Alketa Vako
Briciole
Besa, novembre 2016
I fiocchi di neve sono briciole che poi si solidificano a formare ghiaccio; la segatura, briciole di legna, va a formare i pallet che ci scaldano; anche le briciole di pane, se raccolte, possono, con un addensante adatto, costituire un qualcosa di solido e non disperdibile.
Briciole, composizioni di brevi racconti, riescono a costituire un solido tessuto letterario ove poesia e narrazione riescono a coesistere ad attorcigliarsi, a dipanarsi in sorgente di sensi vivi e intensi.
In quasi tutti i racconti è presente un elemento comune, che, forse, ha alimentato, per molti anni negli albanesi, un immaginario collettivo negativo: Il mare, l’acqua. Questo fluido, come forse avviene in quasi tutte le culture, può assumere il duplice aspetto di morte o di risurrezione. Nella maggior parte dei racconti di questa raccolta l’acqua è specialmente un simbolo di incertezza, di profonda angoscia e molto spesso di morte. Il percorso fatto sulla terra da chi ci cammina costantemente, lascia tracce anche per secoli. È così che è avvenuto nei boschi più intricati, in cui le orme di chi andava a piedi hanno formato le diverse strade religiose. La scia bianca che lascia una imbarcazione, dieci imbarcazioni, mille imbarcazioni nel mare, ma in genere in ogni distesa di acqua, non permane. È come se non ci fosse passato nessuno. Un percorso di terraferma unisce, collega cultura, tradizioni, vita, perché ogni passo lascia dietro qualcosa, ma acquista qualcos’altro fino a perdere la dimensione di cosa si è lasciato e cosa si è acquistato essendo divenuto tutt’uno. Le città aperte e poste ai confini hanno proprio questa caratteristica. Si pensi a Trieste. Il mare, una distesa d’acqua porta ad una separazione irreparabile che si configura nelle mente come qualcosa di totalmente nuovo. Ciò che si lascia indietro rimane solo nella memoria e il nuovo si configura come rinascita. “La lontananza è ghiaccia come la prima neve quando meno te lo aspetti”.
È significativo uno dei primi racconti, si riporta il tentativo di suicidio nell’acqua di un lago. Poi uno degli ultimi racconti fa intuire un altro suicidio nell’acqua del fiume. E poi in diversi racconti emerge la negatività dell’acqua del mare, che, a volte se non spesso, inghiotte chi si avventura per un viaggio alla ricerca della sopravvivenza o della rinascita di una propria vita. Il mare non risparmia nessuno, neppure chi è già stato dileggiato, denigrato dagli uomini. Ci si sarebbe aspettato che là dove l’uomo non è capace di umanità, sia la natura stessa a salvare e proteggere. Ed invece no. È del tutto assente la prospettiva dell’acqua che salva, fa risorgere.
Le altre narrazioni sembrano assumere una varietà difficile da incasellare e tuttavia, mi sembra che la fisicità, la corporeità sia un altro aspetto determinante, come in Fratello Sole, Sorella Luna, oppure in Mani, pelle.
Infine, vi è una attenzione significativa al fatto linguistico, cioè alla conquista di una nuova lingua, all’essere da lei abitata.
Tahar Lamri ebbe a scrivere e affermare che il padroneggiamento della lingua del paese ospitante, la volontà di impossessarsene, denunciava una volontà di acquisizione di libertà, perché la lingua del paese da cui ci si è allontanati, se non fuggiti, era quella che imprigionava. Concetto simile esprime Alketa Vako, quando ripercorre il rifiuto di assoggettarsi alla declinazione della propria lingua. Occorre impossessarsi di un’altra declinazione che dia l’incipit a nuove espressioni di narrazioni e di libertà.
Aspettiamo da questa scrittrice nuove esperienze narrative, perché quando vuole sa essere raffinata anche sul piano linguistico con ricerca di termini anche inusuali. Ma specialmente sa associare narrazione e poesia.
raffaele taddeo
giugno 2021