Nenad Turk stringe la chiave fra le dita, ma non si decide a inserirla e accendere il motore dell’auto, sui cui finestrini quel giorno in Val Resia l’incessante pioggia di ottobre crea una cortina quasi impenetrabile. Sul sedile del passeggero c’è il sacchetto di generi alimentari appena acquistato in questo piccolo posto di frontiera fra Slovenia e Italia. Dal sacchetto esce un profumo di pane, quello semi-bianco, che si chiama Matjažev hlebec. E così, lui se ne sta seduto in auto, senza alcuna voglia di accendere il motore e di tornare in quel borgo vicino a San Giovanni al Natisone, dove lo aspetta un nuovo incontro con la signora che, nel desiderio di sapere come, lo scorso autunno, sia andato tutto laggiù, ossia in quella cittadina della Bosnia, si è trasformata per intero in una sorta di aspettativa vivente. Sì, rimane seduto lì ad ascoltare il proprio sussurro.
Per quanto tempo non ho neppure pensato a lui?
A nessuno di casa il vecchio permetteva che la minima briciola di pane finisse fra i rifiuti. Come ufficiale della riserva della Monarchia jugoslava, il nonno di Nenad aveva trascorso quattro anni di prigionia in Germania. Il suo periodo nei lager militari non rientrava mai nei suoi racconti sui tempi in cui il suo unico nipotino non era ancora nato. Solo il pane sulla tavola, del quale baciava sempre la prima fetta prima di ogni pasto, costituiva lo specchio di quel periodo, a proposito del quale, alle domande altrui, rispondeva solo in modo asciutto e reciso. La sua voce e il suo volto, in quelle occasioni, non esprimevano la minima traccia di contrarietà, né alcuna sfumatura di stizza nei confronti dell’interrogante.
Su questo, caro mio, non diremo neppure una parola!
Le briciole sulla tovaglia finivano nei becchi dei colombi e dei passeri, sotto la scala davanti alla casa. Solo una volta, la nonna di Nenad – mentre suo marito, con una presa di tre dita, piano, una per una, raccoglieva le briciole in un mucchietto – si era permessa di dirgli che forse sarebbe stato meglio semplicemente scuotere fuori la tovaglia. Gli uccelli sarebbero accorsi in volo, avrebbero trovato le briciole – non sono mica orbi! Lei aveva fretta, aspettavano l’elettricista, che, come tutti gli altri visitatori, non doveva trovare alcun segno di disordine in casa. Nella dispensa già da tempo non c’era la luce, e all’inizio dell’inverno le giornate sono così brevi. Nelle conche delle città bosniache per prima cosa li coglie il crepuscolo. Improvvisamente, già verso le due, tre e mezza. Poi li avvolge la notte, il cui chiaro di luna, per quanto magico – come si legge nelle poesiole dei libri di scuola – sui tetti, sulle strade, sui frutteti e sui giardini coperti di neve appena caduta, per la nonna non era di nessun aiuto per distinguere fra i vasi di peperoni, cetrioli, pomodori verdi e giardiniera sotto aceto, e quelli di confetture di prugne, mele, pere e albicocche.
La dispensa è il cuore della casa!
A me sembra che sia soprattutto la sua pancia, rispondeva il nonno a quella convinta dichiarazione di lei sull’assoluta necessità della dispensa.
Ma, quel giorno, non rispose. Le sue tre dita, desistendo dal movimento, si contrassero sulla superficie del tavolo, poi ripresero il loro lavoro più rapidamente di prima, al ritmo delle parole del nonno, accompagnate da un unico sguardo adirato, scintillante – come mai in precedenza – fra le palpebre per un attimo socchiuse.
No, mia cara, in tal modo le briciole si sparpaglierebbero, da ogni parte.
Lo sguardo del nonno, pieno a un tratto di luminosa dolcezza, diceva chiaramente che, in tal caso, qualcuno avrebbe potuto pestare le briciole cadute sulla neve friabile. Avrebbero forse potuto farlo gli scarponi dell’elettricista, del postino, del lattaio. E alla loro suola si sarebbe attaccata qualche briciola. Per finire pestata. No, non occorreva che fosse una scarpa di altri, poteva essere anche di qualcuno di noi, di casa – della mamma o mia? O la galoscia del nonno? O lo zoccolo, della nonna? (Neppure d’inverno lei rinunciava a quelle strane calzature, di legno).
Qualche momento dopo, dalla finestra mezzo gelata, lui osserva il vecchio che su uno scalino, ripulito dalla neve e dal ghiaccio, sparge quelle briciole. Attorno a lui si raccolgono stormi di colombi, intirizziti come i timidi passeri, mentre da un lato, sotto un cespuglio di bosso, due o tre cornacchie aspettano il loro momento. Basta che il vecchio si allontani, ed eccole – scacciano i più deboli e mangiano il resto delle briciole.
Fissando quella quasi impenetrabile cortina di pioggia, Nenad Turk si chiede in che anno ci sia stata l’Esposizione di Bruxelles.
Nel millenovecentosessanta e … cinque? Forse sette? Che importa, che importa! Sussurrando questo, vede, certo non molto chiaramente, il nonno che sonnecchia sul divano e se stesso seduto al tavolo, mentre a voce alta legge al vecchio un articolo della prima pagina di Oslobođenje, accompagnato dalla fotografia di un globo enorme. Poi al nonno mostra la sfera. Il vecchio, fissandola attraverso le palpebre socchiuse, chiede al nipote che cosa potrebbe mai esserci dentro quella prodigiosa costruzione, fatta per quella, come la chiamano, esposizione. Il nipote, confuso dalla domanda e consapevole di aver affrettato la lettura – gli amici lo aspettano fuori, per giocare a calcio! – dice che non esiste cosa al mondo che non ci sarà là, in quella sfera. Ah, è così, allora è così! Il vecchio ripete quelle parole, chiudendo gli occhi, e si dispiace perché, con il passare degli anni, ha dimenticato tante parole francesi che, si sa dove, aveva imparato. In caso contrario, suo nipote deve sapere che avrebbe piegato un foglio di carta e scritto una lettera, molto breve, là, in quel paese, il Belgio, che ha i cavalli più grandi e più forti del mondo. Il nipote, curioso, chiede al vecchio che cosa avrebbe scritto in quella lettera.
Niente di speciale, caro mio. Niente di speciale! Solo che, sotto l’apice di quella sfera, appendano le pagnotte provenienti da tutte le parti del mondo. Solo questo e nient’altro. Ecco, che le pagnotte stiano sopra tutte quelle cose che, come dici tu, ragazzo, esistono al mondo. Ah, caro mio, solo allora quella sarebbe una vera esposizione!
(Dal manoscritto del romanzo “Arka”)