…i testi di Stagioni scalene rifiutano una connotazione definita o definibile da un punto di vista strettamente cronologico (se non ovviamente in termini filologici). Il loro gioco poetico consiste nel confondere le strutture del linguaggio e della psiche. E con esse le unità di misura dello spazio e del tempo costruite in termini di “senso comune”.
Tutti questi aspetti riguardano ovviamente anche le tematiche della raccolta. I testi non hanno mai o quasi mai dei “temi” o delle forme a priori. Trovando le proprie cuciture tematiche e di senso solo “a posteriori” rispetto all’aprirsi e chiudersi di quelle finestre spazio-temporali che essi stessi costruiscono da un apparente nonsense. Dei rizomi di senso che diventano poi la possibilità di un discorso poetico destrutturato e destrutturante rispetto a quel “senso comune”. Ma che al tempo stesso trova o può trovare strutture e forme (potenzialmente) libere. Le quali a loro volta lasciano intravedere gli infiniti mondi possibili della poesia, nella sua radice etimologica di poiesis (ovvero la capacità di costruire mondi attraverso il linguaggio). [1]
[1] Breve estratto dalla prefazione al testo di Antonella Sarti Evans
da Stagioni scalene (Edizioni Ensemble 2021)
Hasan[1]
provo a guardare questa città con i tuoi occhi,
nell’esilio dei sensi;
alleati nella guerra
dei giorni accatastati
fra i passi dimenticati
la danza dentro il labirinto dei ricordi.
ti conobbi ad un vinaio di via Panicale,
piazza del Mercato Centrale
ti ricordava forse
i bazar della città di
Nassiriya.
dicevano che eri un poeta
e non riuscivi mai a finire una parola,
affogate nei calici di vino
della povertà.
per questo ti credetti,
come i bambini credono ai sogni di cartone;
ai racconti masticati di giovani vecchi
in equilibrio sul crinale della vita.
ricordo quando passeggiammo
ubriachi di notte sotto casa di Dante,
mi ci portasti senza dire dove andavi;
amico nella via
che i nostri desideri colpiscono.
tornavamo da S. Pierino,
quell’arco sotto al quale§
litigavi ogni giorno con un debito diverso
solo Noè ormai ti apriva le porte;
forse il suo vino costava un po’ di meno
dei saluti di Akira e dell’Eby’s Bar.
lì nelle sere d’estate leggevi Montale
chiedendo quel verso cosa volesse dire,
le poesie antologiche sulla migrazione
aperte alla pagina dell’amico Gëzim.
la panchina sul lato esposto alla piazza
della pizzicheria di Antonio Porrati§
era diventata un piccolo salotto d’incontro
per memorie naufragate nell’esilio.
tutti dicevano di averti visto lì l’ultima volta
bere, scrivere, ascoltare nel vuoto
le ragazze sembravano portare tue poesie
nei ventri inanellati di farfalle.
venivano a renderti omaggio
i doni del caos –
amici, conoscenti, profeti
compagni di lavoro per un anno
bevute per un giorno,
tu stesso dei pirati
eri detto il profeta.
a quello stupore fra ricordi e promesse
libri rilegati dal vento offrivi in sacrificio,
ti era ufficio stampa in via dell’Ariento
la Casa del Vino.
l’enoteca di borgo la Croce faceva da antipasto
per serate masticate all’Ateneo libertario,
digerite alle Vie Nuove; ammazzate al CPA
alle Lame – a lungo la credemmo casa del magro Alessio
con uccelli piovuti dal cielo iracheno
sui bicchieri di luglio –
ultima fermata prima del 23
che ti riportava dritto a via di Villamagna.
lì molte nottate dopo
– dove dormivi nel sonno senza stanchezza –
scoprimmo la verità, insieme a molte altre:
era a S. Antonino
la taverna in un vicolo.
nell’eco dei tavolini di marmo
sei rimasto nel vetro,
con la carta pallida anticailluminata dal calice rosso;
senza aggiungere altro.
ai tuoi occhi lupeschi
l’intera S. Ambrogio protesta;
non te li tolsero nemmeno gli assistenti sociali
quella notte con noi matti di S. Salvi
quando gridò un’ultima volta il rumore del vento
sulla Firenze che ti ha amato
e la Firenze che ti ha odiato,
che ti ha donato
il sorriso invernale nell’estate –
delta di due fiumi,
ti ha gettato nel mare un’altra volta.
Hasan, quante parole inutili
per quello che ci siamo sempre detti
nei respiri che assomigliano al profilo della luna;
di poesia e di poeti non si parla
ma si è.
quante volte hai chiesto aiuto
dentro l’orto del tuo cuore
districandoti fra i roghi della gioia di vivere,
partigiano di un bagliore apolide
che ho incontrato negli occhi dei profughi
e dei refrattari.
nella quiete discendente delle spade e dei Sumeri
hanno parlato i martiri di Babilonia;
e ombre di contadini meridionali,
in attesa di un compagno
che non vedrò più.
ma in quell’esempio abbiamo urlato tanto,
fra le città stanche che hanno fatto
dimenticare cento anime;
sotto la kufia
dei lavoratori a giornata.
finché una palma è scivolata dentro al sonno
quando la sabbia ci è sembrata lenta
perché è stato tempo di riflusso per il nostro amore –
duro anche nel sogno,
in un mattino ricamato
dal volo degli storni.
a purificare
la terra nella terra
c’era pace senza inizio
degli amici ritrovati
che ancora continuano a cercare di un bosco
per il canto che non ha paese –
per un Iraq divenuto allegoria
della loro condizione umana.
ed è cresciuto nel silenzio
dove le tenebre difendono i tuoi morti
nel tuo sangue,
quell’ultimo battito che ha inciso
sopra al primo filo dell’aurora
una poesia sotto la quale possano distendersi
gli uomini randagi.
1) La poesia è dedicata ad Hasan Atiya Al Nassar (Dhi Qar, 1954 – Firenze, 2017). Poeta iracheno costretto a fuggire dall’Iraq in quanto oppositore al regime di Saddam Hussein. Ha vissuto molti anni in Italia – ed in particolare a Firenze – dove aveva ottenuto lo status di rifugiato politico. Nel testo i ricordi dell’autore si mischiano a versi, immagini e suggestioni delle poesie dello stesso Al Nassar. (NdA)
via Panicale
cos’è rimasto appiccicato a questa via
solo Bardalez e Jose forse lo sanno;
o Rolando, “che è tornato ad abitare in Perù”
dopo essersi scolato l’intera Firenze.
e di certo se ce ne siamo andati non è soltanto
per le manganellate dei poeti,
per le birre avvicinate alle ragazze
alzando troppo il gomito di un rozzo savoir faire.
ma quelle dell’antico monastero di Sant’Orsola
ubriache sotto al letto qualche ultimo dell’anno,
nei cantieri ancora aperti della giovinezza
custodivano l’ossario di una Monna Lisa
e salivano cantando quattro rampe di scale
con i baci per le recensioni su Airbnb
o le coppie di cinesi che si dicono I love you.
il Sabor Cubano aveva aperto in una via Taddea
lastricata di buoni propositi per le lapidi a Carlo Lorenzini,
consacrate da quella città dove soltanto dicendo le bugie
sapeva come diventare un bambino per bene.
il Gatto e la Volpe acquattati a giornate intere
fra il Mama Bar e l’incrocio con via Guelfa –
filosofi vs poeti
a contendersi il sagrato della chiesa
con le associazioni di amicizia Italia-Ecuador.
le dona oggi il rosso sulle impalcature
della Città Proibita alle Porte di via San Zanobi,
ma il suo terrore orgonico
chi ce lo ridà?
ed il suo piscio etilico,
le risse che zittivano le trame;
lo sguardo esasperato ed assassino
del Kabayan Store?
no, né cento
né mille celle forse
potranno riportarcela
l’erbetta peruviana,
proibita più di amplessi consumati
in gran segreto al quarto piano
da padri di famiglia troppo padri
per esser stati figli
per esser genitori.
ben più dell’alchimia di case
d’artisti (!) spuntare come funghi
su giungle bohémien,
cellette – quelle sì – al miele
nell’alveare anemico della città.
ROMA NASONA
I.
acqua sorgente zampilla
dalle pietre nascoste della Città Eterna
lavando le ferite sulle strade consolari;
ed il bello è che ti puoi infradiciare.
giovani mamme a Torpignattara
hanno bambole di pezza nei passeggini,
siedono ai giardini dell’ottemperanza
dividendo il pasto con le nutrie.
anche loro come molte non sanno cosa fare,
se appoggiarsi all’acquedotto Alessandrino
o al Parco archeologico di Centocelle
dove Schlash Claudia Vera Riot
aggrappata per i fianchi a un Free Wi-Fi
mette in carica il suo amore prenestino –
con solo qualche sbavatura nel karma
per due spuntine azzurre tanto attese.
i crateri ai semafori arancioni
fatti dai rider a viale Primavera
ed un respiro intagliato in mezzo a via delle Robinie.
il manga tatuato dietro al seggiolino
due giri di shottini al concerto di Suarez –
piacere e desiderio che si ricompongono
nel mantra ripetuto a Circonvallazione Casilina.
bruchi elettronici fanno le fusa
incontrandosi a stazione Filarete;
avvitano il muso per leggere un’insegna
chiedendosi che cosa volesse dire
dalla borgata trapuntata di negozi
ognuno sembra sapere la sua.
§
infinite storie restano appese,
lungo i murales dell’acqua bullicante
nell’incavo d’incontro
fra Oriente e Occidente –
la storia al momento
è una sola.
i.
i banchini con la frutta fresca aperti fino a tarda notte
ti consegnano al Far West della via Prenestina
librerie autogestite col make-up per i set dei film di Pasolini
e staffette partigiane fino all’Arizona liberata del Pigneto –
con la resa dei conti alle serate swing organizzate via WhatsApp
dopo i reading coi poeti laureati d’oltreoceano.
II.
nel guaito di un colpo di tosse
l’Orlando furioso di Tor Bella Monaca
prende a bastonate un povero cane,
contro uno scalino masticato dai rimorsi.
i condomini giocano a Tetris
con le luci soffuse di palazzi
che sembrano Argonauti degli ovetti Kinder.
l’alba artificiale sorge
dai Monti Tiburtini,
metropoli dislocata sui treni merci
della ricollocazione industriale –
in un unico apparato digerente
da Rebibbia fino a Laurentina.
e nelle trattorie di Tor Tre Teste
il vino acetato dei Castelli Romani,
allungato con le chitarre a fine sera;
abbacchi trasformati in gironi infernali.
§
corone sopra interruttori ardenti
ai piani di prefabbricati in periferia,
crisalidi che luci nei paesi fanno
sul crinale dei Monti Albani.
le gru accasciate a sera a margine dei cantieri
– prede di contrabbandieri del cemento
su carcasse di catrame,
bianche morti del cigno
nella danza macabra del caporalato
bici si prendono in orgasmi di lamiere;
amandosi sul ciglio della strada.
consueti ed allo stesso tempo inaspettati
piccioni e mozziconi di sigaretta sull’asfalto –
ragazzine con le tette a dieci anni
e un’infanzia ormai caduta in prescrizione
ai primi amplessi nei vecchi
capannoni industriali.
i.
candele votive dimenticate accese
per i maiali sacrificali del dio Kebab;
avvampano jihadisti dell’hip hop
kamikaze di spalle sui balconi
mentre parlano al telefono coi serial killer
dell’identità.
III.
anche Trastevere ha il suo coprifuoco
nei caffè che sono lucciole in dismissione
e crisi epilettiche a piazza Trilussa.
i mendicanti restano aperti fino a tarda sera
con le insegne luminose delle litanie,
litigandosi le fontanelle assieme al vento.
nei Bar Addis Abeba
il Grande Fratello in seconda serata,
Japan Ice Tea o Sex on the via Dandolo –
e sante visioni
sulla sponda opposta del Tevere.
gli sguardi cadono sui profili ostiensi
passi che assomigliano
ad amici irredenti.
§
Atena al Vittoriano
è un’Amazzone rivestita,
ancheggia pestandosi i piedi
davanti ad un falò
→ le frecce a destra in ambito Venezia
i vetri rotti in ambito Tricolore ←
sette criniere ammaestrate
nella divisione ferina dei poteri;
mentre le fonti della resilienza tacciono
essiccate nella calca a piazza Esedra.
lungo via Principe Amedeo
la numerazione si intervalla
a quella di piazza Manfredo Fanti –
come il corso della Storia si interrompe e poi riparte
confonde passi ed unità di misura.
turisti appoggiati ai tavoli di via Cavour
assaggiano spaghetti al monossido di carbonio;
Corso, Hemingway, Ferlinghetti, Al Nassar
passavano giornate intere in uno stesso bar
non hanno scritto niente
rimanendo seduti.
le prove libere del Gran Premio del rione Monti
fanno i pit stop in piazza dell’Esquilino
con i respiri calati a mezz’asta.
su Bella ciao cantata in curdo verso i Fori Imperiali
il Colosseo tagliato a tranci da via del Cardello
un tour di largo Ricci per Holy mountains
– e processioni dietro ai camioncini degli spazi sociali
con sopra i dischi dei Fugazi restaurati.
poi meeting di Anonymous
nei cavi delle antenne radio a San Lorenzo
– i cortili allucchettati delle scuole
dove nascevano cortei antirazzisti nazionali
o i tetti delle capannucce
in faccia a San Giovanni in Laterano;
(al vespro di un albume
sopito nel Verano) –
dopo le prime piogge su largo degli Osci
solo gitani a rovistare fra i sacchetti ed i cartoni,
ma gli spaccini hanno lo sguardo che fa capolino
tra le serrande abbandonate del mercato.
i.
espresso con pelliccia e tacchi alti
ai loggiati di Torre Argentina
mentre fischiano le orecchie lungo via del Corso
fino al Pantheon di Agrippa con le spoglie del re seppellitore.
sotto le cantine di via del Governo Vecchio
chicani con i blues della guerriglia nuova; o danze di strada
per militari a rinfrescarsi alla fontana dei Quattro Fiumi –
nella Babele coi sottotitoli in inglese
del cinema muto che è piazza Navona.
capisci che è iniziato il nord
dove il coperto costa più di un maritozzo al cioccolato
e Masaniello si è fermato al portico delle Cinque Lune
coi bicchieri offerti fra i segreti sussurrati in un caffè macchiato.
Da AMORE EPILESSI
(canti elbani)
Capoliveri è l’ultima pennellata di un poeta
dalla Costa dei Gabbiani;
l’uomo svela i campi coltivati
ed il Monte Capanne la sua silhouette.
capoluogo minerario del sud
dalla pensilina di piazza Matteotti
sembra un piccolo ghetto genovese
– affacciato su quel mare cui offriva i propri figli
terra di migranti
con oriundi australiani.
l’Antologia di Spoon River al Teatro degli elbani nel mondo
e i Blonde Redhead nati allo Sugar Reef.
la consueta passeggiata dopo La Lampara
fra banchini e negozietti di via Roma
– fino alla terrazza di piazzetta Marconi –
ti ricorda quanto cambi la percezione dello spazio
e del tempo con l’età
o come ogni chiaro di luna
sia sintomo di un entanglem