Recensioni

La Somalia non è un’isola dei Caraibi

Mohamed Aden Sheikh
La Somalia non è un’isola dei Caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia
Diabasis    2010

Michele Pandolfo

La figura di Mohamed Aden Sheikh viene così introdotta dalla parole del curatore del testo, il giornalista e scrittore Pietro Petrucci: «Ho conosciuto Mohamed Aden a Mogadiscio nel 1970, durante un reportage per il quotidiano romano «Paese Sera». Aden era allora ministro somalo della Sanità, ma era soprattutto il capofila di un gruppo di giovani professionisti di sinistra cui la giunta militare presieduta dal generale Mohamed Siad Barre – al potere da qualche mese – aveva fatto appello per mettere in cantiere la modernizzazione a tappe forzate del paese. […] Il medico-intellettuale Mohamed Aden e i suoi compagni-ministri – ingegneri, economisti, giuristi, agronomi – realizzarono all’ombra dei militari progressisti, riforme mai viste in Africa prima di allora. Nel campo della sanità, dell’istruzione, dell’edilizia pubblica, dell’emancipazione femminile.»[1] Con queste poche righe viene descritta la fase più sinceramente impegnata della vita politica di Mohamed Aden Sheikh, medico, più volte ministro e considerato uno degli uomini di punta della rivoluzione socialista di Siad Barre. Mohamed Aden Sheikh nasce nel 1936 nel deserto somalo da una famiglia nomade dedita alla pastorizia che decide di trasferire il figlio a Mogadiscio al fine di farlo studiare. Durante il periodo dell’Amministrazione fiduciaria italiana sulla Somalia (Afis) il giovane ragazzo vince una borsa di studio e parte per l’Italia nel 1955. Aden Sheikh ricorda così quell’esperienza di vita: «Lo so, avrei dovuto essere emozionato di conoscere e scoprire l’Italia e gli italiani. Ma in realtà io pensavo quasi soltanto al diploma e Roma, ai miei occhi di ragazzo, valeva quanto il resto del mondo.»[2] E poi racconta ancora l’atteggiamento di quasi indifferenza dei giovani studenti somali nei confronti della loro ex madrepatria nonché all’epoca potenza amministratrice:«Rimanemmo tutti sostanzialmente estranei all’Italia e agli italiani, anche per via della nostra abitudine, di noi somali, di stare fra di noi, magari litigando, ma chiusi verso il mondo esterno. Il cinema era l’unico svago che ci prendevamo, appena possibile.»[3]
Dopo il ritorno in Somalia, la vita di Mohamed Aden Sheikh si può dividere in due parti: in un primo tempo egli diventa uno degli uomini più importanti e influenti del governo del generale Siad Barre che prese il potere nel 1969. In seguito invece, dopo la guerra del 1977 contro l’Etiopia per la conquista dell’Ogaden, la sua parabola politica comincia una discesa lenta e inevitabile che lo porta a essere imprigionato per motivi politici in uno dei carceri di massima sicurezza somali. Infatti Aden Sheikh dopo l’iniziale entusiasmo per il nuovo regime che sembrava all’apparenza voler seriamente cambiare la politica, la società e l’economia della Somalia, si distaccherà col tempo dalle iniziative e dai metodi repressivi di Siad Barre. Il regime carcerario al quale erano costretti i condannati politici, tra cui lo stesso Aden Sheikh, era terribile: «Pensavo che se l’inferno esiste deve essere così: tu da solo, in compagnia di un muro rosa chiaro, ma senza altri uomini, né libri da leggere, né musica da ascoltare, senza il diritto di cantare o di gridare. […] E il mio regime di isolamento a Labatan Girow durò dal primo all’ultimo giorno dei quasi sei anni che vi ho trascorso.»[4] E ancora egli continua nella sua accurata descrizione: «Il nostro regime carcerario mirava all’annullamento, per sclerosi progressiva, della volontà. Al detenuto veniva negato tutto ciò che può definirsi come la gestione della propria esistenza. Avevo già fatto un’esperienza non breve di carcere, nel 1975, ma allora avevo avuto guardiani con cui discutere, compagni di prigione con cui parlare, insomma delle cose da fare, degli spazi da difendere. A Labatan Girow non c’era niente di tutto questo.»[5] Mohamed Aden Sheikh viene scarcerato nel 1988 dopo diverse campagne di sensibilizzazione internazionale con le quali si era chiesta la sua liberazione. Nel 1989 ottiene il permesso di partire alla volta dell’Italia per motivi di salute. Lo sguardo di attenzione verso l’ex madrepatria cambia direzione quando Aden Sheikh capisce che non potrà più tornare nella sua terra, la Somalia. Le sue parole testimoniano il cambiamento: «I primi tempi in Italia li dedicai ai miei figli, alla mia salute e alla speranza che la Somalia, sprofondata nel vortice della guerra civile all’indomani della mia partenza, ritrovasse la pace e un certo grado di normalità. Era quello che aspettavo, insieme a tanti amici somali, per tornare a casa e rimettermi a lavorare per il mio paese. Quando smisi di illudermi che sarei tornato presto a Mogadiscio e capii che avrei dovuto piuttosto riorganizzare la mia vita in Italia su basi totalmente nuove, mi trovai per la prima volta a guardare alle cose italiane non più da spettatore ma da membro attivo e responsabile della società che mi ospitava»[6]. Per questi motivi, durante tutti gli anni che Aden Sheikh trascorrerà in Italia il suo impegno civile e politico verrà testimoniato, a livello locale, dal suo operare per affrontare i problemi della migrazione e della diaspora somala e, a livello nazionale, dall’analisi della drammatica situazione della Somalia e delle sue varie crisi a partire dalla guerra civile scoppiata nel 1991.
In questo libro, che è anche autobiografia, oltre a essere una testimonianza politica di primissimo piano vista l’autorevolezza delle fonti, Mohamed Aden Sheikh ripercorre le tappe salienti della sua vita, dalle scelte difficili alle opportunità quasi casuali che gli hanno permesso di diventare uno degli uomini più influenti del regime di Siad Barre. Egli è stato uno dei testimoni più diretti e profondi della storia somala del ventesimo secolo, essendo nato durante il periodo coloniale italiano, avendo poi attraversato, in ordine cronologico, l’amministrazione militare inglese, il decennio del protettorato dell’Afis, i nove effimeri anni della democrazia somala e infine la dittatura durata più di vent’anni. La guerra civile invece l’ha vissuta da lontano, dall’ Italia, dove in questi anni la voce di Mohamed Aden Sheikh è rimasta, a mio avviso, debole e troppo spesso inascoltata. Dopo pochi mesi dalla pubblicazione di questo libro, che è anche racconto di parte del passato coloniale e postcoloniale italiano, Mohamed Aden Sheik si è spento il primo ottobre 2010 a Torino lasciando le sue parole come testimonianza di un passato vissuto e sofferto in prima persona e ricordando a tutti gli italiani che la Somalia non è un’isola dei Caraibi bensì qualcosa di molto più vicino a noi che ci appartiene nel tempo e nello spazio.


[1] M. Aden Sheikh, La Somalia non è un’isola dei caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia, Bologna, Diabasis Edizioni, 2010, p. 13.
[2] M. Aden Sheikh, La Somalia non è un’isola dei caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia, cit., p. 25.
[3] Ivi, p. 26.
[4] M. Aden Sheikh, La Somalia non è un’isola dei caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia, cit., p. 160.
[5] Ivi, p. 161.
[6] Ivi, p. 204.

31-07-2012

L'autore

Michele Pandolfo

Michele Pandolfo ha conseguito la laurea specialistica in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Trieste e il titolo di dottore di ricerca in Storia: culture e strutture delle aree di frontiera presso l’Università degli Studi di Udine. Le sue ricerche riguardano la storia coloniale italiana in Africa, con uno sguardo mirato alla Somalia, gli studi sul postcolonialismo italiano e le sue rappresentazioni culturali, i fenomeni diasporici e le questioni di genere.