Narrativa transnazionale

L’inconscio impaziente

 

Christiana de Caldas Brito
Gli impazienti
Cosmo Iannone, 2024

Un grido trasformato in fiaba

“Una parte mia ha preso coscienza di sé e ha visto questo libro come un grido. L’ho trasformato in parole con cui, da scrittrice e da psicologa, ho raccontato una storia.  Non ho fatto altro che seguire il mio grido”.

Con questa sorta di confessione, che precede il suo romanzo, Christiana de Caldas Brito ci autorizza a cercarvi qualcosa di profondamente autentico, che le appartiene: un’istanza latente, forse sofferta, che ha trovato nella scrittura il modo di venire alla luce nella coerenza di una storia, o meglio, di una storia letteraria. E, come capita a tutti i bravi scrittori che sublimano le proprie vicende personali sotto le maschere della letteratura, questo grido divenuto narrazione racconta qualcosa in cui tutti noi possiamo ritrovarci. Come diceva Pessoa, che Christiana ben conosce: “Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente”[1]. Ma ne Gli impazienti il “dolore” di quel grido, che genera questo breve romanzo, si percepisce come un’eco lontana, un leggero lamento emesso durante un sogno notturno. La trama, infatti, è quella di un percorso di formazione femminile, in cui  la protagonista in prima persona racconta la caparbia ricerca della propria identità e la perseverante fedeltà alla propria vocazione. Riuscirà nel suo intento, passando prima attraverso i difficili rapporti con gli anziani genitori nella sua infanzia e poi praticando l’esercizio della professione  di psicoterapeuta, subìta e responsabilmente accettata. Solo la ribellione finale, nell’ultimo capitolo, la porterà al raggiungimento di aspirazioni a lungo sacrificate e, forse, verso l’apertura a una nuova affettività. Una storia del tutto verosimile e quotidiana, che assume spesso le coloriture di una fiaba: c’era una volta una bambina che si chiamava Ecìla (questo il nome della protagonista).  Ascoltando con pazienza il suo impaziente desiderio di realizzare il suo sogno, dopo avere affrontato molte difficoltà, lei, che portava il nome rovesciato di Alice, quella della fiaba dello specchio, riuscì alla fine a rovesciare il suo destino. Non senza l’aiuto di aiutanti magici, come vedremo. Eccoci, allora di fronte a una urgenza autobiografica che assume le forme di un destino vissuto da un personaggio di fantasia che, qua e là allude all’Alice di Lewis Carroll.

Un realismo sospeso

In Christiana de Caldas Brito la convivenza di diversi registri, in particolare  del tocco elusivo del fantastico e di quello puntuale della quotidianità, non è casuale, anzi, fa parte della seria levità della sua scrittura, pensosa e sbarazzina nello stesso tempo: è il suo modo di difendersi dall’abbagliante presenza del reale e nello stesso tempo di  accoglierlo nel proprio mondo interiore. Nei suoi scritti la rappresentazione di cose e fatti si apre spesso a una via di fuga e la narrazione slitta nella affabulazione, cercando una distanza, un espediente per meglio osservare e custodire. In questo apologo il ricorso al fantastico non viene utilizzato  per negare la realtà o fissarla in cliché rassicuranti, ma, al contrario, per renderla instabile, sfuggente e quindi intrigante, problematica, in mutamento, come aveva ben segnalato Clotilde Barbarulli, che parlava della De Caldas Brito come di “una narratrice del mutamento, del transito di persone, di identità, di tempi, di sentimenti”[2]. Ne Gli impazienti gli artifici della leggerezza fiabesca creano i presupposti di un “realismo sospeso”, che si fa strada “tra” (come ci dice il titolo di un capitoletto del libro),  tenuto in mezzo, sempre pronto a  svaporare, a colorarsi di immaginifico. Così nel romanzo le letture serali di Attraverso lo specchio che la mamma fa ad Ecìla bambina, prendono le sembianze di un fatato oggetto di transizione, un “libro custode”, e Alice, la protagonista di quelle avventure, assume il ruolo di un vero aiutante magico, pronto ad accompagnare Ecìla fino alla soglia della sua consapevolezza, quando, finito il suo ruolo di guida, scomparirà in buon ordine. Non manca la presenza di oggetti antropomorfi, come una macchina da cucire Singer, che, rispettando il suo nome, emette una “ferruginosa”[3] voce di cantante e che fa da contraltare alla Callas, la vera, “divina” cantante, che “respirava musica”[4]. Per non parlare della rivisitazione di alcuni  blasonati oggetti dell’immaginario fantastico e psicanalitico, come specchi e forbici o di alcune situazioni da realismo magico sudamericano, come i sogni di sé fatti da altri o l’ipotesi di poter cambiare il proprio passato.  Questi segnali testuali, come quegli occhialetti dati all’ingresso delle sale cinematografiche per vedere i film in 3D, guidano anche il nostro percorso di lettura, scandito da brevi paragrafi introdotti da titoletti, alcuni dei quali alludono a copioni dell’irrealtà:  Il libro custode, La bambina dello specchio, Metamorfosi delle stoffe, Metamorfosi degli sguardi, Entrare nello specchio,  Il vestito prezioso. Di fronte a questi stratagemmi, offerti come un invito a un gioco cortese con l’autrice, il lettore prova un piacevole spaesamento, si diverte, ma non corre certo il pericolo di sprofondare in un inquietante paese delle meraviglie. Quella del disorientamento, infatti, è sì una scelta estetica, ma corrisponde, piuttosto, all’adozione di una strategia cognitiva e esistenziale: la percezione di precarietà provata con ironia dal lettore non è che il riflesso di un sofferto disagio  vissuto dai personaggi, sospesi tra mondi: quello dei sogni e dei  bisogni, dei sentimenti e delle necessità, delle aspirazioni e dei doveri. Non ci sono nemici da combattere in questo romanzo: nessun malvagio da punire, nessuna ingiustizia da sanare. Tutto è più banale e più complesso, perché si tratta di scelte difficili da fare, di comportamenti da non giudicare, di ruoli da rovesciare, di persone da comprendere.

Distonie

Non è difficile cogliere le origini di questa inquietudine del vivere precario, che pervade le opere della nostra autrice, se si pensa che, pur essendo italiana da moltissimi anni, non ha mai rinunciato  a considerarsi brasiliana, quindi scrittrice e cittadina “tra” due lingue e culture.

Tale duplice identità in lei arricchente, nelle protagoniste delle sue storie finisce con l’essere vissuta, al contrario, come una duplice non-appartenenza, uno stare nel mezzo che significa non capire e non essere capiti e accolti né da una parte né dall’altra, un essere nessuno, un sentirsi perennemente fuori posto, che lei stessa a una presentazione del suo romanzo Colpo di mare ha chiamato “distonia culturale”[5], utilizzando una pregnante espressione di Bruno Callieri, sulla cui esperienza psichiatrica avremo modo di tornare.

Ma  non c’è bisogno di essere stranieri per sperimentare l’ansia dell’incertezza e dello spaesamento. Gli impazienti, infatti, è il primo romanzo di De Caldas Brito ambientato  solo in Italia e i suoi personaggi sono solo italiani, protagonista compresa, eppure, Ecìla, figlia di due anziani genitori, vive, come è scritto nel testo,  una Infanzia tra, divisa, appunto, tra “realtà e fantasia”[6], tra un padre e una madre che proiettano su di lei le loro frustrazioni e opposte aspettative, che cercano di inculcare nella piccola con i loro riti serali:  l’ascolto delle romanze cantate dalla Callas proposte dal padre e quello delle pagine di Alice attraverso lo specchio lette da sua madre: una diva, la Callas, che con la sua voce e professione ha conquistato il mondo e una bambina, Alice, che con il suo coraggio dal mondo è riuscita a scappare, rovesciandolo. Entrambi i genitori amano Ecìla, ma in modo egoistico e soffocante: in realtà ciò che amano non è una piccola persona in crescita, con un corpo e una mente desiderante,  ma l’oggetto fantasmatico dei loro desideri, la protagonista sognata dei destini che la vita ha loro negato. Entrambi, infatti,  sono stati a loro volta, vittime delle imposizioni delle loro famiglie e proprio per le cicatrici lasciate da queste sofferte rinunce, una volta genitori riverseranno sulla figlia i torti subiti. E così, quando la protagonista, diventata adolescente, dovrà scegliere la sua strada professionale, si troverà  davanti al bivio tra desiderio e necessità, tra l’ascoltare la propria vocazione (che poi è “quello che unisce mente e cuore”[7] e dare retta alle ragioni dell’opportunità esposte dalla madre. In un episodio del romanzo Ecìla perde le chiavi di casa: è la metafora del suo smarrimento. Alla fine in lei, priva del punto di riferimento della figura del padre, di cui in quei giorni  scoprirà le bugie, prevarrà il senso di responsabilità;  si piegherà al volere della madre, intraprendendo gli studi di psicoterapia, ma rafforzerà la amara consapevolezza che  “di rado la strada dell’obbedienza ci porta dove vogliamo andare”[8].

Profondo e rovescio

E così Ecìla diventa psicoterapeuta. E questo permette a Christiana de Caldas Brito, che oltre che scrittrice ha esercitato per quasi trent’anni questa professione, di raccontarne non solo alcuni episodi, che si suppone larvatamente autobiografici, ma anche di  lasciare intendere posture professionali e metodi. Come, ad esempio, la prospettiva del rovescio: le persone, le cose, gli avvenimenti nei suoi scritti non solo possono essere sempre qualcos’altro a seconda dei punti di vista, come abbiamo visto, ma “sono”, senz’altro, sempre qualcos’altro e, non ultimo, il loro opposto, perché “Capiamo in profondità solo ciò che rovesciamo”[9]. Ancora una volta, senza volere cogliere deterministicamente nessi causali tra la sua biografia e le “metafore ossessive”[10]  presenti nei testi, potremmo ipotizzare un legame tra la frequente presenza di situazioni rovesciate nelle sue pagine e la pratica psicanalitica, che si fonda sull’esercizio del dubbio, la decostruzione del senso comune operata attraverso il rovesciamento sistematico delle apparenze, viste come sintomi di qualcosa di nascosto, non conscio.

Ne Gli impazienti l’esercizio del rovescio viene teorizzato esplicitamente, tanto da essere  più che una risorsa tematica una vera e propria modalità di indagine. “Ho capito da mia madre che bisogna conoscere lo specchio che è dentro di noi. La verità non è il reale, ma il  suo rovescio. Nessuno ce la regala: siamo noi che dobbiamo conquistarla. Senza lo specchio non si arriva alla verità. Per capirla bisogna andare dall’altro lato delle persone e delle cose, come faceva Alice”[11]. In questa prospettiva capovolta, in cui la vera conoscenza è affidata allo specchio, quest’ultimo non solo è inteso come metafora del rovescio, ma diventa sinonimo dell’inconscio  “I sogni appartengono allo specchio che abbiamo dentro di noi, ossia all’inconscio”[12]. Il quale, in questa accezione perde, come dire, di profondità, per suggerire l’idea di un ramificato gioco di specchi. Ciò comporta una differente  idea di identità, che, solitamente presentata come  custode di ciò che è più profondamente identico a noi, qui diviene ciò che nasconde quello che ci è più   radicalmente diverso. Se il profondo allude a quello che crediamo di essere, le fantomatiche radici, l’idea di rovescio, che prevale in questo romanzo, ci ricorda il diverso che non sappiamo di ospitare in noi: “Le persone cattive o meschine dei vostri sogni siete voi. Anche l’animale feroce con cui lottate nel letto vi sta a dire che c’è una parte vostra con la quale siete in conflitto” [13].

Gli individui sono infatti “stoffe”: come ogni tessuto hanno un dritto e un rovescio, il loro dentro è il loro dietro. Rovesciati, mostrano un intreccio di contraddizioni e contrasti, appaiono i mille fili del rovescio del loro tessuto sociale. Chi intraprende la via del profondo generalmente cerca conferme, chi pratica l’indagine del rovescio rischia di doversi cimentare con smentite destabilizzanti.

La stoffa dei personaggi

Di che stoffa sono i personaggi del romanzo? Come nel precedente Colpo di mare (vedi oltre), siamo di fronte alla normale anormalità di una famiglia piccolo borghese, le cui problematiche affettive sono viste e vissute dalla prospettiva della figlia, divisa tra   una madre  chiusa, distaccata, che “non sapeva consolare”[14] e un padre gentile, sensibile ma bugiardo e inaffidabile. Nel corso della storia scopriremo il rovescio di queste figure e incontreremo Raul, “impaziente paziente” di Ecìla diventata psicoterapeuta, il quale  farà emergere una parte sconosciuta della protagonista  e la costringerà a prendere consapevolezza di sé e a ripensare le scelte della sua vita.

Elementi in comune a tutte queste figure, alla partenza vittime del loro destino, è la tenace, faticosa ricerca di sé, che darà loro il coraggio di mettere in discussione i ruoli sociali loro assegnati e di tentare nuove vie, in cui potere liberamente dare corpo alle proprie vocazioni e inclinazioni. Tutto il romanzo contiene una aspirazione al mutamento, una speranza di “metamorfosi”. Ancora un invito a cercare “il rovescio”, a non disperare di poter ribaltare ciò che rende infelici le persone.

Certo, questa strada ciascuno la percorre a modo suo: gli uomini, come il padre di Ecìla e Raul, praticando una ribellione più appariscente o con la fuga, la sperimentazione un po’ avventurosa di nuove esperienze, ma, poi, anche attraverso il ravvedimento e la presa di responsabilità.

Il cambiamento delle donne avviene con modalità più discrete: non lasciano la casa, dove attendono, accolgono, riparano vestiti e traumi, rammendano strappi e relazioni. Curano. Ma la loro paziente saggezza non è passiva: al momento giusto sanno dissentire e rivoltarsi: “Possiamo scoprire chi siamo e cosa vogliamo dalla vita solo dopo aver disobbedito. La disobbedienza porta solitudine, ma apre la strada alla conoscenza di sé. Chi non ha mai disobbedito, in realtà non ha mai obbedito”[15]. Ne Gli impazienti sono proprio le donne le protagoniste. E mentre la vita del padre e, soprattutto, di Raul  scorrono fuori dalle pagine del romanzo, queste sono tutte occupate da quella di Ecìla e di sua madre che, come in una pièce teatrale, occupano la scena in due stanze parallele: lo studio della figlia psicoterapeuta e il laboratorio della madre sarta, il luogo della “metamorfosi degli sguardi” e quello della “metamorfosi delle stoffe”, perché “una sarta e una psicoterapeuta fanno un lavoro simile: ambedue aiutano a confezionare una veste nuova. Grazie a loro tante persone riescono a rinnovarsi e ad adattarsi alle nuove esigenze”[16].

Curare o prendersi cura?

In questa fiduciosa prospettiva di miglioramento, in cui ogni presa di coscienza non è finalizzata tanto al recupero della normalità, ma al raggiungimento di un ribaltamento e miglioramento del nostro vivere, anche l’idea di inconscio assume altre sfaccettature. Non si tratta di un mondo animato da pericolose pulsioni da cui difendersi, ma di un campo di energie, in cui si alimentano le nostre personali predisposizioni da ascoltare e indirizzare. In ciascuno di noi, quindi, c’è un rovescio positivo, che non va criminalizzato e colonizzato,  ma scoperto e liberato, perché custodisce da una parte le nostre  più autentiche potenzialità, e, dall’altra, “la forza del desiderare”[17] necessaria ad ogni forma di avanzamento.

È questo inconscio desiderante che si suppone incontri Ecìla nell’attraversare da sola il suo specchio alla ricerca dell’altro lato del suo io. Nel romanzo l’episodio non viene descritto nei dettagli, perché non si tratta di riferire un incontro con “qualcosa”, ma piuttosto di esperire un attimo senza tempo di ebbrezza emotiva, un contatto “estatico” di autenticità, che ricorda la pienezza gioiosa della “mente estatica” rivendicata nell’approccio psicanalitico da Elvio Fachinelli[18] nei battaglieri anni ottanta.

Quanto è stato evidenziato a favore di una pratica psicanalitica, che non si limita a vedere l’inconscio come una minaccia da stigmatizzare e il paziente come un diverso da anestetizzare socialmente, trova una conferma nell’approccio alla professione di psicoterapeuta di Ecìla, la quale non si accontenta di fugare le ossessioni e le angosce dei suoi pazienti,  ma lavora al miglioramento del loro benessere mentale, cercando di generare in quei volti il sorriso attraverso la  “metamorfosi dei loro sguardi”[19]. Molte sono le sue paure di inadeguatezza per raggiungere questo non facile scopo: la protagonista in certe occasioni  ha un complesso di inferiorità verso i suoi clienti, per esempio quando invidia la complessità dei loro sogni, contrapposti alla monotona banalità delle suoi, perennemente abitati dalla presenza castrante delle forbici del laboratorio della madre. Per questo spesso pare non prendersi sul serio e mettere in discussione la sua autorevolezza, dimenticando il suo ruolo istituzionale, come quando si addormenta sul lettino dei suoi assistiti. Ma è soprattutto un paziente, Raul a mettere in dubbio il suo ruolo, addirittura capovolgendolo nel corso di una drammatica seduta, in cui  viene desacralizzato il suo àmbito professionale e, come conseguenza non ovvia ma prevedibile, vengono scardinate le sue difese emotive.

Ma in fondo proprio questi limiti permettono alla nostra protagonista un rapporto fruttuoso e autentico con i suoi pazienti, non basato sulla subalternità e la medicalizzazione ma sulla relazionalità e l’empatia. Ecìla sa mettersi in ascolto, partecipare emotivamente alla vita dei suoi assistiti. Non si  limita a curare, ma si impegna a prendersi cura di loro, con tutti i possibili pericoli che questo comporta e che nel suo caso comporterà:  “Il prendersi responsabilmente cura dell’altro (non il semplice prestargli le proprie cure) presuppone l’impossibilità di facili reciproche identificazioni; ciò ovviamente ci getta in un’atmosfera di incertezza. L’altro mi pone in questione, crea in me un’inquietudine. La responsabilità di fronte all’ altro sta proprio in questa inquietudine, in una certa frattura che l’altro procura al mio essere-soggetto”[20].

Due testi allo specchio

È facile cogliere nell’atteggiamento della protagonista di questo romanzo verso i suoi pazienti quello di Caldas Brito nei confronti dei suoi personaggi, nei cui panni ama mettersi, immedesimandosi nei loro dispiaceri fino ad assumerne il linguaggio e le incongruenze. Da questo punto di vista Gli impazienti si colloca in piena continuità con i tutti i suoi scritti. Ma c’è qualcosa di più. Se confrontato col suo romanzo precedente, Colpo di mare, pur nella vistosa diversità delle storie narrate, appaiono notevoli analogie. In entrambi i testi ci troviamo dentro le dinamiche di un romanzo familiare, vissute con ruoli somiglianti: due madri dure e forti, ma nel contempo sofferenti e fragili; due padri idealizzati, seducenti e inaffidabili, che sfuggono di fronte alle loro responsabilità; due figlie bambine e adulte in formazione, alle prese con il loro “altro lato”, da affrontare, da sole, con una prova finale, un attraversamento. Per conoscersi e raggiungere il proprio equilibrio interiore, infatti, le due donne devono superare una soglia: il mare, nel primo caso, lo specchio ne Gli impazienti. Entrambe lo fanno dopo l’incontro–scontro con un uomo, presenza determinante, ma che, nei due romanzi resta sullo sfondo. Certo, in Colpo di mare la protagonista è divisa tra due mondi, quello del Brasile (e del passato) e quello dell’Italia (e del presente), mentre qui, ne Gli impazienti, lo specchio non nasconde meravigliosi paesaggi tropicali, ma, casomai, le immagini cartacee di un fiabesco paese delle meraviglie. Tuttavia la frontiera, seppur diversa, dei due romanzi segna in entrambi il confine tra due destini, tra i quali le  protagoniste devono scegliere: quello voluto dal caso o dai familiari e quello da scoprire con una decisione personale. Nei due romanzi, il primo è imposto dai genitori, ma porta all’infelicità, come mostra la vita del padre e della madre di Ecìla e come, in Colpo di mare, ricorda amaramente la domestica Bosena: “Ho imparato che non si può forgiare il destino degli altri, nemmeno quello dei propri figli”[21]. Sia Ecìla che Flora, questo il nome della protagonista di Colpo di mare, scelgono invece un percorso esistenziale alternativo, quello che sta dall’altro lato di sé. Sicuramente è il cammino più incerto e difficile, ma è quello che è sentito come giusto, perché predisposto per realizzare i propri sogni e ciò per cui esse sono al mondo. In questo modo tutte e due dimostreranno, altro importante tema condiviso nei due testi, che il passato si può cambiare. “Alla fine del mio travaglio capii che si può fare un passo indietro nella propria strada. Allora si può cambiare il passato? Rispondo di sì. O almeno possiamo cambiare il nostro modo di vederlo”[22]. Questo pensa  e mette in pratica Ecìla, sulle tracce di Flora, che, alla fine del suo percorso nel suo doppio “più che alla sua destinazione […] era arrivata al suo destino”[23] .

Ma, oltre  a questi grandi temi, ci sono anche motivi, gesti, oggetti ricorrenti nei testi di Christiana de Caldas Brito, che un buon ricercatore potrebbe approfondire. Prendiamo, ad esempio, il lavoro di sarta della madre di Ecìla. Nel libro la pratica del cucire, del rammendare, del vestire è associata alla cura psicanalitica: “La mia vita si era scucita. Per riparare i danni, ci voleva una psicologa o forse una sarta. In fondo tutte e due avevano un ruolo simile: preparare una veste nuova”[24]. Significativamente anche in Colpo di mare il lavoro del sarto viene citato metaforicamente, ma stavolta per accostarlo a quello del biografo. Infatti Elisa (Elisa, Ecìla: un calco sonoro?) la narratrice della storia afferma: “I biografi, come i sarti, dovevano preparare un abito su misura per un personaggio, ma immaginavo che gli uni e gli altri a un certo punto si sentissero persi: i sarti con pezzi di tessuto in mano, che non sapevano come utilizzare; i biografi con frammenti di vita con i quali cucire una storia senza sapere da dove iniziare”[25].

L’arte del rammendo

In fondo sarti, psicologi e biografi aggiustano, trasformano, riparano, rovesciano cuciono margini, rapporti umani, ferite, difetti, fanno indossare tessuti, vestiti, idee, ruoli sociali. Rammendano, altra parola cara alla nostra autrice fin dai tempi del giustamente famoso Ana de Jesus, la cui protagonista che dà il titolo al racconto dice: “ se nonna estava in Italia, con certezza mi insegneria a rammendarmi”[26]. Quello del riusare, del modificare, del trafficare ingegnandosi è pratica che riguarda non solo i personaggi delle storie di Christiana de Caldas Brito, ma anche il suo modo di scrivere. La sua lingua, infatti, è intenzionalmente “riaggiustata”, a volte meticciata, costruita con sapienza per non sembrare troppo bella, direi troppo “italiana”. Ecco, allora, la rinuncia a metafore preziose, a periodi complessi, a termini eleganti, e la ricerca, invece, di un linguaggio leggermente spiazzante, a volte sperimentale, fatto di rapide frasi,  assonanze inedite, vocaboli “smusicati”[27]. Un understatement linguistico, dove la semplicità è in realtà frutto di un signorile distacco, di un leale attaccamento ai giri di frase, alle tonalità e, in fondo, all’immaginario della propria lingua madre. Questa fedeltà, non solo linguistica, la si vede anche in questo romanzo, dove, a differenza degli altri, la propria terra non viene messa in scena e non ci sono esplicite contrapposizioni tra mondi e culture. Tuttavia l’autrice, attraverso impercettibili tracce, lascia qua e là intendere la propria distanza dalla  presunta superiorità dell’Occidente e il rifiuto di ogni forma di omologazione o colonizzazione culturale. Come, per esempio, quando Ecìla dichiara la sua avversione alle “stupide” crociere, dove si passa il tempo “a mangiare a tutte le ore insieme ai grassoni dei paesi sviluppati”[28]. È come se, in questo romanzo, il vissuto brasiliano di Christiana de Caldas Brito, seppure assente, premesse per essere portato alla luce, come un rovescio o un inconscio in attesa di essere liberato: “Più guardavo e più capivo che lo specchio era l’inconscio. Ognuno ha il suo, come diceva mia madre.  Lo portiamo in noi. Solo quando visitiamo il nostro inconscio possiamo dire che ci conosciamo. Mi mancava un evento forte che favorisse la mia indipendenza, come se io fossi una giovane nazione e quell’evento forte fosse il mio libertador”[29].

Lo abbiamo detto all’inizio: il romanzo di Christiana de Caldas Brito parte da un grido. Ora sappiamo che il suo è come quello di una giovane donna, una “giovane nazione” alla ricerca di se stessa e che quel grido inespresso, che, impaziente, attendeva di farsi sentire, ha trovato in questa storia il suo “libertador”.

[1] Autopsicografia, da Una sola moltitudine, Milano, Adelphi, 1979
[2] VARCARE CONFINI 8.  CHRISTIANA DE CALDAS BRITO • LetterateMagazine. Scritture Politiche Culture
[3] Gli impazienti, Isernia, Cosmo Iannone, pag. 53
[4] Id. p. 75
[5] Incontro tenutosi alla Biblioteca Affori di Milano il 27 settembre del 2018
[6] Gli impazienti, op. cit. pag. 17
[7] Id. pag. 27
[8] Id. pag. 46
[9] Id. pag. 20
[10] C. Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale, Milano, il Saggiatore, 1966
[11] Gli impazienti, op. cit. pag. 20
[12] Id. pag. 55
[13] Id. pag. 55
[14] Id. pag. 14
[15] Id. pag. 30
[16] Id. pag. 49
[17] Id. pag. 85
[18] E.Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989
[19] Gli impazienti, op. cit, pag. 53
[20] B. Callieri, “Curare” o “prendersi cura di”. Il dilemma psichiatrico della responsabilità esistenziale, in  “Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia” n.8, novembre 1993, p. 125
[21] Colpo di mare, Roma, Effigi, 2018, pag. 65
[22] Gli impazienti, op. cit, pag. 47
[23] Colpo di mare, op. cit. pag. 69
[24] Gli impazienti, op. cit, pag. 35
[25] Colpo di mare, op. cit. pag. 12
[26][26] Ana de Jesus in AAVV, Le voci dell’arcobaleno, Santarcangelo di Romagna, Fara Editore, pp. 59-61
[27]  Gli impazienti, op. cit. pag. 85
[28] Id. pag. 61
[29] Id. pag. 75

L'autore

Remo Cacciatori

Remo Cacciatori, attualmente insegnante in pensione, è stato docente di scuola media superiore e animatore di numerosi progetti nell’ambito della formazione e dell’editoria scolastica, per la quale ha pubblicato antologie e curatele. Professore a contratto dal 2007 al 2016 presso Università degli Studi di Milano, si occupa di problemi di teoria del romanzo e di narrativa del Novecento.

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