Ho un periodo francese.
Ho varie fasi in cui mi si accende la passione per un Paese, la sua cultura: c’è stata quella balcanica, in cui non facevo che parlare dei Balcani e leggere libri sui Balcani. Frequentavo gente con lo stesso interesse, che ci aveva vissuto, e mi è capitato di finirci pure io, a sperimentare i Balcani dal vivo. Per non parlare della fase libanese, che mi ha portata fino in Libano, a Beirut, dove mi sono dedicata a esplorare la città, alla ricerca di piccole librerie in cui rifornirmi di libri di autori libanesi in lingua inglese e francese.
Sono periodi di vita che mi coinvolgono al 100% nel cercare di capire una cultura dal di dentro. Ora ho la fase francese. Sarà che è una fase che considero mai vissuta o comunque “interrotta”, avendo dovuto rifiutare, nel 2015, un lavoro che mi avrebbe tenuta a Parigi per 2 anni. Una decisione, all’epoca, convinta per quanto sofferta, che mi lascia, ora, con un grande interrogativo: come sarebbe stato, vivere a Parigi?
In questa fase francese mi ritrovo a guardare serie tv girate a Parigi, come Emily in Paris, che narra le vicende di una giovane americana in carriera che si trasferisce a Parigi per lavoro. O mi ritrovo a guardarmi in streaming tutto un festival del cinema francese al cinema, godendomi in anteprima film come Cigar au miel, che narra il conflitto di una adolescente nata a Parigi da una famiglia di origini algerine. O mi ritrovo a leggere tutti i romanzi di Nicolas Barreau, di madre tedesca e padre francese, scrittore immaginario a cui sono attribuiti otto romanzi ambientati a Parigi. Mi ritrovo a camminare coi suoi personaggi lungo le vie di Saint-Germain-des-Près, attraversarne i ponti sulla Senna, entrare e uscire da bistrot che esistono per davvero.
Mi ritrovo coi suoi personaggi a bermi un petit noir (un espresso più ristretto di quello italiano), o un café crème (il nostro schiumato). Che, a dire il vero, non avevo idea di cosa fossero. Finché non è accorso in mio aiuto chi le abitudini francesi le conosce da dentro. Aiutandomi a capirne un po’ di più del caffè a Parigi – sulla scia del mio viaggio immaginario che dà voce al caffè nel mondo.
Un aiuto l’ho avuto da Ilaria Gaspari, scrittrice italiana che si definisce grandissima appassionata di caffè, e a Parigi ci vive. La prima rivelazione di Ilaria, è che – attenzione, attenzione – nella maggior parte delle case francesi, la moka semplicemente non esiste. Al suo posto, soprattutto la famosa French press, contenitore in vetro con coperchio dotato di stantuffo/filtro in acciaio, che separa il caffè macinato dalla bevanda, ideale per preparare un’infusione al caffè in maniera semplice e veloce. Francesi che il caffè solubile (eresia per molti italiani), lo amano parecchio.
La colazione francese, ci informa Ilaria, in genere “È in casa, con caffè e croissant o altre viennoiseries prese dal panettiere, oppure, se fuori, magari in brasserie, è una specie di brunch che si fa soprattutto nel fine settimana”. Soprattutto, scordiamoci gli assembramenti da colazione al volo in piedi al bancone: a Parigi, “Al bar si sta più seduti che al bancone”, dichiara Ilaria, “specie in terrasse, i tavolini fuori.
Caffè che, per i francesi, “Sicuramente non è il rito che è in Italia”, continua Ilaria, “e non ha nemmeno quell’aspetto conviviale. Per dire, noi diciamo ‘andiamo a prendere un caffè’ anche per indicare un momento tranquillo di chiacchiere al bar, mentre i francesi, più che un caffè, vanno a bersi un verre, di vino, pastis, kir, birretta, ma anche una Perrier, o una limonata con la menta che a loro piace tantissimo”.
Caffè che spesso è accompagnato da un tocco di dolcezza, sia che si chieda un café, (lunghissimo per gli standard italiani) che un espressò (più ristretto del nostro): “Te lo servono in genere con una zollettina quadrata di zucchero e un biscottino alla cannella, in tazzine lunghe e strette”, racconta Ilaria.
O come il cosiddetto café gourmand, abitudine sconosciuta a un italiano, ma che “sarebbe da rubare in Italia”, dichiara la poeta e scrittrice Mia Lecomte, di madre italiana e padre francese, che Parigi la bazzica parecchio: “Con l’espresso ti portano dei piccoli assaggini di dolci (al cucchiaio e solidi), una scelta che dà molta soddisfazione!”, scherza Mia.
Tanta dolcezza, dunque, a sostegno della tesi che per i francesi il caffè “più che un’abitudine come in Italia, una scuola, un culto, è un piacere”, sottolinea il poeta e scrittore italiano Jonathan Rizzo, che vive tra l’isola d’Elba, Firenze, e Parigi. E che ci regala una massima, di Napoleone, a ricordarci perché il caffè piace sempre tanto, in qualunque cultura: Il caffè forte mi rianima, mi provoca come un bruciore, un rodimento singolare, un dolore non privo di piacere. Amo allora soffrire piuttosto che non soffrire.