Racconti e poesie

Cipresseta Raffaella de Blasio

«Forse un bambino è stato inghiottito nel ventre
della terra
invocando l’aiuto della madre e del padre»
Hâfiz Ibrâhîm, Il terremoto di Messina, 1908

Lanfranco fece qualche passo con gli stivali di gomma sprofondando nel terreno fangoso, verso lo spaventapasseri. Voleva sistemargli il cappello e le braccia di paglia che erano stati scomposti dalla tempesta, ma non ebbe la forza per proseguire e tornò sui suoi passi verso la terra più alta e asciutta. Raccolse un po’ di zucchine e d’insalata, le pulì con cura, poi rientrò in casa e fece l’ultima rassegna dei giornali on-line. «Regna il terrore. Niente è finito, tutto è solo iniziato (…) Sono tutti morti, anche i vivi (…) Tutto è deserto e incustodito (…) I vicoli sono trappole disseminate di calcinacci e fili elettrici penzolanti (…) Dall’alto della piazza si vede una scia di luci nell’oscurità, fanali di auto in coda sulla statale: lontano dalla città, ovunque, pur di non tornare a sentire quel ruggito (…) L’angoscia, l’orrore, la speranza di chi si trova sepolto vivo (…) Il paese intero è stato cancellato, solo detriti e calcinacci (…) Piatti in frantumi, scodelle, una carta da parati strappata, qualcosa che deve essere stata una forchetta, un dizionario di inglese rimasto incastonato tra pietre e frammenti di tegole (…) Un solo rumore di fondo, spietato e incessante: quello dell’acqua delle tubature divelte».
Lanfranco spense il computer e rimase fermo per qualche minuto, lo sguardo posato sullo schermo nero, poi si alzò, e cominciò a prepararsi per il lungo viaggio fino alle montagne terremotate. Prese le cassette con le verdure in cucina e le accomodò dietro il furgoncino, si mise un vestito pulito, prese la valigetta, un po’ di soldi, chiuse la porta a chiave e guardò la propria casa come se non l’avesse mai vista, come se per la prima volta avvertisse la verticalità delle sue mura. La sentì fragile e ingenua, illusa della propria solidità, e gli venne la voglia di scusarsi con lei per doverla lasciare sola per qualche giorno.
Si fermò all’alimentari appena sotto le mura del paese e lasciata la prima cassa, proseguì verso la cascina di Pina, un’ex-insegnante di italiano ora proprietaria di un agriturismo, il Guests & Ghosts, un vecchio casolare restaurato in mezzo alle vigne. Pina era una dolce e minuta friulana, con due occhi neri vispi sul volto raggrinzito. Si era trasferita nel Chianti dopo la morte del marito, insieme ad una amica inglese, morta anche lei dopo qualche anno. Con Mabel aveva comprato quello splendido fazzoletto di terra, il lembo di una collina coronato dalla grande casa ottocentesca giallo-ocra, dove inglesi e tedeschi si nascondevano dal freddo, dal grigiore e dalla nebbia fitta sottraendo dai loro risparmi un assaggio di paradiso.
– Zucchine, insalata e un po’ di ravanelli.
– Come va?
– Insomma. Non bene, direi. Hai visto il terremoto, no?
– Ho visto. E ho visto anche lo sfruttamento politico della tragedia. Uno spettacolo veramente osceno. Che fare?
– Eh già. Starò fuori per qualche giorno, ma ti porto un’altra cassetta prima del weekend, ok?
– Non preoccuparti. Tanto, devo andare in città. Vai giù? Hai qualcuno in quella zona?
– Sì, ho qualcuno in quella zona. Ma non mi va di parlarne, se non ti dispiace.
– Fai attenzione. Le case stanno ancora crollando.
– Lo farò. Grazie. Stammi bene, Pina.
– Senti questa. Ieri sera una signora francese molto carina che è ospite qui da noi, vedendomi sempre sola e magari anche notando che ormai faccio fatica a camminare, forse un po’ alticcia dopo due bicchieri, mi ha chiesto come facevo a non cadere in depressione o in disperazione. Credo fosse una domanda che voleva fare a se stessa.
– E tu?
– Le ho risposto così, senti un po’: Io vado avanti, chérie. Non mi fermo mai a pensare a ciò che ho perso. Non mi lamento mai, non spreco il mio tempo rivangando ricordi di ciò che non c’è più. Muoiono le persone che amo, e io vado avanti. Se perdessi una gamba, un braccio, se rimanessi cieca, andrei avanti lo stesso. Incorporo mentalmente quella realtà nuova nella mia vita, come un dato di fatto, come se fosse sempre stato così, e vado avanti. Trasformandomi, certo, lasciando pezzi di me per strada e aggiungendone dei nuovi, se ce ne sono, è così che vado avanti, e sarà così, anche quando diventerò senile, quando mi rimarrà poco di me stessa, anche allora andrò avanti fino in fondo, come un cammello che attraversa il deserto, e solo la mia morte potrà mettere il punto finale alla mia storia. Ho risposto bene?
– Beata te, Pina. Beata te… Grazie.
– Di che?
– Tu lo sai di che.

Viaggiava già da quasi un’ora verso Sud, guidando con attenzione lungo la strada a serpentina tra le colline con i prati conquistati dalla decisa geometria degli ulivi e dei cipressi. Dopo una curva la strada si fece ombrosa, un tunnel coperto dai rami degli alberi ai margini, un bosco fitto, area di natura preservata. Sul ciglio Lanfranco vide la prima di diverse stele di legno su cui erano incise lettere dorate con sotto una fotografia in bianco-e-nero protetta da un vetro. Dopo la terza o quarta stele identica, decise di fermarsi in uno slargo, uscì dalla macchina e osservò: la foto era quella di una donna bellissima sui trent’anni, vestita come i ricchi degli anni ’50, con un abito nero a spalle nude, una rosa nera tra i seni e una collana di perle. Guardava la camera senza sorridere, altezzosa, lo sguardo severo ma non malvagio. La dicitura riportava: «In memoria della mia bellissima e adorata moglie Raffaella De Blasio ho fatto piantare questa cipresseta (‘cipresseta’? non aveva mai sentito questa parola prima d’ora, usata così, come si usa ‘pineta’), per offrire ai viaggiatori stanchi un oasi di pace, bellezza e silenzio. A ciascuno di voi che mi leggete chiedo soltanto di dedicare un minuto dei vostri pensieri a questa donna, che così presto ci ha tragicamente lasciati, distrutti dal dolore. Il suo devotissimo marito Filippo De Blasio».
Tornando in macchina, Lanfranco consacrò il suo minuto, come richiesto, al pensiero di Raffaella. Si domandava se non si fosse per caso schiantata con la sua Spider contro un albero di quella stessa strada, o se quello fosse solo un paesaggio scelto perché caro alla memoria dei coniugi. Mise in moto la macchina e dopo un centinaio di metri trovò un’altra colonnetta con la foto e una freccia sotto la targa Cipresseta Raffaella De Blasio. Era un invito che non se la sentiva di rifiutare. Girò a destra e si fermò in un parcheggio di ghiaia. Un’altra freccia indicava il sentiero che conduceva alla cipresseta, Lanfranco camminò per qualche minuto e si trovò improvvisamente al centro di una sorta di cattedrale, di un grande spiazzo attorno al quale i cipressi fungevano da colonnato. Qua e là grandi tavoli di legno scuro per i picnic, qualche cestino, e al centro un parco giochi con uno scivolo, una struttura d’arrampicata, delle altalene e dei giochi a molla. In fondo al parco, come se fosse l’altare di quella chiesa, una stele più larga con un tettuccio a coprire una foto ingigantita, con ai piedi un vasetto di fiori.
Si sedette ad uno di quei tavoli. Era solo. Attorno a lui svolazzavano qualche farfallina gialla e le foglie che il vento scuoteva, producendo un rumore tenero che faceva da sottofondo al cinguettio di un uccello invisibile. Lanfranco fu invaso allora da una profonda sensazione di pace, proprio come aveva promesso il vedovo della stele. Ha voluto offrire a degli sconosciuti, pensò, la pace che a lui sarebbe stata negata fino alla fine dei suoi giorni.
Non erano ancora le undici di mattina. Doveva approfittare di quell’isolamento provvidenziale per mettere in ordine i pensieri che gli frullavano per la testa. Iniziò rammentando a se stesso il perché di quel viaggio verso le aree terremotate del Sud. In una delle città distrutte, probabilmente proprio in una delle case appena crollate del suo centro storico, viveva Gislaine con suo marito, un muratore che l’aveva conosciuta in un locale di Napoli e aveva deciso di sposarla. Per qualche anno avevano provato senza riuscirci ad avere un figlio. Ma ora Gislaine era incinta, se il terremoto non l’aveva uccisa insieme al bambino. Lanfranco aveva delle buone ragioni per credere che il figlio che Gislaine aspettava fosse suo. Avevano fatto l’amore diverse volte all’inizio della primavera, quando lui era negli Abruzzi per dare un corso di orticultura biologica e lei era sua allieva. Il marito era lontano, a lavorare come muratore fuori L’Aquila, e lei si vedeva con Lanfranco dopo le lezioni, nella casa di campagna che gli avevano concesso per il corso. Aveva chiesto una volta di poter fare una doccia per ripulirsi dalla terra e dal concime, e poi non era più tornata a casa sua.
Due mesi più tardi l’aveva chiamato per comunicargli che finalmente era incinta, e che era sicura che il figlio fosse suo, perché il marito era sterile anche se non lo aveva mai voluto ammettere. Prima aveva pensato di non dirgli niente, poi ci aveva riflettuto bene ed era giunta alla conclusione che non era giusto che una persona fosse padre di qualcuno senza saperlo, e aveva deciso di raccontargli della gravidanza. Ma che quella sarebbe stata la prima e l’ultima telefonata sull’argomento. È meglio così e lo sai anche tu, gli disse. Perché mio marito si è subito convinto di essere lui il padre, e questa è la cosa migliore per tutti noi, non sei d’accordo?
Figlio mio o figlio del muratore, che differenza faceva?, pensò Lanfranco accerchiato dai cipressi. Tanto dovrà per forza condividere i valori di questi tempi, che nessuno ha più la forza di contrastare: la centralità del denaro, la frenesia consumistica, la lebbra del turismo di massa che ora stava arrivando anche da queste parti, la spazzatura televisiva, il razzismo sempre più sfacciato. E poi, dài, che so io? Cosa conosco? Io non so niente. Di cosa potrei parlargli se un giorno lo incontrassi? Non della guerra, né della giungla, né delle grandi esplorazioni del continente antartico o del deserto di Gobi. Magari potrei parlargli di zucchine, di cavoli e di spaventapasseri. Di sterco. Cose ormai superate. Utilità zero. O forse potrei parlargli del vuoto, del nulla, della ripetizione dei giorni tutti uguali, del tempo che scorre senza produrre alcun rumore, o forse del rumore della caldaia, del motore del frigo. Del piagnisteo dell’uccellaccio che tutte le mattine fa uh-uh… uh! sotto la finestra di camera mia.
Il mio primo figlio ha appena compiuto quattordici anni e vive con la madre negli Stati Uniti. Me lo ha portato via quando aveva solo tre anni. Ora vive al confine tra il Michigan e l’Indiana, a Kalamazoo, dove sembra che frequenti una scuola d’arte. È bravo. Vuole fare l’illustratore. Forse ha fatto bene a portarlo a vivere da quelle parti, insieme al patrigno pubblicitario. Forse gli troverà anche un lavoro quando avrà la laurea. Sì, sicuramente ha fatto la cosa giusta. Per questo, perché in fondo ero consapevole, non ho mai avuto la convinzione, la forza d’animo di pretendere il suo ritorno in Italia. Mi sono adeguato, rassegnato. Vedevo crescere le pesche, le zucche. Pensavo ai cavoli miei. Cos’altro avrei dovuto fare?
Quello che la mia ex-moglie ha capito e che Gislaine non sa ancora è che ‘figlio biologico’ non significa niente, proprio niente. Il figlio è l’impronta nella sensibilità e nella visione del mondo che il padre è in grado di lasciare, e che invece saranno il patrigno e il padre putativo a lasciare ai miei ‘eredi cromosomici’, che non sono eredi di un bel niente per quel che mi riguarda. Sono, e continuerò ad essere, forse per sempre, un uomo senza figli, anche se fertile e prolifico. Non sarà il primo né l’ultimo paradosso della mia vita.
Una famiglia tutta bionda arrivò alla cipresseta. Madre, padre, due figli piccoli con i capelli quasi bianchi. Inizialmente Lanfranco pensò che fossero tedeschi, ma poi, dall’accento capì che erano inglesi. Sorrisero. Occuparono il tavolo più distante da lui per non disturbarlo e allestirono su una tovaglia di plastica fiorita un banchetto di formaggi, affettati, pane, focaccia, bottiglie di bibite e un fiasco di vino rosso. I bambini si liberarono subito dai genitori e corsero verso lo scivolo, arrampicandosi.
Lanfranco si guardò intorno e si pose una domanda inevitabile: ma era reale quel posto? Non era parte di un sogno, o un miraggio, un’allucinazione? Se ci fosse tornato fra, diciamo, una settimana, non è che sarebbe scomparso tutto, stele, scivolo, cipressi, la bella De Blasio, e al loro posto si scorgerebbe solo un uliveto o un roveto selvatico e ostile? E gli vennero in mente, così per caso, le «chiavi della verità» proposte da Bernardo de Chartres, che aveva annotato nel suo lunario: «Una mente chiara e un’alimentazione regolare e una vita serena. La povertà – e fino a qui ci siamo –, una ricerca silenziosa e una terra straniera». Una ricerca silenziosa, forse sì, non capiva solo esattamente di cosa. Una terra straniera, sicuramente, poiché niente è più straniero di quello che è diventato il suo paese natale.
Arrivando negli Abruzzi, cosa avrebbe dovuto cercare? La casa dove viveva Gislaine. Ma i vigili del fuoco non lo avrebbero mai lasciato camminare in mezzo alle macerie. Tutta la città era interdetta, a rischio crolli. Che fare allora? Cercarla tra le baracche della Croce Rossa. E se anche la trovasse viva, insieme al marito, come spiegare loro i motivi del suo viaggio? Cosa era venuto a fare lì a meno di due giorni dalle scosse? Il muratore avrebbe potuto insospettirsi. Dopotutto, perché quell’interesse per una ex-allieva, ora incinta? Quell’angoscia? Non poteva aspettare a casa sua, bello rannicchiato davanti alla tv, la lista dei vivi e dei morti? Il sospetto avrebbe potuto essere innescato a partire da quella visita e non si sa dove avrebbe potuto portare. Gislaine era una donna di origine straniera, e queste, si sa, sono un bersaglio facile per le insinuazioni malevole. La sua presenza avrebbe potuto avvelenare nel tempo la vita di quella famiglia e anche la sua.
E poi, a questo punto, ciò che era stato era stato, e lui non avrebbe potuto evitarlo. A meno… a meno che lei fosse ancora sotto le macerie, seppellita viva, tra le urla soffocate, inascoltate e sempre più deboli, sotto una lastra di cemento, assetata, ferita, irraggiungibile al fiuto dei cani o alle braccia degli uomini. E senza una capsula di cianuro da mordere. Tutti dovremmo portare con noi, ovunque si vada, giorno e notte, una capsula di cianuro, l’uscita d’emergenza.
Questi pensieri lo sconvolsero. Ora capiva che erano questi i pensieri che lo avevano spinto fino a lì, fino a quella fantomatica cipresseta: il bisogno di disseppellire la sua donna, la madre di quel figlio non ancora nato, di trovarla sotto le travi, sotto i pavimenti crollati, ancora capace di respirare, di attraversare la notte, di partorire. Ma che ne sapeva lui? Forse a quell’ora giocava a carte con le vicine di tenda, o scolava la pasta per il marito. Comunque fosse, il suo nome, nei giorni successivi, sarebbe stato presente su una o l’altra lista. Ma no. Era come il rovescio di un concorso, ci sarebbe stata solo la lista di quelli che non ce l’avevano fatta. O forse ci sarebbe stata anche una lista degli sfollati? Con migliaia e migliaia di nomi? Poco probabile. Doveva pazientare.
Guardava i bambini inglesi emettere gridolini di gioia mentre scivolavano giù, e la coppia che preparava i panini mentre sorseggiava il vino toscano e osservava i figli con lo sguardo pacificato da un affetto commosso. Vedendolo sorridere, l’uomo alzò la mano e gli offrì un bicchiere di vino. Lanfranco ringraziò ma rifiutò con un gesto della mano che voleva dire ‘devo ancora guidare parecchio’.
Forse era stata una trappola del proprio inconscio? Aveva prodotto lui stesso quell’immagine della donna sepolta sotto la propria casa, che lo supplicava di venirla a salvare? Forse la sua immaginazione l’aveva elaborata durante un incubo, e svegliandosi era rimasto in balia delle forti risonanze emotive di quel sogno? Agiva come un automa, teleguidato dai propri fantasmi? Può darsi. Ma può darsi anche che fosse vero, che da due giorni lei lo scongiurasse di venirla a cercare in quel buco nero in cui si trovava da quando un mondo gli era cascato addosso.
Si alzò, guardò per l’ultima volta il ritratto di Raffaella De Blasio. È morta in circostanze tragiche, ricordò. Spero che non sia stato durante un altro terremoto, nel Friuli o nel Molise… Il vedovo, ‘devastato dal dolore’, non ha voluto spiegare in quale modo è venuta a mancare la signora. Penseranno per un minuto a lei anche gli inglesi? Capiranno che il mondo, anche il loro mondo oltremanica, è rimasto più povero senza questa bella dama italiana? E che i loro figli si divertono dentro un mausoleo e partecipano, inconsapevoli, a un’oscura liturgia?
Lanfranco ritornò lentamente verso la macchina, si sedette al volante e aspettò ancora qualche secondo prima di girare la chiave. Poi fece retromarcia, ascoltando rispettosamente lo scricchiolio della ghiaia sotto gli pneumatici come il brusio di una lontana preghiera, e poco dopo arrivò alla strada asfaltata e lì si fermò nuovamente. Appoggiò le mani sul volante e la fronte sulle dita. Non riusciva a decidersi se girare verso Sud o se tornare verso Nord. Sarebbe arrivato a casa ancora in tempo per raccogliere altre verdure e per regalarsi un bel pranzo sano e tardivo.

Cipresseta Raffaella de Blasio è stato pubblicato in “Un mare così ampio”. I racconti in romanzo di Julio Monteiro Martins, Lucca, Libertà edizioni, 2011.

L'autore

Julio Monteiro Martins

Julio Monteiro Martins è nato nel 1955 a Niterói, Brasile. “Honorary Fellow in Writing” presso l’Università di Iowa, Stati Uniti, ha insegnato Scrittura Creativa al Goddard College, nel Vermont (1979-82), l’Oficina Literária Afrânio Coutinho, Rio de Janeiro (1982-91), l’Instituto Camões, Lisbona (1994), la Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (1995), e tra il 1996 e il 2000 ha tenuto corsi in diverse città della Toscana. E’ stato uno dei fondatori del Partito Verde brasiliano e del movimento ambientalista “Os Verdes”. Avvocato dei diritti umani a Rio de Janeiro, è stato responsabile dell’incolumità dei meninos de rua. Nel paese d’origine ha pubblicato nove libri tra raccolte di racconti, romanzi e saggi, tra cui Torpalium (Ática, São Paulo 1977), Sabe quem dançou? (Codecri, Rio 1978), A oeste de nada (Civilização Brasileira, Rio 1981) e O espaço imaginário (Anima, Rio 1987). In Italia Il percorso dell’idea (petits poèmes en prose, con foto originali di Enzo Cei, Vivaldi & Baldecchi, Pontedera 1998), le raccolte di racconti Racconti italiani (Besa, Lecce 2000),La passione del vuoto (Besa, Lecce 2003), madrelingua (Besa, Lecce 2005),L’amore scritto (Besa, Lecce, 2008) e L’irruzione, racconto incluso nell’antologia Non siamo in vendita – Voci contro il regime (a cura di Stefania Scateni e Beppe Sebaste, prefazione di Furio Colombo, Arcana Libri / L’Unità, Roma 2002). Le sue poesie sono state pubblicate su varie riviste, fra cui il quadrimestrale di poesia internazionale “Pagine” e la rivista online “El Ghibli”, e nelle antologie i confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (Firenze, Le Lettere 2006) e A New Map: the Poetry of Migrant Writers in Italy (Los Angeles, Green Integer 2006). È stato ideatore dell’evento “Scrivere Oltre le Mura”. Attualmente vive in Toscana dove, oltre a insegnare Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria presso l’Università degli Studi di Pisa, dirige e insegna nel Laboratorio di Narrativa, che è parte del Master della Scuola Sagarana, a Lucca, ed è direttore della rivista letteraria on-line “Sagarana”. Nel 2011 è stata pubblicata la monografia sulla sua opera Un mare così ampio: I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins, di Rosanna Morace, per la Libertà edizioni, di Lucca. Nel dicembre 2013 è stata pubblicata la sua raccolta poetica “La grazia di casa mia” (Milano, Rediviva).