Questo testo è l’incipit di un romanzo polifonico, corale che Artur Spanjolli ha scritto ultimamente. L’argomento si incentra sull’eruzione del Vesuvio del 79 d.c.
Si trattò di un cataclisma di immani proporzioni che distrusse Pompei, una delle città più splendide della Roma imperiale del I secolo. Non fu risparmiato quasi nessuno a qualunque ceto sociale appartenesse.
Quando Artur mi ha proposto di pubblicare questo inizio di romanzo non ho potuto fare a meno di fare un parallelismo con la pandemia che stiamo vivendo ai nostri giorni. Ci sono le enormi differenze di tempi, di spazi, ma l’analogia sorge quando ci si pone davanti al fatto che l’eruzione del Vesuvio si abbattè su ricchi e poveri, su uomini e donne, che non ebbero neppure il tempo di accorgersi di quello che stava avvenendo. La pandemia, specialmente all’inizio, si è abbattuta su ricchi e poveri, su uomini e donne, su anziani e meno anziani. Lo stato d’angoscia, durato pochissimo tempo, tanto quanto bastò per morire, generato dall’eruzione del Vesuvio, può essere stato simile a quello durato molto di più nel tempo, fortunatamente diluitosi, al momento dello scoppio della pandemia provocata dal covid-19 che ha dato origine ai lockdown generalizzati in quasi tutte le nazioni della terra.
ROMANZO
“Conosci te stesso, non eccedere!”
Oracolo di Delfi
Tre mesi dopo la catastrofe
Spesso, l’imperatore, si destava prima degli altri, girava nei dintorni di quel regno di cenere e lava solidificata, battuto dal vento invernale e rifletteva sulla fragilità della vita. Erano bastate poche ore, e la natura aveva cancellato una delle città più floride e famose dell’impero. Udendo il gracchiare dei corvi, riparandosi dalle gelide raffiche che innalzavano la polvere, era inevitabile che non alzasse lo sguardo verso il monte a cono da dove era sgorgato il liquido assassino e si faceva la solita assillante domanda: “Di quale grave colpa si erano macchiati i pompeiani per cui gli dèi avevano deciso di punirli in modo così esemplare? Quale era stata questa tremenda colpa: decadenza, corruzione, perversione, malvagità, oppure semplicemente era stato il termine di un percorso? A memoria d’uomo, si era cancellata perfino l’idea che il monte potesse essere omicida. Poi, Tito, scortato dai pretoriani, con una sensazione di impotenza e di sconfitta, tornava nella sua tenda a fare colazione e rifletteva sulla sua assillante interrogativa.
Per lungo tempo, non era riuscito a togliere dalla mente lo stupore dei sopravvissuti per il prodigio della riapparizione dell’imperatore e della prima forte immagine che aveva avuto della grigia distesa desolante del nuovo paesaggio; di tutta quella coltre di cenere lavica indurita, che aveva inondato le città. Era strano ma non riconosceva più il paesaggio. Tutto era diverso ormai, e gli sembrava di trovarsi in un irriconoscibile deserto del nord senza sole. Adesso si sentiva più amato, dopo il miracolo dell’archetipo consolatorio che a fine storia si comprenderà. Invece di Pompei non era rimasto nulla. Solo, qua e là, le teste di certe torri, colonnati, e le più alte punte di Templi, che l’onda assassina non aveva falciato. Ovunque gettava lo sguardo: lì dove prima c’era stata una piazza, adesso si vedeva solo uno spaventoso ammasso lavico indurito. Lì, dove prima era situata una via, attualmente regnava la cenere condensata; più in là, dove una volta sorgevano le mura, ora imperava la coltre della morte, il silenzio che aveva steso il sipario della fine. Un funesto tappetto fino a 15 metri di spessore, grigio freddo e desolante. Ormai la morte si avvertiva ovunque. Una morte sterminata, regnante, invariata, omogenea, monotona, che faceva venire un gelido brivido, e metteva in fuga la gioia dalla dimora dell’anima. Una morte priva di antenati, di un colore grigio cenere, triste sinfonia senza alcuna consolazione, né speranze. Una morte irriconciliabile, con la quale non si potevano fare né patti, né compromessi. L’indefinita morte, mai cantata dai poeti sulla terra romana.
Da tre mesi ormai si trovava lì, e la cosa che lo turbava, ma anche lo meravigliava di più, era stata l’apparizione del Consolatore. L’incredibile storia che l’aveva casualmente coinvolto. Era andato d’urgenza al sud, appena informato sulla catastrofe del vulcano, con un enorme seguito di pretoriani, medici e militari esperti, carico di cibo e medicine, in aiuto ai sopravvissuti. Ma solo là, aveva compreso la terribile dimensione di quella tragedia umana. Il monte Somma, vomitando fuoco e lava, aveva inghiottito crudelmente anche le stupende ville dei senatori, dei patrizi e degli uomini più influenti dell’impero. Essendo la terra della Campania, una delle più floride della penisola, i nobili di Roma, avevano costruito lì, lungo la costa, ville faraoniche, con giardini, colonnati, pergolati, sculture, fontane e peristili meravigliosi. Quindi, questa era stata un’altra ragione che il senato aveva spinto di persona Tito a partire precipitosamente. Quei pochi umani sopravvissuti, popolazione traumatizzata, smarrita, ustionata, che uscivano come zombi dal buio polveroso, sporchi, pieni di stracci e cenere, feriti e con sguardi sconvolti, si colpivano con i pugni, gridando i nomi dei cari sepolti vivi. Un intero esercito di sconfitti, che, vagando nella morte, chiedevano delle risposte. Parevano così, come abitanti d’Ade, perduti, senza pace, totalmente distrutti nell’anima.
L’imperatore avrebbe fatto di tutto per sistemarli nei luoghi lontani dalla tragedia, costruendo case e abitacoli con il danaro imperiale. Aveva già un progetto misericordioso per collocarli in case decenti che i militari stavano già edificando. Con l’inverno alle porte, dopo aver parlato con i consiglieri, aveva deciso di non ricostruire più né Pompei, né Ercolano, né Oplontis e né altre aree sommerse, ma si stava concentrando sugli scavi, per portare alla luce l’oro delle casseforti del Foro, i gioielli e le statue pregiate che poteva recuperare.
Quindi, questa era la ragione per cui, anche molti mesi dopo il disastro, ancora schiavi, operai e soldati scavavano senza tregua in diversi punti cardini della città affondata, specialmente nelle ville dei benestanti, dove erano sicuri di trovare il tesoro dei pompeiani. L’imperatore Tito, aveva firmato di pugno suo il permesso di scavare, in modo che i tesori non venissero trafugati in futuro.
Era gennaio, ed i picconi colpivano con persistenza il terreno solidificato. Tutto il giorno si udiva il rumore sordo, continuo, di migliaia di picconi che aprivano il terreno e palette che portavano via i cumuli di cenere lavica. Pareva come il picchiettio lugubre, fragoroso dei becchini, che aprivano buche, sull’aspro terreno, per seppellire di nuovo i morti laggiù. A migliaia. Congelati in un istante eterno, in un tragico momento, come se fossero entrati nei labirinti dell’eternità, ove ogni cosa si congela per sempre. Spesso, l’imperatore Tito, usciva dalla sua tenda, e con uno sguardo, dall’altezza in cui si trovava, seguiva la moria degli schiavi, operai, soldati che lavoravano senza tregua. Tutta questa storia era così assurda, strana, incredibile. La montagna assassina svegliata così casualmente, la città seppellita senza clemenza, l’armata dei becchini imperiali instancabili, come gli schiavi delle piramidi.
“Dicono!” spiegavano i suoi collaboratori, “che Pompei è stato anche molto sfortunata, perché quella mattina, quando la colonna titanica è crollata, il vento soffiava disgraziatamente verso la città!” Ma nulla ormai giustificava gli scempi del caso, quel funesto destino senza misericordia, che aveva permesso l’impossibile, l’inenarrabile, l’indescrivibile, l’inaudibile, l’irrimediabile.
Agli inizi di febbraio avevano individuato diverse ville. I superstiti stavano agonizzando dalla curiosità, sperando di ritrovare le spoglie di qualche familiare. Ormai erano nella zona del Foro, da dove avevano estratto una grossa quantità di sculture, colonne e lastre di marmo. La macchina di lavoro, che dirigeva l’imperatore, era come una macchina perfetta militare. Molti soldati sorvegliavano di notte la zona per timore di trafugamenti. E spesso, i sopravvissuti, suggestionati dal rumore infernale dei picconi, non reggevano più e correvano allarmati urlando dal terrore. Succedeva, sempre di più. Così tornavano le terribili scene di quel 25 ottobre, quando la morte, con nere onde di gas corrosivi, cenere bollente e macigni, aveva cancellato in poche ore, una intera città.
Successe anche a Tito Suedis Clemens. Riaffiorava spesso nella sua memoria il boato iniziale del condotto appena aperto. Poi la pioggia dei pomici, la polvere bruciante del vulcano, le urla dei fuggiaschi, la tosse per via dei gas corrosi, la gente che piangeva e si disperava sotto i colonnati, tremanti, con il terrore nel volto. Poi la morte, regnante, dominatrice, era arrivata in ogni dove. La morte grigia, silenziosa e imperante. Una morte uniforme, imponente, senza speranza di rinascita. Non erano fantasie, ma capricci della memoria, le quali con virulenza e aggressività diffondevano il panico nel corpo e facevano tremare dal cupo ricordo. Plinio, il Giovane che aveva 17 anni, anche se aveva osservato tutto da lontano, aveva paura ad addormentarsi. Suo zio, Plinio il Vecchio, il quale era morto sulla spiaggia di Stabia, per colpa della sua stessa fatale curiosità da naturalista, tornava spesso come fantasma nei sogni e chiedeva aiuto. Teneva le mani in avanti, mentre i gas letali lo spegnevano a poco a poco. “I papiri!”, mormorava con gli occhi malati, “salvami i rotoli!”
Un famoso banchiere, il quale per puro caso si era salvato con il figlio ed un cane, entrò in uno stato di depressione così profonda, che non voleva più vivere. Non mangiava, né beveva, né parlava, ma stava seduto per ore su un promontorio e piangeva guardando le furiose onde invernali. Gaio Pansa, un facoltoso commerciante, il quale per fortuna quel giorno era a Roma per comprare merce, e che aveva perso tre figli e la moglie, per interi anni, sotto shock non parlò più con nessuno. Questa alienazione lo accompagnò per tanti anni, ed anche quando cominciò a dire qualcosa rispondeva: “Pompei? Non so di che parlate signore! Non è mai esistito nessuna città con questo nome!” Altri, come Giulia Felice o Pompinea, non parlarono mai più di ciò che successe, e ce la fecero per davvero a dimenticare. Nella testa di Aulo Saturnino, la devastazione era stata così enorme, che ebbe per il resto dei suoi giorni la voce tremante, insicura, e ad ogni scoppio di tuono o fulmine correva per le strade come un pazzo. Altri ancora si persero nei vapori allucinogeni dell’oppio, che proveniva dal lontano oriente, terra dei maghi. Non si fece mai un censimento ufficiale dei sopravvissuti. La città non si ricostruì più. Era inutile, perché il vulcano era ancora lì, minaccioso, poteva eruttare ancora. Con il passare degli anni, decenni, secoli, un velo di oblio seppellì anche le città attorno: Ercolano, Stabia, Boscoreale, Terzigno e Oplontis; si cancellarono dalla memoria umana per secoli e secoli, svanendo nel nulla.
Tito, il figlio 40 enne di Vespasiano, dalla sua tenda battuta dai venti del nord, macinava senza tregua il miracolo del 26 ottobre che lo riguardava da vicino. Un nume apparso con le sembianze imperiali? “Allora siamo tutti divini!” pensava portando in mente Nerone che si era fatto una statua colossale con le fattezze di Apollo. Non rise e chiacchierò per molto tempo, si udivano solo le preghiere dei sacerdoti che immolavano animali. Era cambiata la geologia, il paesaggio della natura. Le frane piroclastiche avevano spostato la riva diversi chilometri più giù trasfigurando tutto, ma nulla aveva stupito più della divinità apparsa con le fattezze dell’imperatore. “I morti!” urlavano i reduci. “Vogliamo i nostri morti! Vogliamo dare degna sepoltura secondo le nostre usanze!” e supplicavano le autorità. Ma i morti, erano già seppelliti senza il consenso umano, senza ritti funebri, senza la moneta sotto la lingua per il traghettatore dell’ade, senza canti funebri e pianti di prefiche. I morti, a migliaia, erano stati fusi nel bollore senza più gradi misurabili, avvolti in involucri dominatori, rigide di una testimonianza che avrebbe varcato i secoli. Segno incancellabile della fragilità umana di fronte alla forza della madre terra.
Tito, imperatore da solo sei mesi, un ragazzo distinto dal volto ovale e con i riccioli imperiali, si esprimeva poco, stringeva le labbra ed esclamava: “Vediamo che cosa si può fare!” Era un discendente dalla dinastia Flavia, con molte terre nell’Alta Sabinia. Veniva da una lunga carriera come generale, piena di meriti nelle guerre contro gli indomiti Giudei, prima che suo padre, Vespasiano, morisse. Lo consideravano buono e clemente e poco tempo dopo, Svetonio, l’aveva definito: amor ac deliciae generis humani. Da mesi, ormai, univa i consiglieri, ogni mattina, dopo colazione, e prima di decidere, discuteva a lungo con loro su che cosa fare. Di certo non poteva trattenersi lì a lungo. Ma gli interessavano i tesori di Pompei, e le casse del Foro servivano all’impero di Roma.
Invece laggiù, all’interno delle insule coperte di lava, tonnellate di cenere indurita, nei giardini, peristili, corridori e nelle strade sassose della città, nelle posizioni dalle più assurde, si trovavano i murati vivi: chi correndo, chi bocconi, chi in ginocchio pregando gli dèi, chi proteggendo i più piccoli. In migliaia, spazzati via dalle onde tossiche a 300 gradi, e 100 km orari nell’attimo più sciagurato. Quando l’alta colonna eruttiva, 13 km, aveva perso la sua forza ed era crollata su se stessa diffondendo terrore, morte, panico. Prigionieri dell’eternità, dalla loro mala sorte per via del vomito assassino della montagna, ormai, nulla al mondo, poteva disturbare il loro sonno, laggiù nelle viscere della città sepolta. Ma un giorno, verso metà febbraio, l’imperatore Titus venne chiamato d’urgenza per raggiungere Roma. Un’altra imminente tragedia stava devastando la capitale per uno spaventoso incendio che divorava i quartieri plebei della capitale, simile a quello successo a Nerone. Lasciò tutto nelle mani dei loro generali, assegnò due consoli, curatores restituendae campaniae, a prendere cura degli sopravvissuti, e si avviò velocemente verso la capitale dell’impero. “Che stava succedendo la su!” pensò, “sono forse gli dei adirati con i romani!?”