Narrativa transnazionale

Il caffè parla africano

Scritto da Verusca Costenaro

Il caffè è una tregua. Una pausa che ci concediamo, da soli, o in compagnia, nel turbinio delle incombenze quotidiane. Canta Mahmud Darwish in una sua poesia: “Voglio l’odore del caffè. Voglio cinque minuti. Voglio cinque minuti di tregua per il caffè.”

La mia tregua è iniziata a 24 anni. Prima, c’era solo un odore fastidioso in cucina quando la moka emetteva il suo borbottio, che il mio stomaco adolescente mal sopportava. A 24 anni è arrivato il primo lavoro, il pranzo in mensa con i colleghi, e il rito del caffè dopo pranzo. Accompagnavo i colleghi al bar accanto, e restavo senza bere nulla. Impossibile continuare a osservare a lungo: un giorno ho ceduto al caffè. E ho scoperto che mi piaceva. Parecchio. Oggi, 20 anni e molti caffè dopo, appena sveglia ho bisogno di berne almeno una moka da tre, allungandone prima una parte con l’acqua (abitudine presa negli Stati Uniti), e gustandomi poi il resto nero nero incontaminato, come incontaminato è il momento del mattino in cui lo prendo.

Ma il caffè, dove nasce? Questa usanza così strettamente associata all’Italia, nell’immaginario, ha origini “altre”. “Ogni volta che beviamo un caffè consumiamo un raccolto africano”, racconta la giornalista indo-americana Simran in Bread, Wine, Chocolate, la lenta scomparsa dei cibi che amiamo (Terramadre 2017), nel lungo viaggio che la porta in giro per il mondo, tra cui le foreste di caffè selvatico in Etiopia, alla scoperta dei sapori che rischiano di sparire per via della globalizzazione. “L’Etiopia, insieme con le foreste del Sudan meridionale, è il luogo d’origine e il centro della diversità della maggior parte del caffè che beviamo”ì”, spiega la giornalista. Il caffè dunque è nero, in tanti sensi: è africano.

Nel suo racconto, Simran inserisce una leggenda affascinante, che ritrovo anche in Dalla parte del caffè. Storia, ricette ed emozioni della bevanda più famosa al mondo, Pendragon 2012, dove Manuel Terzi, uno dei massimi esperti italiani di caffè, narra che attorno all’850 d.c. un pastore etiope, Kaldi, notò che il suo gregge di capre si era fatto più irrequieto dopo aver mangiato delle bacche rosse. Le portò al monastero, dal suo capo religioso, che, temendo fosse opera del diavolo, le gettò nel fuoco. Ma l’aroma inebriante che ne uscì richiamò i monaci, i quali recuperarono le bacche, ne sbriciolarono i chicchi, e li unirono a dell’acqua, dando vita al primo caffè. La Storia invece documenta che verso il 525 gli etiopi invasero l’Arabia meridionale. Furono sovrani dello Yemen per una cinquantina d’anni, in cui coltivarono il caffè. Nel 1536 lo Yemen fu preda dei turchi, che si appropriarono anche della cultura del caffè. Dallo Yemen il caffè si mise in viaggio, sotto la spinta dei movimenti di singoli, e delle vicissitudini della Storia. Uno dei principali centri di diffusione del caffè fu Il Cairo, da dove venne esportato ovunque, tra cui l’lndia, l’Indonesia, il Brasile . Fenomeno agevolato non solo dall’espansione dell’Impero Ottomano, che forniva caffè in grandi quantità, ma dalla diffusione della stessa religione islamica, che, proibendo di bere vino, lasciava spazio al caffè.  Nel XVII secolo la “bevanda del diavolo” giunse anche in Europa, sebbene fosse presente nella Repubblica di Venezia già un secolo prima, come medicamento in semi.

Il caffè a zonzo per il mondo, dunque, nomade, senza barriere. Quante lingue parlava, il caffè – e ancora parla. E com’è legato alla cultura musulmana, spiega Sirman: “Le questioni che non potevano essere affrontate nelle moschee venivano discusse in luoghi pubblici – con un caffè. Mentre gli europei iniziavano la loro giornata con la birra, gli etiopi e i cittadini del mondo arabo animavano la loro esistenza con la caffeina”. Una “iniezione di caffeina”, aggiunge Metasebia Yoseph, etnografa etiope-americana, che è un vero e proprio “punto fermo culturale”.  

Ci siamo adeguati, oggigiorno, alle abitudini di etiopi e turchi. A loro dobbiamo i nostri risvegli al sapore di caffè. Grazie etiopi, grazie turchi, mi esce dal cuore mentre sorseggio il mio caffè.

Verusca Costenaro

Un ringraziamento particolare alla Libreria Tatatà di Firenze che mi ha concesso i suoi spazi per scrivere questo pezzo, e la consultazione dei libri qui citati.

L'autore

Verusca Costenaro

Verusca Costenaro, veneta di origine, laurea in Lingue e Letterature Straniere (Università Ca’ Foscari Venezia) dottorato in Linguistica Inglese e Master in Studi Interculturali, (Università degli Studi di Padova), vive e lavora a Firenze. Ha pubblicato La misura che non si colma (LunaNera, 2013), la plaquette Senza il sogno e con la pazienza (Le Murate, 2017) e Sofia ha gli occhi (Interno Poesia, 2018). Sue poesie hanno ottenuto menzione speciale al Festival DialogArti, al Premio Letterario San Domenichino, al Premio Internazionale di Poesia Leopold Sedar Senghor e al Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano. Come traduttrice ha curato la raccolta Canto Mediterraneo di Nathalie Handal (Ronzani, 2018). Instancabile promotrice culturale, organizza eventi di poesia in una residenza per anziani alla periferia di Firenze, e scrive sul suo blog-rivista www.biocaffeina.it

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