata attenta: come sempre, come lei in passato le faceva capire scuotendo la testa e stringendo le labbra a ogni suo gesto maldestro, a ogni sua sbadataggine. Sospirò, “Lo so mamma, sono sempre la solita…”. E inspiegabilmente la spilla era lì, nella scatola di velluto rosso, il posto giusto era, quello delle spille e degli orecchini, il primo posto dove aveva invano cercato.
E poi fu la volta della sparizione di quel certificato… non c’era… non lo trovava… ma dov’era finito…: le serviva. “E dai mamma… tu che trovavi sempre tutto… un aiutino…”. E questo ricompare impunemente sulla cassapanca dentro la sua cartelletta, precisamente dove doveva stare. Inquietante, aveva controllato anche lì, poteva giurare che il giorno prima non c’era.
La tenda gialla: una mattina si accorge che è montata al contrario, la gira, ecco, ora è diritta (“Mamma, che dici di questa tenda… ti piace?”). E il giorno dopo è ancora al contrario… La raddrizza di nuovo, ma è sconcertata.
Tutto questo è troppo: lei le parla ancora, ma non crede a queste cose.

A Matteo (Angela Colombo)

Passeggiavamo
mano nella mano
e tu
parlavi del gioco del calcio
e di regole strane, forse inventate
ma io
ascoltavo lusingata della tua fiducia
in me, curiosa delle tue curiosità,
bambino che capivi
i miei sospiri: “perché dici mah?”.
E poi ci fu quel viaggio in treno
E poi ricordo l’impegno
che ci mettevi quando giocavi
a dama, a scacchi e a carte, insieme a me.

In una calma notte di luna
sei tornato, Matteo,
raggio felice, a illuminare
il mio mondo. Alla sua luce,
provo a cercare
i ragni, i vermi e i mostri nel cassetto
che ho imparato a vedere insieme a te.

Dentro… sono giovane! (Theresa Lee)

Cara Maria
Come sta andando il viaggio? A che ora arrivi? Spero che tu sia contenta e felice di ritrovare la tua famiglia. Non devi preoccuparti di ricevere questa lettera da me. Sono curiosa di tante cose: cosa pensi di me e cosa vedi in me? Pensi che io sia vecchia e quindi non capisca? Pensi che io abbia cattive abitudini? Pensi che io sia sempre in attesa che arrivi qualcuno? Che faccia finta di non sentirti quando mi chiami? Che giochi con il cibo perché stanca? Loro ti fanno stancare e arrabbiare quando per parlare con me devi gridare in modo che io ti senta. Tu pensi che io non mi interessi a quello che tu fai per me? So che tu devi resistere, avere tanta pazienza per stare con me. Riesci lo stesso a fare tutte le cose: farmi la doccia, prepararmi da mangiare, cambiarmi i vestiti. In più, devi dormire poco la notte per causa mia: devi portarmi in bagno per fare pipì, la cacca ecc. Per questo mio figlio deve portarmi tanti pannolini…
Quindi pensi che io sia cattiva e bugiarda? Che parli sempre di te e mi lamenti con mio figlio, esagerando tutte le cose? Apri gli occhi e cerca di capire meglio le cose. Vedevo, gli ultimi giorni prima che tu partissi, che stavi andando fuori di testa. Mi dicesti di perdonarti, perché partivi senza dirmi quando saresti tornata. Abbiamo anche cercato una tua sostituta. Perché non torni? Mi dico: “Chi sono io?” Io sono figlia unica di una grande famiglia famosa. Quando ero piccola sognavo di diventare proprio come i miei genitori. E sognavo di avere un grande amore per tutta la vita. All’età di vent’anni mi sono sposata con un uomo del mio stesso rango. Abbiamo fatto una festa sontuosa. Dopo un anno sono diventata madre, promettendo a mio marito di dare a nostro figlio un grande amore, mentre lo tenevamo in braccio.
Ero molto protettiva. Quando mio figlio dormiva, controllavo anche che nessuna zanzara potesse solo avvicinarsi a lui. In quei momenti mi sentivo molto felice e contenta. Una tragedia cambiò tutto. Mio marito ebbe un incidente. Da quel momento inizia per me una vita molto triste e faticosa. Ma la vita continua. Soprattutto per mio figlio. Ho preso quindi tutta la responsabilità dei nostri negozi e fortunatamente tutte le persone che lavorano per noi continuarono a darmi rispetto.
Mio figlio, all’età di trent’anni, si è sposato e ha poi avuto dei figli. Da allora non ha avuto più tempo per me. Veniva qua poche ore, portando i nipoti e regalandomi qualche sorriso.
Vecchia mamma
P.S. Spero che tu adesso abbia capito chi sono io veramente… sono una vecchia mamma che è sempre in attesa dell’arrivo di suo figlio, sperando che lui stia con me. Perdonami anche per tutta la fatica che hai fatto per stare con me… Perché voglio vivere con te…

Ti ringrazio
Quando sono arrivata
Mi spieghi tutto
Ti vedo come lavori
Ti vedo come pulisci

Un giorno piove vento forte. Anche se il tempo è brutto, pensi sempre al lavoro.
Un signore mi regala una cosa. Penso sempre che sia una cosa da te.
Capisco che tutto quello che ho, se è bello o brutto, viene da te…
Ti ringrazio per tutto
Tutto quello che mi hai dato e insegnato, anche se sono ancora giovane.
Mi hai insegnato subito la parola vita.
Adesso ho capito.
Mi hai già spiegato tutto, se ti arrabbi con me è normale.
Capisco che sei stanca e c’è
Qualcosa che non va bene
Grazie mille a Dio perché
Mi ha regalato una mamma
Come te. Tu cerchi sempre di
Essere brava e gentile… e io
Cerco sempre di essere come te
Ti voglio bene, Mamma

Lettera ad un imputato (Mariangela Quaini)

Stimatissimo Pisati,
non ti sembri una stramberia se mi rivolgo a te per cognome, ma da sempre tu sei sul banco degli imputati, accusato di avere trasmesso ad una parte della tua discendenza un carattere poco conciliante, quindi, scanso le smancerie ed evito di ricorrere ad appellativi più familiari.
Più di una testimonianza ti descrive come persona piuttosto testarda, forse anche un po’ prepotente. “Il cucchiaio nella polenta deve stare in piedi”, oppure, sempre rivolto a tua moglie, rincasando di sera: “Angiolina, la polenta è bruciata, l’ho sentito dal cortile”. Ma, in parte, ci sono delle attenuanti: sei nato nell’800, quindi è comprensibile che tu sia stato un pater familias del tuo tempo.
Resoconti piuttosto dettagliati della componente femminile della famiglia attestano che sei stato una persona orgogliosa, fiera, cocciuta e non troppo malleabile. I capi d’accusa sono piuttosto gravi, ma non sarebbe onesto sottacere che nel corso degli anni non sono mancate voci in controtendenza: i tuoi generi, anche quelli che ti hanno conosciuto poco, temo più per solidarietà maschile che per conoscenza dei fatti, sempre si sono coalizzati in tua difesa: a loro parere, facevi il tuo dovere in casa e al lavoro e sapevi essere persona socievole e generosa.
Pisati, non ci siamo mai incontrati, ma in fondo ti conosco da sempre, avrai capito che io sono parte in causa e che sono la prova vivente delle tue responsabilità, se è vero, come sosteneva mia madre, che i difetti si trasmettono anche per via genetica. Doveva esserne convinta, ti assicuro, tua figlia: in casa, per dire che non c‘era verso di farmi ragionare, l’ultima perifrasi che urlava prima dell’insulto aperto era: “Questa ragazza c’ha la testa del nonno Angiolino!”.

Più unico che raro

Creare un personaggio, tipico nella sua unicità

Teletrasporto (Aiko Milagros Samanez Flores)

Non avevamo mai visto una persona così straordinaria come lei. L’abbiamo osservata fin dalla nascita. Così vivace, carina, tenera e generosa. Fin da piccola i suoi le hanno insegnato il rispetto per le persone, animali o cose. Quando ha cominciato la scuola si è adattata molto velocemente. Aveva tanti amici. Ma c’era una cosa che non le stava bene. Aveva paura del buio. Quando spegneva la luce andava di corsa sulle scale per arrivare al primo piano e sentirsi al sicuro insieme ai suoi genitori. Uno di quei giorni è inciampata, stava per cadere contro lo spigolo della scala. Allora ha desiderato così tanto di essere in un altro posto dove ci fosse la luce. Il suo desiderio si avverò e comparve in un altro posto. Da lì ha scoperto che aveva lo straordinario potere del teletrasporto. Un potere che chiunque desidererebbe. Man mano che cresceva, cominciò a viaggiare in qualsiasi posto. Si sentiva molto felice, perché conosceva nuove culture e persone. Il guaio era che poteva soltanto teletrasportarsi da sola, senza nessuno accanto. Questo la faceva stare male. Fece di tutto per poter portare qualcuno con sé. Nell’intento di farlo, svenne. Aveva esaurito tutte le sue energie. La mamma voleva che lei riposasse e non si sforzasse, ma invano. Lei continuava e continuava. Un giorno cadde in coma. Da allora non si è svegliata più. Noi vegliamo tutti i giorni su di lei. Speriamo che prima o poi si svegli. Per vedere il suo sorriso.

Ciò che Carmen voleva raccontare (Daniela Winkler)

Carmen vuole scrivere. Ma, non vuole essere scrittrice, solo sogna di scrivere una autobiografia. Vuole che la gente legga la sua storia, perché la sua vita sarà incredibilmente meravigliosa. Carmen ha sempre voluto vivere come se fosse in un film. Ma, non qualunque film. Uno con un finale felice. Sempre ha sognato essere la bella donna che trova l’amore della sua vita nel preciso istante che lui le rovescia un caffè sopra la camicia, e lui si innamora perdutamente; o la donna talentosa scoperta per caso, che diventa una star. È precisamente questo, ciò che vuole raccontare.
Un giorno inizia: “Nacqui un giovedì di maggio…”. Dopo aver scritto un po’, sette righe e mezza per essere precisi, si è resa conto che non aveva niente da dire, o almeno, niente che voleva veramente raccontare. In quel momento decide che vivrà come se ogni secondo della sua vita dovesse essere raccontato al mondo. Inizia a cantare per la strada, nel caso trovasse uno scopritore di talenti. Si imbatte in ogni uomo che trova interessante, per caso fosse l’amore della sua vita. Alla fine si trova sempre con le stesse situazioni: un caffè rovesciato sulla camicia, una macchina sul punto d’investirla, grida per far tacere il suo canto. Ogni storia, ogni successo… lo scrive, per caso fosse scatenante nella sua storia. Quarantatre anni dopo, Carmen aveva centinaia di taccuini scritti. Centinaia di storie. Ma, nessuna che volesse veramente raccontare. La morte arriva prima della realizzazione del sogno.
Per vendere la sua casa, buttano via tutti i suoi scritti. Per caso, una donna inciampa in questa montagna di taccuini sul marciapiede. Ne prende uno, lo apre, legge una pagina e ne prende un altro. Quando ne ha dieci in mano, decide di tornare dopo a prenderli tutti. “Sono fantastici!” ha pensato. Carmen è stata scoperta.
Con i suoi taccuini, scrivono una sceneggiatura per un film commedia. Diventa un successo. Anni dopo la sua opera si studia nelle scuole di letteratura. Si studia il modo in cui lei ha fatto una critica alla società maschilista in cui ha vissuto. Si analizza il modo come ha messo tanti problemi della società dentro un solo personaggio, per raccontare in prima persona lo stereotipato del mondo attuale. Si elogia il modo in cui riesce a fare ridere dopo anni dalla sua morte.
La sua opera diventa un capolavoro, ma questo non è ciò che Carmen voleva veramente raccontare.

Vai a saperlo

Costruire una storia, in cui il flash-back sia determinante

Morire e sopravvivere per raccontarlo (Daniela Winkler)

L’unica cosa che sappiamo con certezza è che un giorno moriremo. Tutti, senza eccezione. Ma ci sono quelli che muoiono due volte, e anche di più. Questo è il caso di Maddalena. Donna di novantatre anni, un marito, cinque figli vivi, due figlie morte, sette nipoti, due bisnipoti, un gatto e una defunzione. Maddalena pensa già da tempo al suo secondo decesso. A novantatre anni, sente che è un fatto che si avvicina a passi da gigante, e siccome è una esperienza già vissuta, sa benissimo che cosa aspettarsi.
A ottantanove anni, lei decise di organizzare in dettaglio il suo funerale. Per garantire che la sua volontà fosse rispettata, lasciò un testamento condizionato al compimento dei suoi desideri. Il documento iniziava con “La veglia funebre deve essere di almeno due notti e accompagnata sempre da qualche parente”, così nel caso si fosse svegliata, avrebbe potuto essere assistita. Se questo non, fosse accaduto, tutti sarebbero stati sicuri della sua morte. Il documento continuava “Durante la veglia, la bara deve essere sempre aperta”: era claustrofobica e non voleva svegliarsi in una cabina di legno chiusa. “Per la veglia funebre, devo essere completamente vestita”, non voleva uscire dalla bara in mutande davanti a tutti. “I presenti devono portare soltanto rose”, considerava che gli altri fiori fossero per i morti e lei non era totalmente convinta di esserlo. Dichiarò centoquattro condizioni, giacché la possibilità di essere seppellita viva la tormentava da sessantadue anni.
All’età di ventisette anni, Maddalena aveva un marito, quattro figli, un cane e nessuna defunzione. Viaggiando in macchina con suo marito e tre figli, vengono investiti da un camion, escono fuori strada e cadono per venti metri da un dirupo. Sopravvive il marito e un figlio. Lei e le sue bimbe muoiono. Durante la veglia funebre, dopo la prima notte, Maddalena si sveglia distesa dentro una scatola di legno con un vetro di sopra. Chiude gli occhi tentando di cambiare il corso di quello che pensa sia un sogno, ma non riesce. Si rende conto che le mancano le scarpe e i pantaloni. Sente freddo. Si gira in posizione fetale per riscaldarsi e si scontra con un muro di legno. Annusa l’odore della morte. Guarda attraverso il vetro e vede in cielo duecentoquarantotto angeli, duecentotrentacinque anime, ventuno personificazioni, centodue personaggi religiosi, trentacinque dannati, tredici ritratti, quattordici mostri, ventitre putti, dodici animali e una luce alla fine del tunnel. Capisce che per attraversare la luce, prima deve superare il suo giudizio finale. Si alza con tutta la forza che le dà la fede e sbatte, con la stessa forza, contro il vetro. Si affaccia una folla agitata che le fa perdere di vista il suo cammino nell’aldilà. Mille mani aprono la bara e la portano fuori. In mutande, in mezzo alla moltitudine, si gira su tutti i lati cercando qualcosa, cercando di capire. Mentre la portano fuori dalla chiesa, fissa i suoi occhi sulle due piccole bare collocate sotto la cupola accanto alla sua e desidera essere morta.

A complementare di B

Individuare le dinamiche di una “coppia”, tra cui agiscano rapporti di complementarietà

Luna ritrova un amico (Aiko Milagros Samanez Flores)

Man mano che passavano gli anni, lei compiva un anno in più di vita. Aveva tutto tranne l’amore di qualcuno che la volesse per quello che era. Sapeva di avere un carattere forte e tanti difetti, ma lei desiderava la sua felicità. Quando uscì dal lavoro, si ritrovò con un temporale. Pensò: “Un po’ di pioggia non mi farà male”. Arrivò alla fermata dell’autobus ma c’era lo sciopero, quindi niente autobus. Si dice fra sé e sé “Luna, ci tocca andare a piedi per l’ennesima volta”. Cominciò a camminare, quando ad un certo punto sentì gridare da qualcuno il suo nome. Lei non si voltò, perché pensò che i richiami non erano per lei, cominciò a camminare più veloce, aveva un po’ di paura. Ad un certo punto qualcuno la prese per mano e le disse: “Pingui fermati! ? da dieci minuti che ti continuo a chiamare e tu neanche ti degni di voltarti. Per colpa tua sono più sudato di un lama”. Eh già, aveva corso. Poverino. Lei lo guardò e lo riconobbe. Era l’amico delle superiori, quello timido che non le parlava mai e che a mala pena la salutava. “Ah sei tu! Non ti avevo riconosciuto dalla voce, sai sono passati molti anni.” “Eh già” disse lui. “E comunque i lama non sudano”. Si guardarono e scoppiarono a ridere. Lui l’accompagnò a casa. Era la prima volta che ridevano e parlavano così tanto. Si scambiarono numero di cellulare e cominciarono a scriversi. Lei ha scoperto che avevano un sacco di cose in comune. Sono usciti insieme un pomeriggio. Lei si sentiva un po’ in imbarazzo, non capiva il perché, se era solo Yuki. Quando lei è arrivata, lui la guardò e l’abbracciò. Divenne rossa come un pomodoro. Lui se ne rese conto e le chiese il perché, ma lei disse che era per il caldo. Sono andati a una mostra, lei era molto emozionata e anche lui. Quando finirono, lui le offrì un gelato. Lei lo prese all’amarena e menta. Lui al mango e lampone. Ad un certo punto il gelato di Luna si cominciò a sciogliere, le stava colando sulla mano e il braccio. Lei pensò: “No un’altra figuraccia.” Lui la guardò: “Pingui dovevi scegliere la frutta, non la crema, scemotta”. “Lo so mi dispiace”. “Non fa niente” e le diede un fazzoletto per pulirsi. Cominciarono ad uscire più spesso. Così iniziò la loro storia dal nulla al tutto. Da essere due amici a due innamorati. Aveva incontrato finalmente la sua felicità.

A opposto di B

Individuare le dinamiche di una “coppia”, tra cui agiscano rapporti di opposizione

Evasioni (Marta Cabrini)

Milano. Ultimo giorno di vacanza prima dell’inizio della scuola. La terza elementare. Bisognava festeggiare. Fare qualcosa di nuovo per alleggerire la monotonia delle lunghe giornate trascorse in casa o ai soliti giardinetti. Bella l’intesa fra loro. Le vacanze potrebbero essere giorni intensi di scoperte in giro per musei e mostre. La bambina molto curiosa ed interessata. Scoprire gli angoli sconosciuti della città, tutti i suoi parchi. Andare al cinema o partecipare alle attività per bambini sparse per la città. La nonna è un vulcano e la piccola con la sua fresca energia pronta a partecipare.
Invece non si può fare. Limitazioni su tutto. Incomprensibile il perché. Andare al ristorante, una conquista. E come tutte le conquiste, una vittoria. Un piccolo tavolo, pochi centimetri separato da quello accanto. Loro due sole con i menù in mano. La bimba va da sempre al ristorante. La nonna era già grande la sua prima volta. Poi c’è andata molto raramente nella sua vita. Solo in questi ultimi anni è diventata quasi una normalità. La piccola apre il menù ed immediatamente dice: “Tagliatelle ai funghi porcini!” Scelta decisa ed immediata. La nonna sempre indecisa nella scelta. Come se da quella scelta dipendessero i destini del mondo o solo paura di sprecare denaro per un cibo che non merita. Retaggio di un tempo. Ha deciso, trofie alle verdure e scamorza. Chiacchierano e si guardano attorno. Il locale è pieno per la pausa pranzo. La curiosità le accomuna. La complicità perfetta. Basta uno sguardo, un ammiccamento e si capiscono. Un uomo un po’ anonimo, dall’età incerta, forse tra i quaranta ed i cinquant’anni, si siede nel tavolino accanto a loro. Apre il menù e si mette a leggerlo. Lo tiene molto vicino al viso, forse non ci vede bene. Ma sembra quasi voglia assaporarlo. Continua così per un tempo lunghissimo. La bambina, con espressioni del volto, lo fa notare alla nonna. Arrivano i loro due piatti. Semplicemente favolosi. Decidono di mangiarne una parte e poi scambiarseli per assaggiarli entrambi. Il vicino finalmente ordina. Chissà cosa avrà scelto dopo tanto studio? Nonna e nipotina sono già alla fine dei loro appaganti primi piatti che arriva la cameriera a servire il vicino. Una ciotola di insalata mista! La bambina non riesce a non ridere fingendo chissà quale storia. Appena fuori: “Ma nonna hai visto quel signore, tutto quel tempo, per una insalata!” e ride, ride di gusto. La scorsa settimana sono tornate a mangiare in quel posto. Serviva spezzare la lunga giornata in casa. La scuola chiusa per le vacanze di carnevale. La bambina non ha dimenticato e ridendo dice: “Nonna chissà se ritroviamo ancora quell’uomo strano. Tutto quel tempo per un’insalata!”

Giulia e Maria (Angela Colombo)

Giulia era per Maria una qualunque vicina di casa con la quale scambiare un cortese buongiorno e buonasera.
Impeccabile nell’abbigliamento sempre di moda e ricercato nei dettagli, con un’andatura lenta e una postura altezzosa salutava sempre con un sorriso formale accompagnato da un rapido accenno delle labbra.
Maria ogni volta che la incrociava pensava “Che tipo snob, non potrà mai essere una mia amica!” A Maria piacevano le persone simili a lei, non eccessivamente curanti dell’aspetto esteriore, dai modi un po’ naif, disponibili a scambiare qualche parola con persone anche se non propriamente conosciute.
Una volta si è presentata l’esigenza di andare oltre il saluto e parlare forse di qualche problema condominiale e Giulia, con un atteggiamento di persona costruita nel modo di porsi e di comunicare, non ha fatto che rinforzare la prima impressione avuta da Maria su di lei: “È lontana da me anni luce”. Ma ben presto la stessa Maria dovette ricredersi, quando reduce da una rovinosa caduta durante un viaggio in Madagascar si ritrova da sola a camminare con passo malfermo nel giardino del condominio. Giulia vedendola s’interessa delle sue condizioni e si offre di accompagnarla a fare una passeggiata. Nasce così una bella storia fra due persone che, nonostante i loro caratteri antitetici, continuano a frequentarsi per conoscersi meglio.
Dopodiché Maria rivaluta definitivamente Giulia che riteneva lontana da lei considerandola una persona disponibile, sincera, intelligente, sensibile e profonda.
È l’inizio di una grande amicizia che dura ormai da anni basata sulla reciproca accettazione del modo eccessivamente raffinato nel vestire e sofisticato nel modo di essere di Giulia e della mancanza di stile, della semplicità e dell’irrefrenabile esuberanza di Maria.

A uguale a B

Costruire il doppio di un personaggio sotto forma di metamorfosi o sosia

In tram (Caroline Braga)

Stava seduta di fronte a me, circa tre metri avanti. Era già lì quando sono salita sull’autobus. Mi sono seduta nel primo posto alla sinistra della porta centrale. Lei si trovava alle spalle dell’autista, in una di quelle sedie fastidiose, rivolte nella direzione opposta a quella di marcia.
L’ho notata subito. Questa ragazza mi assomiglia un po’. No, aspetta… questa ragazza mi assomiglia tanto. L’ho fissata per quattro fermate, sviando lo sguardo ogni tanto, per non darle fastidio. Forse gliel’ho dato lo stesso. Ma anche lei mi guardava. Questa ragazza mi assomiglia troppo. Credo che lo pensi anche lei, altrimenti, perché mi guarderebbe?
Avrà dieci anni in meno. È una bella ragazza? Si che è bella. Posso permettermi di pensare che ci assomigliamo? Cosa pensa lei nei miei confronti? Perché, se mi fissa, qualcosa su di me penserà. Sarà italiana? Sembra italiana. Si veste come una italiana. Ed io? Dipende dal giorno. Oggi sì.
Dieci anni fa, non avevo idea che sarei finita in Italia. Anzi, “sono finita” in Italia, ma non so ancora se “ho finito” quello che mi proponevo.
Quali scelte ho fatto nella mia vita che mi hanno portata qui? Non intendo qui in Italia, sì qui dove sono. No, non in autobus! Qui, chi sono?
Se questa ragazza fosse io, dieci anni fa, sarebbe fiera delle scelte che ha fatto? Se io potessi tornare indietro, avrei fatto le stesse scelte? Certo che no… Nel tempo trascorso di dieci anni, si spera che uno diventi più saggio e faccia delle scelte più intelligenti.
Se io potessi rifare le mie scelte dopo tutto quello che ho imparato… Ma senza le esperienze che ho avuto, come farei a sapere?
Se questa ragazza lo sapesse… C’è qualcosa che devo dirle?
Smettila, devo scendere.

Michela e Artù (Rita Colombo)

Stamattina Michela si è svegliata prima del solito per colpa del gatto Artù che faceva il matto inseguendo una mosca. Il primo pensiero è stato un ricordo lontano: quando il suo fidanzato Arturo la chiamava “la mia gattina” per via dei suoi occhi azzurri, fosforescenti come quelli di un gatto. Michela si stiracchia sotto le lenzuola e subito Artù salta sul letto per portarle il suo saluto mattutino. Di tutti i gatti che ha avuto, Artù è quello più capace di capirla, sa sempre cosa fare al momento giusto, come se leggesse nei suoi pensieri: quando lei è indaffarata o nervosa non si fa vedere, per comparire improvvisamente facendosi in quattro per consolarla quando si sente sola e ha bisogno di coccole, cosa che ultimamente le capita sempre più spesso. Meglio di un essere umano. Sicuramente meglio di suo marito, che neanche si accorge di lei.
Ma oggi Artù è stranamente agitato, sembra che voglia richiamare continuamente la sua attenzione, anche se sicuramente non è affamato, anzi, il suo piattino è ancora intatto. Michela zampetta per la casa in modo inconcludente, si stiracchia, si mette a giocherellare con la pallina di Artù, si china a raccoglierla da sotto un armadio, così, a gattoni, segue il volo di una mosca, quella che il gatto non è riuscito a prendere. Artù partecipa al gioco, le si strofina contro, l’annusa. A lei piace il contatto del suo naso umido e l’odore del suo pelo. Resta per terra, a rotolarsi, schermando felice con il gatto, che le saltella intorno. Supina, guarda il soffitto, zampe all’aria. Artù corre alla porta, fermo ad osservare la maniglia. Aspetta che lei, con un balzo, faccia scattare la serratura. E poi via, lasciando la porta socchiusa. Vorrebbe urlare. Non sa se è di gioia o di paura il verso che le esce di bocca, mentre corre. Corre come non aveva mai fatto. Quando a sera Enrico rientra dal lavoro la casa è vuota, la colazione è sul tavolo, intatta. Enrico si precipita fuori. Dal tetto di fronte due gatti osservano indifferenti la scena.

 

Le voci

 

Fumetti

Scegliere delle immagini e farne parlare (o pensare) i personaggi

Potere della lettura (Nadia Colella)

Pomeriggio afoso. Passò a prenderla in vespa. Si era messa elegante, un abito rosso senza maniche, borsettina nera. Lui invece era vestito come al solito, anzi, forse più informale del solito. Lei aveva insistito perché andassero da quei suoi amici noiosi, lui si era portato un libro che aveva interrotto con rammarico prima di uscire di casa. “Ti dispiace se ci fermiamo un attimo, muoio dalla voglia di sapere come va a finire un racconto che stavo leggendo… Tranquilla… non ci metto molto!”. Fermò la vespa e si immerse in un libro. Non proprio il massimo della cortesia. “Figurati… fa’ pure, io sto qui”, inforcò gli occhiali da sole per nascondere l’irritazione. Sarebbero arrivati in ritardo, pensò. Come al solito. Allungò il collo verso di lui: ma che aveva quel libro per assorbirlo così!?

Tra il pensare e il dire… (Angela Colombo)

Discorso diretto

Due amiche si incontrano dopo tanto tempo che non si vedevano.
L’una dice all’altra: “Che felicità rivederti!”
L’altra la guarda e pensa tra sé e sé: “Com’è invecchiata, con tutte quelle rughe e quel sorriso a 32 denti non veri!”
Comunque, sorridendo le dice: “Anche per me è un piacere incontrarti di nuovo”

Discorso indiretto

Due amiche si incontrano dopo tanto tempo che non si vedevano.
L’una dice all’altra che era felice di rivederla.
L’altra la guarda e pensa tra sé e sé che era invecchiata con tutte quelle rughe e quel sorriso a 32 denti non veri.
Comunque, sorridendo le dice che anche per lei era un piacere incontrarla di nuovo.

Discorso indiretto libero

Due amiche si incontrano dopo tanto tempo che non si vedevano.
L’una era felice di rivedere l’altra.
L’altra la guarda. Com’era invecchiata, con tutte quelle rughe e quel sorriso a 32 denti non veri.
Comunque, sorride, anche per lei era un piacere incontrarla di nuovo.

Discorso diretto libero

Due amiche si incontrano dopo tanto tempo che non si vedevano.
Che felicità rivederti.
L’altra la guarda. Com’è invecchiata con tutte quelle rughe e quel sorriso a 32 denti non veri.
Comunque, sorride, anche per me è un piacere incontrarti di nuovo.

Olu, Biko, Anna (Rita Colombo)

Olu fa fatica a concentrarsi nella lettura dell’articolo, troppe parole difficili, e poi la presenza di Anna lo mette in agitazione, guarda invece come è tranquillo Biko, come segue la lezione, non ce la farò mai a imparare l’italiano come lui. Biko finge di concentrarsi su quanto gli sta spiegando Anna, ma in realtà sta pensando che gli piacerebbe invitarla a “Lo Spirito del pianeta”, dove lui suonerà in un gruppo senegalese. Ma è inutile, non avrà mai il coraggio di dirglielo, pensa, soprattutto davanti a quel somaro di Biko che non si fa mai i fatti suoi. Anna è stanca, insegnare a questi ragazzi le piace, fanno progressi, sono educati, ma qualche volta li vede persi nei loro pensieri ed è più faticoso lavorare con loro. D’altra parte è già tanto che frequentino regolarmente, con tutti i problemi che hanno. Chissà quali pensieri li stanno distraendo adesso.

Il punto di vista

 

Borderline

Raccontare la realtà, adottando un punto di vista marginalePepper (Leandro Macasaet)Paradiso trovato. Un giorno, nel mezzo della stagione primaverile, la Pepper ha trovato il suo Giardino delle Delizie, l’angolo nel parco vicino alla sua casa. Lì, si può correre senza limiti, si può giocare senza pensare al giorno successivo, si può fare rumore, perché sembra che non ci sia nessuno a sentirla. Infatti questo è un luogo completamente opposto alla sua casa, dove tutto quello che si muove è sottoposto a regole. Da quel giorno, la Pepper aspettava sempre le due del pomeriggio, l’ora di andare nell’oasi della gioia.
Un giorno sotto una pioggia leggera, la Pepper ha conosciuto Dante. Ma non come gli altri, lui ha portato una pallina. Quel giocattolo alla Pepper piace tanto. Prima, Dante è venuto vicino alla Pepper con il gesto di darle la pallina. Ma no. Lui ha svoltato a destra e si è messo a correre. La Pepper si è buttata a inseguirlo in tutte le direzioni, fintanto che gli ha preso la pallina. Loro hanno passato il tempo giocando come pazzi. Hanno ruzzolato, strappato, rovesciato, coccolato, accarezzato e strusciato insieme senza fine.
Di mattina presto, il giorno dopo, nella casa di Pepper, la sua mamma ha gridato. Ha trovato una macchia di sangue sul letto. Lei ha controllato la Pepper. Il sangue era proprio suo. A colazione, la sua mamma ha parlato con la nonna. Pepper aveva sentito, “Non vogliamo nipotini.”
Quel pomeriggio, come al solito, Pepper è andata nel parco. Ha visto Dante già dentro nel Giardino delle Delizie. La Pepper ha girato nella sua direzione, ma ha sentito la resistenza del guinzaglio. Lei, a quel punto si è resa conto che, a rispetto di Dio, la razza umana ha una crudeltà che non si può capire. Nel racconto della Bibbia, Adamo ed Eva avevano peccato prima di aver lasciato il Giardino dell’Eden. Ma lei, Pepper, non aveva mai peccato, neanche Dante. Che motivo c’era di separarli? Paradiso perduto.

Less is more

Non far vedere, per far vedere di più

Il solito giro (Nadia Colella)La dottoressa scambiò un’occhiata con sua madre e si girò verso di lui: “Mi spiace, Ale, bisogna.” Gli uscì solo un OK e, a testa bassa, si precipitò fuori. Sedette sulla panca e si allacciò gli scarponi: non pensava a niente, solo a infilare bene i lacci nei ganci.
S’inerpicò sopra la casa, su per il sentiero che portava nel bosco. Era coperto di neve fresca ma sotto c’era un sottile strato di ghiaccio; stava attento a non scivolare. Gli abeti erano bianchi di fiocchi, i rami faticavano a reggerne il peso, e l’aria era tersa. Le orecchie pungevano per il freddo, procedeva con andatura sconnessa. Il solito giro: il loro giro. Ogni tanto si bloccava, come in attesa di qualcuno; e poi accelerava, come per seguire un’ombra; e poi ancora si fermava ad ascoltare, come se aspettasse di sentire uno scalpiccio.
Conosceva tutti gli anfratti di quel bosco, tronchi, ceppi; i fruscii; la neve attutiva tutto quanto: il silenzio era quasi irreale. Arrivò in cima col fiatone, soffiando fuori spessi sbuffi di vapore. Il “pratone” era una distesa immacolata, solcata da una scia di orme familiari: lo attraversò lentamente infilando i piedi nelle tracce ghiacciate. Si soffermò a guardare: dall’alto si scorgevano tetti imbiancati, fili di fumo, le luci del paese. Un pezzo di cielo era già rosso: stava scendendo il buio.
Decise di tornare seguendo la strada, sprofondando nella fanghiglia biancastra ammonticchiata ai bordi; ogni tanto una macchina gli passava accanto lenta; i lampioni illuminavano fiocamente e macchiavano di giallo l’asfalto viscido di neve. Incontrò una della sua scuola: si lasciava scivolare lungo una lastra di ghiaccio, gli fece un cenno con le dita, intenta a tenere l’equilibrio con le braccia sollevate ai lati del corpo. Poi, nell’ultimo tratto, lo prese un’assurda speranza. E allora Ale si mise a correre, le orecchie sempre più intirizzite, le mani rattrappite con le nocche arrossate, la sciarpa umida che gli copriva il mento: fischiò il loro fischio, una, due, tre volte. Nessuno. Entrò senza far rumore: nell’ingresso il guinzaglio giaceva in un angolo. Senza più vita.In ascensore (Angela Colombo)Due amiche sono nei pressi di uno dei due palazzi del complesso definito “Bosco verticale” situati nel centro direzionale di Milano.
“Dai corri che sta arrivando l’ascensore!” dice Roberta accelerando il passo.
“Un attimo, per favore, arriviamo” grida Giusi, sventolando la mano alla ragazza e al ragazzo che dal modo in cui stanno gesticolando sembra stiano litigando davanti alla porta dell’ascensore del palazzo.
Nello stesso momento arriva l’ascensore e, nonostante il cenno di Giusi, i due ragazzi si infilano furtivamente dentro all’abitacolo che inizia la corsa verso l’alto.
“Che bastardi, potevano aspettarci. Gli ho anche fatto segno e mi hanno vista, dai, eravamo a due passi da loro!” esclama Giusi.
“Speriamo almeno che non vadano fino all’ultimo piano, altrimenti arriviamo in ritardo” aggiunge Roberta sapendo che i piani di quella torre sono ben 26. Con lo sguardo fisso sul pulsante che indica il piano, vede che l’ascensore si ferma al 3°, poi riprende e va al 5°, sale ancora fino all’8° e subito dopo fino al 13° e qui si ferma.
“Ma che gioco stanno facendo?” borbotta Roberta.
“Quello di chi è più pirla” risponde Giusi.
Che incavolata, nella speranza che l’ascensore arrivi, preme forte il dito sul pulsante. Invece sale ancora fino al 17° piano.
Giusi non si tiene più, dà dei colpi sula porta dell’ascensore e continua a tenere premuto il pulsante, ma inutilmente. L’ascensore non solo non arriva, continua a salire e adesso si ferma ad ogni piano: al 18°, al 19°, al 20°, al 21, al 22°, al 23°, al 24°, al 25° e finalmente al 26°.
Giusi e Roberta si guardano sbalordite, non credono ai loro occhi. Giusi prontamente rischiaccia il pulsante per la discesa dell’ascensore. Tira un sospiro di sollievo quando vede che dal 26° piano l’ascensore inizia a scendere senza interruzioni al 25°, al 24°, al 23°, al 22°, al 21°, al 20°, al 19°, al 18°, al 17°, al 16°. Incredibile, l’ascensore è ancora fermo. Ma immediatamente riprende a scendere: 15°, 14°, 13°, 12°, 11°, 10°, 9°, 8°, 7°, 6°, 5°, 4°, 3°, 2°, 1°, 0°.
L’ascensore si apre, stesa a terra la ragazza che rantolando chiede aiuto.

L'autore

El Ghibli

El Ghibli è un vento che soffia dal deserto, caldo e secco. E' il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa.