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Cinema Sarajevo

Scritto da loris Ferri

[Quattro poesie scelte]

Scriveva Davide Nota a proposito dell’autore nel lontano duemilasedici: << Si torna alla figura dell’errante, dentro la storia come corpo (di schiavo) ma mai come spirito (libero) >>.  L’attraversamento errante del mondo, l’essere noi, tutti, migranti verso l’ignoto[1], anime girovaghe verso un altro dove[2]. È su questa traccia che si colloca Cinema Sarajevo, opera poetica stampata a giugno 2022 per la casa editrice Ensemble (Collana Affluenti) e che vede la sua prima luce in Bosnia, precisamente a Sarajevo da una costola del progetto internazionale Refest che ha raccolto a partire dal 2017 nella capitale bosniaca otto poeti italiani, sedici fotografi balcanici e otto illustratori spagnoli, con l’idea di rimappare le nuove rotte della migrazione. Restituzione finale, quattro Festival europei: Organ Vida (Zagabria), Passaggi (Fano), Balkan Photo Festival (Sarajevo), MonteMadrid (Madrid). Titolo del libro liberamente ispirato al locale Kino Bosna, ex cinema della capitale, ora luogo di incontri, umanità, follia e arte. Cinquanta scene di vita ne compongono l’architettura compositiva, suddivisa in quattro movimenti: Ombelico Urbano, Interno Cinema, Paesaggio d’ombre, Esterno mondo. Come un sismografo visivo ed emozionale prendono forma le storie, le illusioni, gli orrori, i sogni a cavallo tra due secoli e due mondi. Così si conclude la scena (X) che chiude la prima sezione: tutto nel mondo è se stesso solo essendo altro.


[1] verso tratto dalla Scena XXIX, Cinema Sarajevo di Loris Ferri
[2] verso tratto dalla Scena XXXV, Cinema Sarajevo di Loris Ferri

Scena I
Prologo

Ancora insonne, interminabile è la notte
quando cessano le ultime fiammelle il loro lento
crepito e simile a un presagio, in noi, accade lo stupore.
Una luce, la prima, in cui s’abbagliano i mondi. Affievolite
le minuscole braci; solo un ragno, sentinella dei boschi, occulta
nell’umidore la silenziosa presenza come dio del crepuscolo.
Nuvole simili a grandi mandrie di buoi al pascolo
seguono, con zoccoli di polvere, lungo strade sterrate.

Come serpi di ruggine, riposano le roncole tra boccioli d’aglio
selvatico. Poche solitarie stelle, desolazione muta; fronde mosse
come criniere di cavallo al galoppo sotto la frusta del vento.
Ne ascoltiamo l’eterno, il senso del suono che anima le cose;
e in esse noi: il nostro finito essere, e quel segreto spavento
che in noi, tutti, è sepolto: la feroce meraviglia scalfita dall’orrore.
Dentro, è un paese di morte. Orizzonti irrimediabili. Fazzoletti
inumiditi di liquido seminale giacciono come simulacri terreni;
cicche rosse di sigarette. Tra le ortiche, più aspro è il sentore
di urine. Come fitta capigliatura ombreggia un ampio faggio.
Giacerà per tempo, goccia su goccia, mettendo radici e fiore.
In disparte, sotto tele d’asparagi: una crepa forata di teschio.

Scena XI
Strilla l’ambulanza come una merla di fuoco…

Strilla l’ambulanza come una merla di fuoco
incastonando la sua fiamma di luce sulla striscia
bianca di un paracarro ferrato. Come una lucciola
elettrica, in un cortile buio, al livello delle inferriate
si pone. Lì, divorati dal tumulto del chiasso, si staglia
in un lunedì come tanti a Sarajevo, contro una collina
muta – la visione è quella operaia: d’epoche lontane –
l’antro di un cinema nel quartiere di Alipašina.
Barcolla un vecchio. Le stelle sprofondano
nel cuore di una luna ubriaca. Di lì le scale – ghiacciate –
e lo scalpitio allegro dei bicchieri. Crepitano
i cocci in frantumi, accompagnando sull’asfalto
il fracasso dei vetri con le facce insanguinate.
Neve e baccano si mescolano in quelle tarde ore.
Strepito di macchinisti, fioraie; all’unisono si mescola il canto.
Mi innamoro di loro e solo in loro vedo il mio amore.

Scena XXXVIII
Vi osservo uomini e donne del domani…

Vi osservo uomini e donne del domani
che ve ne andate, rapiti dal vento, tra sogni e oblio.
L’urgenza dei vent’anni è il vostro grido.
Quando stringete una mela, così è il mondo racchiuso nelle mani.
Come lucertole, tra i fossi, pronte al semplice risveglio;
non atterrite dall’ultima neve, solitarie, nel liquido
siero di illusioni e rovine. Ogni corpo è un santuario
di membra, è l’ansia innocente di bocche orgasmi fiori.
L’umido seme che si fa radice, principio di terra e vibrazione.
Sono splendore in erba i primi amori; hanno tempesta e brusio,
lingue che sanno di fuoco e di miele. Che cosa ci attende, là fuori?
Come pioggia se ne va e se ne viene ogni grande stagione.

Scena XLVIII
Tregua

Sarà forse per poche ore. Tornare
a gesti abituali, indolenti; quasi semplici,
solidi. Lavarsi, pettinarsi, andare
a raccogliere legna. Le profonde cicatrici
sono continenti scavati sui volti;
non c’è limite, impronta, e anche se il crollo
ha emesso un suo respiro di tregua, i culti
della rovina attendono sino al midollo.
Oggi noi, noi soli. Corpi nudi, respiri,
parole fatte di pane; e un vaso di viole
raccolto tra le macerie. Più prezioso degli ori,
e un ultimo dono: essere, infine, nel sole.

Loris Ferri da Cinema Sarayevo

L'autore

loris Ferri

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