Vengono pubblicate in questa parte le poesie premiate al concorso Sengor 2018
Sezione A Sillogi in italiano
Poesia tratta dalla silloge Dolore minimo di Giovanna Cristina Vivinetto – prima classificata
Sono stata così vicina al silenzio
del corpo da vederlo quasi
scomporre tra le mani.
Un pezzo alla volta taace,
si dimentica d’esser vivi
come si tacciono le date,
i nomi con cui ci chiamammo.
Vorrei avere la memoria
delle cose dimenticate in soffitta
insieme alla gioia fanciulla di chi
le riscopre un giorno, per caso,
quando ha già smesso di rovistare.
Per il mio corpo cerco lo strepito
inatteso fra i giuncheti. Un vociare
d’ali non previsto mentre si scende
verso il lago – sul sentiero.
Non desidero la benedizione
dei calendari, di tutti gli eventi
che esistono fino a una certa ora
degli orologi che sanno
esattamente dove indicare.
Mi trovi già altrove. Sulle cime
dei giorni oltre le possibilità
dove si crede mai nulla
succeda, eppure un mistero
accade. Come questo corpo
non concluso in cifre e date,
non atteso sulle rive dei laghi
da nessuna ala, non ritrovato
per caso perché impossibile
da abbandonare. Eppure accade.
Poesia tratta dalla silloge Ponti di corda di Anna Fresu – seconda classificata
Un giorno, forse,
lo specchio rifletterà
la mia immagine
frammentata.
Sarò frammenti di me
e del mio tempo
dei miei tratti
dei gesti di parole
di ricordi
in giro per il mondo
a narrare pezzi
della mia storia.
poesia tratta dalla Silloge Dimentica chi sono di Griselda Doka – terza classificata
Dimentica chi sono
Dimentica chi sono
dimentica chi sei
tu, mia costante evasione
che percorri il mio Sud, tortuoso
cercami
nei campi di zagara bianca
colmi di nettare pregnante
che ti scorre nelle vene
quando l’odore del mio sesso
è la sinfonia che ti accoglie.
Sezione B
Poesie inedite in lingua italiana
Tra queste quattro nuvole Franca Donà prima classificata
Siamo qui tra queste quattro nuvole
a scrivere col fiato sopra i muri
un pugno di ricordi, e masticare fumo
che il fuoco della gloria già si è spento.
Siamo cresciuti al vento dei papaveri
la falce in una mano e il verso del martello,
la liturgia spiccia di un bicchiere
il pane da spezzare in parti uguali
e poco tempo resta per pregare.
La schiena sulla terra,
guardavo rondini volare
il cielo colmo del fragore delle onde
e vele chiare a punteggiare impronte.
Pellegrini d’altri viaggi, lidi,
lontano dai quadretti del mio mare
un riso amaro dentro gli argini
e ruvidi confini dai tramonti opachi.
Lasceranno il canto delle pietre
l’eco distratta di un vento
che getta reti nel mare più profondo,
pescando uomini assetati di salvezza
colpevoli di aneliti a un altrove,
un altro cielo, un porto,
un nido nuovo per le rondini.
Come una virgola di farfalla (dedicata a Stefano Cucchi) sezione Davide Rocco Colacrai seconda classificata
Buongiorno, sono Cucchi Stefano, nato a Roma il primo ottobre 1978
Sarà il mio corpo al tramonto di gelso
a parlare di me,
con il mio nome allungato verso l’infinito
dove l’ombra del sudario
tace la sua assenza,
a rilevare la cura che ha infranto il mio asse
in un macello
dove Dio è una virgola d’uomo,
ad essere sussurro di fuoco
nel convivio della verità
quando il vento avrà sciolto i suoi nodi,
a tracciare un cerchio per ogni mia orma
prima che la notte si sarà spenta su questo Sinai.
Sarà il mio corpo al tramonto di gelso
a misurare, tra un osso e l’altro, dove il sangue è un assolo,
il mio dolore,
padre e amico in quei giorni lenti
e pieni di ossimori,
di muri nudi d’amore,
freddi, e sterili, quasi di lutto,
stretti in una solitudine che si attardava in un solstizio
dove mani sorde
rivoltavano i miei rami in una stortura
lontana dai sogni.
Non c’era niente, nemmeno una Bibbia, perché non perdessi la speranza,
e sopravvivere, e ricordare
che il cielo non muta con le stagioni
ma con i ricordi e che avrebbe benedetto l’uomo intarsiato nella mia promessa
al mondo, era difficile, quasi un supplizio.
Ed è così che ho lasciato il mio corpo al tramonto di gelso,
morbido e feroce, non ancora pronto a scivolare via dal buono, e senza rimorso.
Come una virgola di farfalla in uno spillo che sarà.
Amalia (la fioraia) Dario Marelli terzo classificato ex aequo
Sta di turno di fuori al camposanto
nel punto di confine tra la terra
e il paradiso, dove le vecchiette
si danno appuntamento per parlare
un poco, dell’estate che non viene,
dell’ultima ricetta da provare,
della pensione ancora da incassare.
Sta ritta sul furgone, tra i profumi
delle viole e i mazzetti delle rose,
cercando scampoli di buonumore
nei saluti distratti della gente.
Vanno di fretta le persone, come
se fossero esistenze rassegnate,
quasi il domani non avesse nome.
Si inchinano pensando ai loro cari,
con un nodo strozzato nella gola,
nella tasca la lista della spesa.
Si chiede Amalia il senso della vita,
se tutto sfocerà in un’incisione
sopra il marmo, una lapide, una zolla,
se infine rimarrà soltanto un fiore.
Di lato Zora culla la sua bimba
e con la mano invoca una moneta.
Si contenta di poco, di un sussulto
di pane, di una luce senza gloria.
Sparisce nella folla, già invisibile
agli sguardi di chi non vuol vedere,
con un sorriso buono, la speranza
di un tetto e un pasto caldo per la sera.
Amalia prova un pò di tenerezza
quando la vede andare via da sola
con quel fagotto abbarbicato al collo
e tra le case il sole che scompare.
SIRIA’S SONG Candido Meardi terzo classificato ex aequo
Non qui batte il mio cuore di vetro.
Batte e trema in quel cielo oscuro
battuto da metallici tuoni di morte
in quella terra vasta e distrutta
dove i bimbi sono occhi neri
sgranati nel buio,
da mille Abrami sanguinari sacrificati
in nome del Dio, di un Dio
ugualmente morente e distrutto.
Non qui batte il mio cuore di vetro.
Batte e trema nel mare,
nel mare morto dei morti
dei padri, delle madri, delle figlie
dei figli in quel mare profondo dispersi.
Non qui batte il mio cuore di vetro.
Non qui. È là che il pensiero mi corre
lontano da queste città indifferenti,
Democrazie, ah democrazie malate e distorte
di angosciate alienate esistenze,
è là, lontano da questa pioggia
di assillante e vuota acqua elettronica
messaggera del buio e del Nulla…
È là. In quella pioggia avvelenata e tombale
di bombe, a soffocare nel sangue
la disperata misera lotta ribelle
di un popolo da anni morente nel grido.
Non qui batte il mio cuore di vetro.
Non qui. Il mio qui e il mio dove
mi trasforma in una distrutta preghiera
per un Dio che ha ritrovato il cammino
del Getzemani antico, dell’antico Calvario,
un dio sunnita, sciita, un dio cristiano
un dio alauita, un Dio senza nome
senza casa, senza più stelle, né Luce.
Un Dio che si è ritrovato il Sepolcro
che ha accettato la nuova pietra tombale
che resterà ferma
resterà ferma per sempre
ormai eterna alle Decadi.
Non più porta né cancello, né significato
né nome… la tomba resterà senza nome.
Il Talismano dei tyalismani è distrutto
e da quei bimbi sacrificati,
da quelle donne violate,
da quelle antiche città a un deserto ridotte
s’annuncia l’Apocalisse annunciata.
Non qui batte il mio cuore di vetro…
Il mio cuore è là, e sta vivendo l’Orrore.
È là che il poeta di tramonti e di rose,
è là, che quel poeta mi muove.
Sezione C
Poesie inedite in lingue francese
Pulviscoli di Guy Vielfault Francia ex aequo primo classificato
La luce tendeva sulle corna degli zebù
I raggi dorati di un’indocile lira.
Il giorno si illanguidiva, ansimante e stremato.
Dal villaggio emanavano profumi in delirio.
Viola, l’ombra nasceva sul percorso dei ritorni
Quando il velo insidioso di pulviscoli invisibili
Erodeva poco a poco i contorni troppo netti
Delle acacie invase da schiere rumorose.
Le scie di fumo si mescolavano, non erano che aromi.
Respiri sfuggiti alle dimore socchiuse.
Su alcuni baobab, un marabù in attesa
Bloccava la sua impazienza in una lunga pausa.
L’odore dei velli annunciava l’arrivo del gregge
Prima ancora che si schiarisse l’eco delle risa.
Nella palude vicina, i richiami dei rospi
Abitavano l’onda sopita dove si riflettevano le capanne.
Alcuni uomini giungevano, allungando il passo,
sulla traiettoria senza fascino dei percorsi quotidiani.
La nuca bruciava, colpita dal sole,
ma le loro mani raccontavano chiacchiere amene.
Il cuore della sera batteva nel calpestio sordo
Degli animali travolti da una fretta febbrile,
E le donne scrutavano la pianura in controluce,
Guardiane benevole sui muretti d’argilla.
Sono uno di quelli di Niklovens Fransaint primo classificato ex aequo
Sono uno di quelli che si cercano nello sguardo intenso
E bruciante degli altri
Perché sono uno di quelli che si perdono nel gelo della diversità.
Le notti hanno sbriciolato promesse nelle mie mani
Che non manterranno affatto e che diventeranno fiori sanguinanti
Nell’attesa.
Sono uno di quelli che cominciano troppo presto a battere la via del proprio destino
Perché sono uno di quelli che non hanno che una spiaggia di sassi come regno
E le onde per raccontare i loro segreti.
La mia anima si è incendiata nel profumo folle dei fiori del passato.
Il tempo ha trasudato solo fuliggine di emozioni sul mio percorso.
Sono figlio di questo tempo di ferro?
Sono uno di quelli che scrivono per dimenticare e che hanno dimenticato di amare.
Colui che dimentica di amare non se ne ricorda più
Del colore del cielo, della luce dei giorni.
Sono uno di quelli, da un’isola labirintica, che si vedono arrivare da lontano
A voce nuda di stelle gridano l’alfabeto delle solitudini.
La solitudine è un viaggio al termine della notte.
Sono uno di quelli che sfogano il loro male di vivere rubando il sole
Degli altri
I loro soli sono i loro sorrisi.
Sono uno di quelli che se ne vanno, scortati dall’incertezza fino al
Parlatorio dell’orizzonte
E per reggere gli assalti delle lame dell’insonnia
Si creano uno spazio nella luce di una candela.
Solitario,
in questo rollio, sfido il mio destino.
Un bagliore brucia e penetra la lontananza.
Col mio fazzoletto di speranza asciugo gocce di fallimento
Sulla mia fronte, che cadono come incudini di paura, e avanzo.
Stella eterna di Abdoulaye Guissé Senegal secondo classificato
Con sguardo da volpe, esploro delicatamente la tua immagine graziosa,
impressa con l’inchiostro affascinante dello splendore, sulle nuvole erranti
del mio spirito palpitante, ai piedi della sera carica di nubi, che si espande veloce.
Questo sguardo penetrante come il sogno indiscreto di una notte di dolcezze piccanti;
questo sguardo che scorre come il fluido che scivola nei pori della terra;
questo sguardo scrutatore che indaga teneramente il cielo crepuscolare;
questo sguardo che fiuta e che capta l’aroma diffuso nel vento che fugge;
questo sguardo indagatore che misura le massime profondità degli oceani;
questo sguardo contemplativo che ammira il tuo sguardo dolce e aereo.
A bocca aperta, contemplo il tuo volto di cielo e di stelle
I tuoi occhi di plenilunio brillano di mille fuochi
che il tuo sorriso favoloso riflette come uno scintillio d’acqua
Alla nascita pacifica del giorno. Felice, solco la tua pelle
liscia, la tua pelle morbida, la tua pelle splendente, la tua pelle viva. Che meraviglia!
Io ti respiro per vivere meglio. Aspiro il tuo aroma di fiore
Che evapora nell’aria, come in primavera, profumando i cuori.
Nella brezza notturna, accarezzo armoniosamente il tuo corpo naturale, e
Sulle onde dell’euforia, ti chiamo, a voce alta, Stella eterna.
Il lago del cuore di Gabriella Romani Costa d’Avorio terzo classificato
Dopo tanti anni
Passati in balia delle onde
Ho abbassato le vele
Un tempo ferite dalla tempesta
Straziate dalle intemperie.
E mi lascio cullare
Dal placido lago del cuore.
Come la rugiada all’alba è il colore dei miei occhi.
Un mormorio d’ali è il canto del silenzio.
Contemplo pensierosa
La linea sinuosa delle montagne
Oltre l’acqua e la sua risacca.
L’acqua e la sua risacca.
L’acqua e la sua risacca.
L’acqua e la sua risacca.
Una cantilena soave sale.
Le mie mani disegnano una canzone
Mai sentita sulla Terra.
Le mie mani
Che un tempo hanno frugato il firmamento
Sedotte dalla voce deliziosa dell’Eterno.
Le mie mani,
che un tempo hanno accarezzato le stelle
meravigliate dalla melodia raggiante della Luce.
Le mie mani,
che hanno ricamato rivoli di pioggia nella terra sterile
e la Terra ha germogliato.
Che hanno danzato, affusolate, le sinfonie dell’amore
E l’amore è divampato.
Che hanno respinto, indignate, la menzogna e l’odio
E la Collera è svanita.
Le mie mani riposano, adesso,
cinte dall’incanto del giorno
che lentamente sfuma nella notte.
Pacificate.
Quiete.
Serene.
È venuto il tempo della tenerezza, il tempo dell’abbandono.
Il tempo della grazia, il tempo della mietitura.
Il tempo della pace, il tempo del riposo.
Quando si manifesta, come un diamante lucente.
L’alchimia magica della vita,
che si rinnova senza sosta.
Nel crepuscolo di miele della sera
E nel velo materno della notte.
Già gravida d’aurora.
Sezione D
Il rumore leggero della poesia di Laurent Poliquin Canada primo classificato
Prendere le lacrime con esche di parole
Portarle in fondo a un pugno
fare della rivolta una milizia
formare il corpo
perché capisca l’istinto
degli amici della mia Terra
nei loro volti
la vita
necessaria
mi è per scrivere e sperare
il linguaggio
seppur breve
lancio di pietra
contro la morte che minaccia
a pieni respiri
una sola parola di speranza
scrivere
per gettare liane tra gli uomini
stanare il male alla fonte originaria
tenere per mano ciò che ci assomiglia
entrarci dentro l’un l’altro
e contrapporre ai carcerieri che inquinano
il rumore leggero della poesia.
Partire (contro l’emigrazione clandestina) di Papa Sada Anne Senegal secondo classificato
Salve antenato generoso
Maestro delle ombre silenziose
Attraverso la grazia sublime
Dello spirito divino
Eccomi tornare ancora
Funambolo spaesato errante
Sul limite della notte che fugge
Per cogliere la rugiada bianca
Del mattino che serpeggia agile
Sulla soglia dell’aurora bionda
Che sospira e mormora
Per bere tutta e fino in fondo
La saggezza pura e matura
Degli avi uterini
E partire, partire molto lontano
In sordina con la muta
Per la via buia dei senza quiete
Perché partire
È frugare alla rinfusa
L’ignoto precario e oscuro
Flirtare di nascosto
Con il destino ribelle
Aprirsi un po’ di più
Nella nebbia densa
Evadere un breve istante
Per vincere il rossore scabroso
Che suppura in eruzione
Per frenare lo slancio precoce
Che abbraccia e soggioga
Partire
È dimenticare d’un tratto
Il lamento dei sogni sterili
Abbagliare le sensazioni che irritano
Mitigare i rancori arroganti
Che fanno arrabbiare e disturbano
Far avvizzire la strana mancanza di sapore
Degli eccessi inebrianti
Abbattere la vanità brutale e arida
Dei presagi che colpiscono e soffocano
Confondere le oscillazioni violente
E vive che scuotono e schiacciano
Bandire lo sguardo moribondo
Dei mori senza pane
E senza tregua al culmine
Imbrigliare l’inquietudine incisiva
Delle abitudini sfrontate
Della nebulosa divoratrice
Becchino che colpisce e opprime
Che affligge e insorge aggressivo
Partire
È fuggire remando
L’isteria furiosa del presente assassino
Snobbare la speranza del domani che canta
Partire
Senza prendere conto dell’opinione di nessuno
I marmocchi in purgatorio
Partire laggiù con fatica
Nell’incavo improvviso dell’estate febbrile
Che si annuncia con i suoi colori solleticanti
Senza varcare la porta aggressiva
Degli oblii imbronciati e meschini
II
Ma
Non andrò a sfidare
Le lontane isole tumultuose
Non servirò da esca clandestina
Alla grande piovra divoratrice
Non andrò al Quartiere latino
Alla stramba ricerca di chiacchiere
Né a Venezia sulla zattera della fortuna
Perché non svenderei per così poco
La mia giovinezza talentuosa
Per queste ingrate odissee piene di rischi
Partire e non partire
Perché partire è
essere sospesi insieme verso la punta
Amichevole del sole ardente
Scrutare senza distrazioni l’orizzonte lontano
E senza catene dalla mia terra incantatrice
Partire solidale nella calma serena
Di un istante di delirio e di gioia intima
III
Come il colibrì che volteggia
Dal luminoso paese intero
Andrò migratore
Alla conquista preziosa
Dei suoi paesaggi di Eden
Dei suoi giardini di bellezza
Dove gorgheggiano all’unisono
L’allodola messaggera
L’usignolo allegro
E la cinciarella
Il fenicottero rosa
E il cormorano marino
Andrò pioniere instancabile
All’assalto singolare
Dei suoi colori ondeggianti e seducenti
Dei suoi rumori affascinanti e deliranti
Delle sue ninne nanne eccitanti e incantatrici
Dei suoi uomini fieri dal cuore coraggioso
Delle sue sirene altere dalla voce soave
E dei suoi profumi fragranti
Agli effluvi di guaiava
E di moscato d’Arabia
E al crocevia nebbioso del Nord
E del Sud uniti
Confonderò l’aliseo oceanico
E il vento dell’Est
Resusciterò la calda Linguère (1)
Dallo sguardo di fuoco penetrante
Principessa mitica della regione dell’arcobaleno
Tela d’amore tra levante e ponente
E quelle che bastioni insuperabili
Del Walo-Jeri (2) si mutarono in colonne di bronzo
Come l’orda selvaggia degli orribili cavalieri azzurri (3)
Quelle che guerriere eroiche
Si consumarono crude
Al crepuscolo di un mattino luttuoso
Donne epiche di Nder (4)
O Signare(5) della tragica morte
Ceneri sacrificali nella luce effimera
Di una giovinezza nascosta sotto l’ala del titano
Le vostre gesta spettacolari non sono vane né insensate
Perché Inno alla Giovinezza consapevole
Inno alla nazione intera
Perché simbolo eterno d’ispirazione e aspirazione
Perché veicolo di rinascita e rispetto supremo
IV
Mi sono inerpicato sulle cime, le pendici
E i declivi fiorenti
Ho respirato da vicino i profumi fiammeggianti
Delle verdi campagne arate
Ho inseguito fino al limite estremo
Il sole e la luna scherzosi
Ed eccomi alla foce dei tragitti di crociera
Imbarcadero delle ombre fuggitive
Raggomitolate nel silenzio ossessivo delle tenebre
Percorso di festa e di luce
Fosforescenza ai piedi del monte degli ulivi
Via di libertà sfogo e punto di ancoraggio
Della ricerca promettente
Chiaroveggente, torno da lontano
Occhi aperti, esorcizzato ed emancipato
Immunizzato dal mal di mare che scorre
Dal largo abbagliante e incantatore
Come è bello il mio paese di miracoli soffocato
Il mio paese di sogno commovente e seducente
Alle immagini di bellezze profumate
Dai tesori infiniti nascosti nel cuore immenso
Dei suoi uomini di bontà dal genio creativo
Consolatore e riconciliatore
V
O giovinezza del continente nero
Giovinezza senza anima del mio paese
Giovinezza delle campagne abbattute
Giovinezza dei campi fucilati
Giovinezza dei boschi decapitati
Giovinezza ansiosa dei quartieri difficili
Impantanati nella nebbia opaca
Della miseria fetida e dell’ozio
Giovinezza ebbra delle strade aggressive
Delle periferie tortuose sommerse
Dalla tempesta vertiginosa di maremoti
Giganteschi
Il Nord incantatore che vi fa tanto sognare
E desiderare
Vi riserva lame e l’abisso
E vi farà perdere la bussola
E la ragione intima
Nella siccità amara
Dei deserti di sfortuna
Nel calvario senza fine
Degli oceani di disgrazia
Nei corridoi profondi
Dei sordidi campi di accoglienza
Allora perché questa fuga fumosa e infida
Questa fuga nebbiosa e rischiosa
Questo folle destino dalla soglia funesta
Di cadaveri putrefatti
Questo esilio brutale e confuso nell’aldilà amaro
Dei fili spinati dell’inferno
Nell’ebbrezza carceraria
Delle barriere di esclusione
Nel tunnel oscuro
Delle maschere di rabbia
Dei pregiudizi insolenti e fallaci
Nel solco inquietante
Del disprezzo ostile e degli sguardi
Di odio?
VI
Granello di sale granello di speranza
Grido d’amore e di resurrezione
Speranza senza fine e senza errore
Di rinascita dal grigiore
Nel turbinio dei cuori inteneriti
All’incrocio delle vie dell’avvenire
Lontano dall’opaca oscurità
Dell’angoscia paralizzante
Magma immensi incastonati
Di tristezza, d’assurdità e di morbosità
Dall’alto del Tell e dell’Atlante (6)
Pregherò oltre ogni limite
Implorerò solo nel bosco sacro
Gli spiriti divini degli Antenati uterini
Griderò a gola spiegata
Sulle alte cime dell’Himalaya
E del monte Kilimandjaro
Per dire alla giovinezza perduta
Dell’Africa dal Nord
Al Sud intero del Sahara
No alla sfida della ragione!
Alt al corteo della morte!
Alt al tumulto straziante
Dei cimiteri umidi
Che ondeggiano alla deriva
Degli oceani di calvario!
Tocca a voi valutare
Tocca a voi giudicare
Tocca a voi giocare.
[2] Impero del Senegal
[3] Mauri
[4] Le donne di Nder, per rifiutare il meticciaggio con i mauri del Trazza hanno scelto il suicidio bruciandosi nelle campane.
[5] Donne belle nate da coppie miste con i colonizzatori
[6] Montagne del Maghreb
L’albero e il bambino di Marie Thérèse Bitaine De La Fuente Spagna terzo classificato
Sì, quest’albero è speciale … non lo riconosci ancora?
Tu non avevi piantato che una gemma.
Fragile e tenera?
Ma il fatto è che, ben innaffiato, è cresciuto in fretta
Come te, nei giorni in cui mangi a sazietà.
I tuoi genitori, per pagarlo, avevano dovuto lavorare duramente;
tuo padre si era privato di betel per lunghi mesi,
tua madre aveva fatto molte più ore di cucito
nel laboratorio insalubre.
E avevano dovuto, per innaffiarlo,
portare a lungo delle anfore pesanti sotto un sole implacabile,
di questa terra indiana desolata e talmente inquinata!
Eppure, questo sacrificio li aveva riempiti di gioia:
a causa di questo, di questo piccolo albero piantato e pieno di promesse,
sarai ammesso alla scuola elementare di Shiksha Kuteer,
sarai il primo della famiglia a studiare. A imparare a leggere e a contare.
Tu non sarai più la vittima di un padrone implacabile che ti sfrutterebbe
O, nelle città atroci, uno di questi miseri pescatori di monete che si tuffano a rischio
Della vita. Nei fiumi sacri …
Tu imparerai la libertà!
Una decisione incredibile dei saggi di Bangai.
Un’iniziativa che fa ancora credere nell’uomo …
E tu sei lì adesso, piccolo e fragile e incredulo:
perché è davanti a te l’albero che salva:
Lo spazio arido è ripopolato, l’ossigeno fa rivivere la pianura
E il tuo albero, guarda, è carico di matite che penzolano come lunghi semi di baniano
Che scoppieranno al sole
E l’acqua amara che ha ricevuto dal vostro continuo andirivieni,
l’ha trasformato in bell’inchiostro viola, guarda, cola dappertutto.
E poi, nella freschezza del primo mattino, i suoi rami si sono allungati in pasta
Ed ecco che ondeggiano dei bei fogli di carta nuovi nuovi pronti a essere riempiti di
Segni …
Di segni dell’intelligenza e della vera vita,
di quelli che si aspetta da te, bambino di domani, che proteggerai la natura!