Interventi

L’impatto delle radici biografiche e le sue problematiche : Il caso dello scrittore algerino Amara Lakhous e la sua narrativa.

La struttura linguistica è da imputare all’autore di questo breve saggio

Uno dei maggiori esponenti della letteratura della migrazion ein Italia è il romanziere algerino Amara Lakhous, considerato migrante più esemplare e più rappresentativo della scrittura migrante, perché egli è l’unico tra gli scrittori nordafricani arabi che scrive le sue opere in due lingue, in italiano e in arabo, non marginalizza la sua madrelingua tanto che vive a Roma da più di quindici anni, creando un nuovo ritmo nella letteratura italofona e anche arabofona, “il più originale degli immigrati che scrivono in italiano”, scrive in modo cinematografico solo per far emergere la propria cultura e civiltà, mostrando il clima sociale dell’Italia multietnica. Il romanziere algerino Amara Lakhous che scrive in due lingue, arabo e italiano. Nei suoi romanzi mira a “arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo”, portando immagini, proverbi e idiomi dalla sua lingua materna in quella del paese ospitante e viceversa, allo scopo di trasferire le culture da una società all’altra, per cui egli esamina spesso il tema dell’incontro e dello scontro di diverse culture e civiltà in una società multietnica come quella romana.

“Il mio nome è Amara Lakhous, un nome che in italiano sembra femminile, così che spesso mi chiamano ‘Amaro’ come molti nomi maschili italiani che finiscono per ‘o’, Paolo o Marco, nomi che io ho sempre amato. Non credo tuttavia di essere un uomo amaro perché oggi come oggi mi considero il primo oppositore ad ogni forma di amarezza

Il primo ottobre 1995, a 25 anni, si è trasferito in Italia, abitando a Roma in Piazza Vittorio, uno dei quartieri più popolari, fino al 2001, un luogo che è diventato l’ambientazione del suo secondo romanzo, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio . La storia, che costituisce una rielaborazione di Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda, pubblicato in arabo tre anni prima da una casa editrice tunisina, ottiene un buon successo di vendite, proiettando l’autore fra le figure principali della letteratura migrante italiana. Scontro di civiltà per un ascensore a PiazzaVittorio è stato tradotto in inglese, francese, tedesco, olandese e coreano; aggiudicato l’importante Premio Flaiano per la narrativa (ed. 2006), il Premio Reclamare – Leonardo Sciascia e nel 2008 è stato scelto come romanzo dell’anno dai librai algerini. Ne è stato tratto anche un film omonimo, diretto da Isotta Toso.

Ha viaggiato senza bagagli, portando nella borsa un manoscritto, il suo primo romanzo, scritto in arabo nel 1993. Solo a maggio 1999 viene pubblicato in edizione bilingue, arabo e italiano, il romanzo è intitolato Le cimici e il pirata[1]con la traduzione di Francesco Leggio, un bravo traduttore italiano che gode un ottima conoscenza della lingua araba.

Ha conseguito la sua seconda laurea, si è specializzato in Antropologia culturale presso La Sapienza, dove ha discusso la tesi di dottorato con il titolo Vivere l’Islam in condizione di minoranza. Il caso della prima generazione degli immigrati musulmani arabi in Italia.

Nel 2003, la casa editrice algerina Al ikhtilaf ha pubblicato il suo secondo romanzo dal titolo Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda, scritto in arabo e ambientato a Roma. Il romanzo ha un titolo che “un po’ vuole essere ironico, perché se vai nelle librerie troverai tantissimi libri con titoli di questo tipo Come imparare l’inglese in una settimana, Come fare la pizza in cinque minuti. Tutto serve a promuovere la cultura della facilità, come se fosse tutto scontato, tutto possibile senza stancarsi”.[2]

Dopo otto anni in “esilio”, in Italia, l’autore ritorna per la prima volta in Algeria solo nel 2004; mentre il suo rapporto con il suo paese rimane un po’ difficile.[3]

Nel 2006 dalla casa editrice romana e/o è uscito in Italia un nuovo romanzo del romanziere Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, viene ‘riscritto’, dal precedente romanzo Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda. Il romanzo ha ottenuto un enorme successo sia in Italia che in altri paesi. Ha vinto tanti premi in Italia e anche in Algeria. Nel maggio 2010 è uscito un film tratto dal romanzo.

Nel 2010 lo scrittore ha pubblicato un altro romanzo ambientato anche a Roma, in uno dei quartieri più popolari – viale Marconi – Divorzio all’islamica a Viale Marconi, uscito con la casa editrice romana e/o, poi riscritto in arabo e uscito con la casa editrice libanese Al dar Al Arabia ll-Oloum, con il titolo La piccola Cairo [Al Qahira Al Saghira].

Per il 2012, Amara Lakhous durante un’intervista con Elena Dini per Minareti.it, afferma che il suo prossimo romanzo rappresenta la storia di un giovane di origine siciliana, ma nato nella città di Torino e arrivato nella Capitale da ragazzino. La storia permetterà di riflettere sul fenomeno migratorio in Italia, perché per concepirlo bene bisognerebbe partire dalla migrazione meridionale degli anni Sessanta, permetterà anche di vedere precisamente il ruolo dei media.

Lo scrittore algerino, attualmente, lavora come direttore editoriale della casa editrice Shark/Gharb, pubblicando libri scritti in lingua araba in Italia.

Amara Lakhous afferma: “Avere l’Italia, un posto mio dove ho ricostruito la mia vita, mi aiuta molto a riconciliarmi con l’Algeria, che mi ha cacciato. Mi aiuta a placare un poco la rabbia che mi porto dentro”.[4]

Aggiunge anche: “emigrando si assiste al proprio funerale e, con l’arrivo nel nuovo paese, ad una ‘seconda nascita’ (…), si comincia una vita a identità plurima”.[5]

In sostanza, in Italia lo scrittore ha cominciato una nuova vita, ha trascorso una bella esperienza, cioè “allattato dalla lupa”, percepisce il primo ottobre 1995 come una data di rinascita, ma non esclude che abbia trovato tante difficoltà come gli altri immigrati, però le ha affrontate con coraggio e con un grande entusiasmo, perché il suo grande sogno è quello di diventare scrittore.

Amara Lakhous,crittore arabofono-italofono e scrittore metodico afferma

“ Il mio obiettivo è sempre stato quello di diventare uno scrittore” .

L’immigrato Amara quando è arrivato a Roma, si è iscritto all’Università e osserva che gli studenti e la gente italiana hanno una scarsissima nozione del mondo arabo ed islamico, una conoscenza così scarsa e superficiale e qualche volta ambigua.

Per cui l’immigrato algerino si è convinto che il suo dovere è quello di chiarire e allargare la conoscenza degli Italiani in questo campo, ha scelto la ‘scrittura’ come un mezzo di espressione diretta, democratica per il pubblico italiano.

La ‘scrittura’ è la forma più utile per ridimensionare la realtà, valutare l’opinione dell’essere umanoin maniera più realistica. È la base fondamentale per ricostruire un immaginario, favorire lo sguardo reciproco tra le diverse etnie.

La grandezza della scrittura risiede nella grande possibilità di entrare in contatto con varie popolazioni, conoscere le loro culture, scoprire le loro tradizioni, analizzando e interpretando i loro sguardi; vale a dire che la scrittura, per Lakhous, è il canale adatto per discutere la questione del rapporto tra le culture, anche per ripensare all’identità plurima dell’immigrato.

Amara Lakhous nelle sue interviste ripete spesso un proverbio francese: “La professione è la seconda religione”, perché- secondo lui- quando una persona esercita un mestiere, quest’ultimo rappresenta un mondo, diventa una cosa più grande per cui deve perfezionarlo. A questo proposito egli crede profondamente nel suo mestiere di ‘scrittore’ e lo fa progredire con un enorme impegno, entusiasmo, disciplina e studio; osserva gli altri e impara diverse cose da loro, pertanto, l’elemento principale per poter scrivere e per perfezionare lo scrivere è la conoscenza della gente che significa osservare, parlare, comunicare, discutere e ascoltare differenti persone provenienti da quattro angoli del mondo, tutto questo diventa un materiale per riprodurre, per scrivere un romanzo perché:

“ noi scrittori siamo dei traduttori: cerchiamo di tradurre quello che ascoltiamo e cerchiamo di trasferirlo in qualche altra cosa”.

Lakhous impara da tutta la gente, non solo dall’élite, dall’intellettuale, dal filosofo, dall’insegnante, ma anche dal barista, dal fornaio, dal meccanico e dal contadino. Chiarisce lui: “ Io vengo da una famiglia di contadini, quindi io lavoro come un contadino. Un contadino non può svegliarsi la mattina, piantare un ulivo e il giorno dopo andare a raccogliere. C’è un lavoro in mezzo, annaffiare, potare, aspettare; io lavoro così. Per me scrivere è come costruire una casa, un palazzo. Quando vedo che il cantiere ha tutto il materiale -cemento, ferro- solo a quel punto mi sento pronto a iniziare a lavorare. Ho un piano. Non si può iniziare a costruire una casa senza un piano”.

All’inizio lo scrittore impara dal contadino, che pianifica il suo lavoro, alzarsi la mattina, andare a lavorare, aspettare la pioggia…ecc; e poi impara dal muratore, che ha raccolto il materiale, seguendo un preciso piano di costruzione.

Quindi l’importanza di avere e di seguire un determinato piano è una disciplina nel processo della scrittura di Lakhous.

Il lavoro del romanziere algerino inizia con l’incontro di una persona, o con l’osservare qualcosa, leggere un articolo o un libro, così viene un idea nella mente dell’autore, riflette in questa idea, cominciando a raccogliere il materiale, quando sente che il materiale è sufficiente, inizia una fase di chiusura, di isolamento dal mondo per tre settimane o più, in cui lo scrittore entra in contatto con i suoi personaggi, si concentra sulla trama del suo racconto. La mette in testa, sa come comincia ecome finisce, sa dove e quando si svolge la storia, sa cosa succede in tutta la storia, ha i capitoli, sa tutto per i suoi personaggi, come si chiamano, quanti anni hanno, cosa fanno, scriverli e descriverli in maniera più chiara per non far confusione al lettore.

Lo scrittore Amara Lakhous, durante un’intervista con Lidia Riviello, racconta il suo intimo rapporto con le lingue, soprattutto con quella italiana:

“Scrivere in arabo è per me un modo per recuperare il dialetto, la lingua della cultura popolare, delle strade, delle battute. E poi l’arabo classico, la prima lingua, quella del Corano, insomma cercare di recuperare queste tradizioni. Con il francese il rapporto è conflittuale, difficile distinguere il francese come lingua e cultura, dal francese della memoria della francofonia, del colonialismo soprattutto. L’italiano non è una lingua di esilio, perché la vivo come rafforzamento, una finestra aperta su una grandissima cultura, averla a disposizione rafforzerà questo percorso letterario, neanche il mio arabo sarà più lo stesso[…]”.[6]

In altri termini, per lo scrittore, l’arabo oltre al berbero costituiscono la sua madre lingua, dovendo proteggerla e ricordarla sempre, il francese è la lingua odiata, di tono amaro, possibilmente da dimenticare, mentre l’italiano è una lingua più desiderata, un bottino d’amore, una lingua adottata per scelta, non per imposizione, una lingua che gode del potenziale di arricchire la creazione artistica e l’attività letteraria dello scrittore.

Aggiunge anche, nella stessa intervista: “[l’italiano] è una lingua seduttiva, per seduzione intendo musicalità, la lingua della poesia per eccellenza, quello che non mi piace è un po’ la sua affabulazione, il fatto di essere inaffidabile […]”, indicando che il vero amore per questa lingua risiede nel suo aspetto ritmico e sonoro –la prima cosa che apprezza dal primo impatto con questa lingua è la sua musicalità– e anche nella sua grande capacità di esprimere tutto quello che viene in mente.

Su questo concorda anche un giornalista del Corriere della Sera:

 “ Negli ultimi vent’anni in Italia, è accaduto e sta accadendo un fenomeno che ignoravamo da secoli. Narratori algerini […], dei quali il più noto è Amara Lakhous, hanno cominciato a raccontare in italiano. […] Scelgono l’italiano perché [secondo loro] è una lingua ricca, leggera, complessa, nobile, musicale: la lingua che adorava ed esaltava Leopardi, e che nei tempi moderni ha conosciuto l’amore di Gadda e di Calvino”[7].

L’autore ama tanto la lingua italiana perché quando è scappato dall’Algeria, ha trovato un paese che lo adotta e lo accoglie, mentre l’autore sente che è accolto prima dalla lingua e poi dal paese, per questo dice sempre: “ prima di ottenere la cittadinanza italiana, finché avevo solo il permesso di soggiorno, io ero cittadino della lingua italiana”

Pertanto lo scrittore è legato alla lingua con rapporti più intimi, considerandola un’ ‘altra’ madre lingua, chiarisce lui: “ In Algeria c’è l’abitudine di chiamare mamma anche le zie, e quindi sono cresciuto con tre madri. Sono tre anche le mie lingue madri: il berbero, l’arabo e l’italiano, che mi ha accolto e protetto da quando sono arrivato 15 anni fa”.[8]

Comunque lo scrittore è cresciuto in un clima interculturale, dove le lingue e le culture s’incontrano; perché la mamma, le zie e la nonna parlano con lui in berbero, frequentava la scuola coranica, imparando l’arabo classico, studiava la lingua francese.

Accanto a questo trilinguismo, l’autore impara l’italiano, aggiungendolo all’elenco delle sue lingue madri, poiché in una società occidentale imparare la lingua è necessario per far valere i propri diritti. La lingua assume il ruolo centrale nella convivenza di diverse etnie, nelle dinamiche di comunicazione. È la chiave efficace per aprire la porta dell’ ‘altro’ mondo, per potersi integrare e diventare un elemento positivo nella ‘nuova’ società, e così la lingua diventa lo strumento basilare per conoscere una cultura e approfondirla.

Quindi per Lakhous, imparare l’italiano e scrivere in questa dolce lingua è una forma positiva per far dialogare, avvicinare le culture, diventando un punto d’incontro e di conoscenza tra le svariate culture.

La scrittura in italiano mostra la capacità dello scrittore di portare, trapiantare le proprie radici culturali, le proprie conoscenze e le sue idee, perché essa è un vasto campo dove l’autore trapianta le sue conoscenze ed i suoi pensieri, interpretando i suoi sentimenti, traducendo la sua cultura, la sua identità e la sua anima, come afferma anche Salmen Rushdie: “ La lingua [in questo caso parla dell’inglese] ha un’ importanza centrale: la si deve, malgrado tutto, abbracciare. La parola ‘traduzione’ deriva etimologicamente dal latino ‘portare di là’. Poiché noi [ scrittori] […] siamo persone portate al di là nel mondo, siamo individui tradotti”.[9]

Nel cuore di questa scrittura esiste una traduzione anteriore dell’identità culturale dello scrittore che si profila ibrida e sempre in traslazione.

In sostanza la lingua italiana è un potere sul territorio culturale che può ovviamente fertilizzarlo, capace di costruire un atto di ri-creazione dell’identità, soprattutto dello scrittore migrante.

Tutti i romanzi di Lakhous hanno due versioni, una in arabo e l’altra in italiano, oltre alle traduzioni in altre lingue.

Per Le cimici e il pirata, il romanzo è uscito in arabo e poi ‘tradotto’ in italiano da Francesco Leggio. Mentre per gli altri romanzi – Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, Divorzio all’islamica a viale Marconi – l’autore non fa una semplice traduzione ma scrive di nuovo il romanzo in un’altra lingua: nel caso di Scontro di civiltà prima è stato scritto e pubblicato in arabo e poi, dopo tre anni, viene ‘riscritto’ in italiano dall’autore stesso; per Divorzio all’islamica inizialmente viene scritto in italiano e poi ‘riscritto’ in arabo e uscito con il titolo La piccola Cairo.

Amara Lakhous ha scelto un grande progetto per la sua narrativa, scrivere e riscrivere in due lingue, solo due lingue: l’arabo e l’italiano. Avendo un doppio obiettivo consistente nel fatto di “ arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo”. Afferma Lakhous: “Il mio lavoro si situa in un ideale punto d’incontro, scrivendo cerco di arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo[10].

Quindi la riscrittura per Lakhous è il progetto di arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo, è un lungo e difficoltoso processo.

Non si tratta di una semplice traduzione perché il traduttore non gode del diritto di cambiare i nomi dei personaggi, non ha il potere di aggiungere o togliere una frase o un’idea, semplicemente è obbligato a rispettare la struttura e la stesura del testo originale. Invece lo scrittore, Lakhous, è libero, può cambiare e modificare qualche idea, aggiungerla o tagliarla, ‘ricrea’ il testo immediatamente a suo piacimento, fa quello che vuole, godendo di ottima libertà che il traduttore non ha, perché lui è il proprietario del romanzo.

Il passaggio da una lingua all’altra significa trasmettere atmosfere, idee e modi di dire arabi al mondo italiano e quegli italiani al mondo arabo. Definisce anche lo scrittore: “[arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo significa] portare l’immaginario da una riva all’altra del Mediterraneo, non soltanto nel senso dell’incontro tra le culture, ma pure nel senso della riscoperta di una memoria comune. Perché io come autore arabo che scrive in italiano non vengo, ma torno in Italia, che è un luogo abitato dalla cultura araba da secoli e secoli, tanto che, per limitarmi a un paio di esempi Sciascia e Racalmuto sono parole di origine araba”.

La scrittura in una sola lingua non basta, non è abbastanza espressiva e indicativa della sua culturaibrida, poiché Lakous è un immigrato, quindi la sua scrittura deve essere anche una migrazione linguistica, proprio quest’ultima è il potenziale della letteratura figlia d’immigrazione.

Naturalmente Lakhous ha scelto la pluralità di lingue nella sua creazione letteraria per avvicinare le culture, per costituire ponti tra diverse civiltà (italiana, araba –piuttosto algerina). Quindi la sua scrittura in due lingue significa che lui vive nel “between” o nell’interstizio di due culture.

Per Fellini: ogni lingua guarda il mondo in modo diverso, mentre l’autore immigrato cerca di guardare il mondo, di capirlo e interpretarlo con queste due lingue, l’italiano e l’arabo, cerca di aprire le porte di diverse culture con diverse chiavi, alcune le apre con chiavi italiane e altre con quelle arabe, algerine, fecondando reciprocamente le due culture attraverso le due ‘madre-lingue’.

Egli continua a scrivere in arabo, nonostante abbia vissuto in Italia per un lungo periodo, non solo per mostrare l’incontro o lo scontro delle diverse culture ma proprio per far svegliare la memoria , per tornare in Italia perché la lingua araba fa parte del passato della penisola, soprattutto in Sicilia, si può considerarla come un ‘dialetto’ d’Italia, perché tante parole sono di origine arabe[11], oltre all’esempio di Sciascia e Recalmuto.

Lakhous in una Conferenza ad Algeri dichiara che non abbandonerà mai la scrittura in lingua araba perché è la sua prima lingua, madrelingua, con la quale non sente che lui vive in un esilio compiuto, con l’arabo può ricordare il proprio passato, può mantenere la propria cultura d’origine. Dichiara anche che nei prossimi tempi cercherà di scrivere romanzi in berbero La pluralità di lingue è un elemento fondamentale nella narrativa di Lakhous, con la quale l’autore indossa un nuovo vestito culturale, plurimo e ibrido rappresentativo della sua nuova identità.

Dunque, ‘arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo’, quest’etichetta indica che la lingua narrativa di Lakhous, o addirittura il suo italiano ‘strano’ non conforme alle norme classiche letterarie ( la purezza della lingua), è invece quello che vuole lo scrittore perché, per lui, un testo meticcio e contaminato da diverse lingue rispecchia di più la realtà attuale, società meticcie e multietniche. Questo stile narrativo manifesta la vera ‘singolarità’ del romanziere algerino.

Infine, Lakhous è considerato uno scrittore arabofono, allo stesso tempo, italofono. La sua scrittura è inserita nella letteratura araba, algerina, africana e inoltre in quella italiana.

La versione italiana, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, è presentata come un giallo metropolitano: prende in questione l’omicidio di Lorenzo Manfredini, arido sbruffone romano detto “il Gladiatore”, ma Lakhous ha scelto questa vicenda solo come pretesto per rappresentare i veri protagonisti. Così l’assassino diventa meno interessante e il romanzo si incentra su una serie di testimonianze, raccolte dal commissario nel quartiere più animato e multietnico di Roma, Piazza Vittorio. Undici testimonianze o “verità” di persone di diversa provenienza, origine, religione, nazionalità, madrelingua, cultura, condizione economica e sociale raccontano rispettivamente cosa accade nella loro vita, nel loro lavoro, i loro punti di vista, le loro visioni sul mondo e sull’altro, esprimono se stessi, le loro delusioni e illusioni, la loro integrazione o mal integrazione nella società, anche i loro rapporti con gli abitanti di Piazza Vittorio e con gli inquilini del condominio. Tutti i personaggi di Lakhous parlano in un modo o in un altro del loro rapporto con l’ascensore e della recente vicenda dell’omicidio del Gladiatore, che viene trovato in una pozza di sangue nell’ascensore e l’unico sospettato è il “Signor Amedeo”.

Il romanzo di Lakhous è strutturato in capitoli, ogni capitolo presenta una testimonianza di un abitante, tra un capitolo e un altro esistono pagine diaristiche del Signor Amedeo. Ogni capitolo si intitola “La verità di …” seguito dal nome di un personaggio, che è un portavoce di una cultura molto diversa rispetto alle altre e mostrando anche l’identità di Amedeo. Le pagine diaristiche non seguono l’ordine cronologico in cui il diario viene redatto, ma sono formate da una scelta di branidel diario di Amedeo e rappresentano il personaggio, “il testimone”, che ha appena parlato (nel capitolo precedente), mirando a gettare luce su questo e sull’intero avvenimento. Ogni brano diaristico viene come “ululato”.[12]

La forma più idonea di Lakhous è quella di far parlare i suoi personaggi, di far emergere come vivono la loro vita, la loro situazione individuale e collettiva, sociale, cosa riflettono e casa pensano circa l’ascensore e il suo uso, pensano a chi ha ucciso il Gladiatore e perché Amedeo viene accusato In un condominio situato nella zona romana Piazza Vittorio viene trovato il cadavere di Lorenzo Manfredini, “il Gladiatore”, e allo stesso tempo scompare Amedeo, il protagonista, così accusato dell’assassinio. Tutti gli inquilini e gli abitanti dei dintorni sono chiamati dal commissario Mauro Bettarini. Tutti descrivono esplicitamente il carattere e gli atteggiamenti di Amedeo e tentano di discolparlo da ogni infamante accusa. Dice Parviz, uno dei personaggi: “Non è lui l’assassino! Non può avere niente a che fare con questo crimine. Amedeo non si è macchiato del sangue del Gladiatore”[13].

Ma chi è Amedeo? Tutti gli abitanti pensano che sia italiano, viene dal sud, non sanno quale sud: dell’Italia o del mondo? Una persona con perfetta padronanza dell’italiano, un bravo conoscitore delle strade di Roma, meglio dei tassisti e dei romani. Amedeo è “buono, gentile, tollerante, disposto ad ascoltare e a capire, è innamorato di sua moglie, è garbato con la portinaia, aiuta senza starci troppo a pensare chiunque si trovi in difficoltà. Ma è anche uno che ha un passato da rimuovere: un gorgo di buio e di sangue che torna a tormentarlo nel sogno”[14].

Quindi Amedeo vive a Roma, la città che lo ha accolto ma non l’ha compreso profondamente, nessuno conosce la sua origine, da dove viene, nemmeno sua moglie, non sa perché gli incubi lo tormentino nella notte. Amedeo preferisce non ricordare il suo passato, non risponde a nessuna domanda che riguardi la sua precedente vita prima di arrivare a Roma, chiedendo sempre a sua moglie Stefania: “Amore mio, la mia memoria è come un ascensore guasto. Anzi il passato è come un vulcano dormiente. Cerchiamo di non svegliarlo e di evitare eruzioni[15]. Questo significa che Amedeo vuole vivere solo il presente e il futuro.

Solo alla fine del romanzo appare l’unico dei personaggi, Abd Allah Ben Kaddour, che conosce bene Amedeo, la sua storia e la sua famiglia. Dice Abd Allah: “Perché si è fatto chiamare Amedeo? È questa la domanda che mi lascia molto perplesso. Il suo vero nome è Ahmed, un nome preziosissimo perché è uno di quelli del profeta Maometto e viene menzionato sia nel Corano che nel Vangelo”. Il suo nome è Ahmed Salmi, è un algerino, lavorava come traduttore presso la Corte suprema di Algeri, sperava in altri incarichi e il suo vero sogno era quello di sposare Bàgia, la sua fidanzata che l’amava fin da piccolo. Bàgia è un nome che in arabo significa “gioia” e anche la città di Algeri viene chiamata con questo nome. Invece il sogno era sfumato perché la fidanzata era statastuprata e uccisa dai terroristi ad Algeri. Così la disgrazia, la tragedia e lo smarrimento prendono un posto nella vita di Ahmed. Era sparito da Algeri e nessuno sapeva dov’era andato.

Nel romanzo il teatro delle vicende è l’ascensore, prima un luogo di incontro e di scontro tra gli inquilini, poi un palcoscenico dove viene ammazzato il Gladiatore. Tutti i personaggi parlano del loro rapporto con l’ascensore e il problema che è nato da questa scatola di metallo. Parvis Mansoor Samadi, iraniano, si diverte quando usa l’ascensore ad andare su e giù: “Premi il pulsante senza nessun sforzo, vai su o scendi giù, potrebbe guastarsi mentre sei dentro. È esattamente come la vita, piena di guasti. Ora sei su, ora sei giù”. Secondo lui l’ascensore è un modo per pensare, per riflettere, è un vero “strumento di meditazione”

  • Per la portinaia Benedetta Esposito, napoletana, l’ascensore è un simbolo, un territorio da difendere per evitare il rischio di essere accusata di trascuratezza e licenziata. Richiama sempre l’iraniano per la sua cattuiva abitudine. Proibisce l’uso dell’ascensore a Elisabetta Fabiani perché il suo cane fa i bisogni dentro l’ascensore – fino a quando viene rapito nel giardino di Piazza Vittorio – ma lei risponde tranquillamente: “dobbiamo essere tolleranti con lui quando fa pipì nell’ascensore perché è come un bambino. Picchiamo per caso i bambini quando fanno pipì nel letto?” .

Maria Cristina Gonzales è una peruviana, fa la badante a un’anziana signora. Vive nella grande paura di dover tornare in Perù perché è clandestina, sente un’assoluta solitudine e divide la sua vita con la televisione. Per cui divora tanto cibo e cioccolato che la rendono grassa al punto che Benedetta le impedisce di usare l’ascensore a causa del suo peso, che potrebbe rompere e guastare l’ascensore. È vietato anche ad Iqbal Amir Allah, bengalese, che non risiede al palazzo ma viene per consegnare la spesa agli abitanti.

Mentre per il professore milanese Antonio Marini l’ascensore è un simbolo di civiltà, è necessario stabilire regole più chiare per usarlo. “L’ascensore è un mezzo di civiltà. Aiuta a guadagnare tempo, a risparmiare gli sforzi, è importante quanto la metro e l’aereo” . Per lui la civiltà del popolo viene misurata dal modo di usare l’ascensore.

In questa complessa situazione, l’olandese Johan Van Marten, studente di cinema, vuole ambientare le scene del suo film proprio nell’ascensore.

Anche la vittima, il Gladiatore, è ricordato dagli inquilini per il suo incivile atteggiamento di fare pipì nell’ascensore. L’unica persona che non usa l’ascensore e preferisce salire le scale è Amedeo, non gli piace, perché secondo lui è uno spazio ristretto che sembra una tomba.

Mentre gli altri personaggi, la moglie di Amedeo, Stefania Massaro, il barista Sandro Dandini e l’Algerino Abd Allah Ben Kaddour, parlano dell’ascensore, ma poco, e si concentrano a raccontare la vita di Amedeo.

In sostanza, Amedeo sembra una figura pirandelliana, la sua identità viene frammentata in una pluralità, in una maniera corale, in cui gli individui lo osservano, parlano di lui, lo giudicano, si fanno di Amedeo una precisa opinione e un giudizio, come nel romanzo “Uno, nessuno, centomila”.

Per Amara Lakhous basta questo numero di personaggi con i loro pensieri, giudizi, pregiudizi per evidenziare quanto varia sia l’umanità, quanto complicata la vita, soprattutto degli immigrati, come sia impossibile e difficile trovare la verità sull’omicidio e sull’identità di Amedeo, perché nessuno conosce la verità sugli altri.

Insomma, l’ascensore in questo romanzo simboleggia uno spazio pubblico comune, dove si incontrano diverse persone portatrici di diverse culture e diverse civiltà. L’ascensore è la metafora dei luoghi pubblici, delle città metropolitane d’Italia, è una rappresentazione in miniatura dell’Italia multietnica e multiculturale.

Il romanzo di Lakhous ha ottenuto un grande interesse sia dal mercato culturale sia dalla curiosità sociale di diverse popolazioni del mondo.

Appena pubblicato dalla casa editrice, ha vinto il premio Flaiano per la narrativa 2006 e nello stesso anno il premio Racalmare – Leonardo Sciascia. Mentre la versione araba in Algeria e in Libano all’inizio non ha goduto di grande interesse, solo nel 2008 il romanzo ha vinto il premio dei Librai algerini, il più importante premio letterario in Algeria.Oltre a questi trofei letterari, il romanzo conosce una grande ammirazione da diverse popolazioni, per cui viene pubblicato in diverse lingue, dopo la riscrittura in italiano, e tradotto in molte lingue: in francese per Actes Sud e Barzakj, in inglese per Europa Editions – New York (2007), in olandese per Mistral, in tedesco per Wagenbach (2009), e anche in coreano e cinese.

Il successo del romanzo è legato alla destinazione del libro: non è solo un libro per gli stranieri, parla delle loro condizioni in Italia, ma parla anche degli italiani, dei loro rapporti con gli immigrati e con gli stessi italiani – tra napoletani, milanesi e romani – e così il romanzo diventa uno specchio della società italiana.

Il grande successo del romanzo rispecchia soltanto l’ottima capacità dell’autore di rappresentare in maniera perfettamente logica e reale gli eventi accaduti in un quartiere romano. Perché gli episodi narrati all’interno del romanzo sono già parte dell’esperienza dello scrittore algerino a Piazza Vittorio, ha vissuto veramente lo scontro delle civiltà o piuttosto ha fatto anche lui uno scontro di civiltà.

Lakhous rappresenta una zona, Piazza Vittorio, che ha già cambiato il suo volto e assume un nuovo carattere multiculturale grazie alla presenza di diversi individui differenti provenienti da diverse etnie e culture. Quindi Piazza Vittorio, o più precisamente il condominio, è un microcosmo per indicare l’atmosfera, negli ultimi anni, di Roma e d’Italia, diventando così “un simbolo dell’Italia di oggi”, un paese adottivo di tanti e molteplici immigrati, clandestini e rifugiati politici.

Si può dire che il romanzo è un’anticipazione immediata del futuro d’Italia, futuro pieno di incontri e di scontri tra gli stranieri e gli autoctoni, tra le loro civiltà e culture. Anche i temi, come xenofobia, intolleranza e solitudine, affrontati nel libro sono sempre presenti e vissuti, non solo a Roma ma in altre città italiane.

Di fronte a una diversità, senza limiti, tra individui, lingue, culture e civiltà esiste una varietà di stili, generi e voci che rielaborano sempre l’aspetto multiculturale di una scrittura migrante; questo motiva in grande parte il successo dell’opera – delle opere – di Lakhous che prende il romanzo come un documento identitario dell’Italia, contrassegnata e conosciuta dalla tolleranza, dal razzismo, dalla multietnicità e multiculturalità.

Lakhous nel suo romanzo ha messo la giovane Sofia come figura emblematica e rappresentativa di una cultura tanto diversa da quella italiana. Attraverso gli occhi della protagonista si può vedere la cultura islamica e le tradizioni arabe; nello stesso contesto l’autore ha affrontato diversi argomenti legati al fenomeno migratorio e alla convivenza tra le culture.

I temi affrontati sono troppi, come se l’autore volesse mostrare e sciogliere tutti i malintesi tra gli immigrati e gli Italiani in un solo romanzo. Per cui ha curato una serie di argomenti, alcuni legati alla cultura arabo-islamica, come il matrimonio, il divorzio, la poligamia, il velo, il ruolo e la libertà della donna musulmana, i dilemmi e le contraddizioni dei Musulmani in Occidente e anche le mutilazioni genitali, dall’altro lato altri legati all’immigrazione come il pregiudizio, la paura dall’altro perché terrorista, il razzismo, l’intolleranza, l’integrazione o la difficile integrazione, lo sfruttamento e la difficile convivenza tra diverse etnie e diverse civiltà.

Mentre noi in questa parte esaminiamo alcuni temi che sono più evidenti nel romanzo:

Il divorzio: è il tema particolarmente riuscito sul piano narrativo, chiaro nel titolo del romanzo “Divorzio all’islamica”.

Automaticamente, per un lettore italiano che vede il titolo del romanzo ricorda fortemente la commedia all’italiana degli anni Sessanta, più particolare il film di Pietro Germi “Divorzio all’italiana”, oltre al fatto che Sofia chiama Issa “Il Marcello arabo”, come il vero nome del protagonista Fefè, Marcello Mastroianni. Ma Issa è Siciliano, non è il marito che si innamora di un’altra, non è quel barone che possa piegare la legge a suo vantaggio per divorziare. A questo punto si capisce che Sofia prende il ruolo di Fefè, sposata e innamorata di un altro e vuole in qualche tempo il ripudio perché sarebbe meglio di un matrimonio senza amore e infelice.

dev’essere Musulmano (niente crisQuindi il romanzo di Lakhous non si riferisce al film; anche il divorzio non avviene all’italiana ma all’islamica.

Il divorzio o il ripudio nella religione islamica consiste nella formula pronunciata dall’uomo “sei ripudiata”. Nel romanzo Sofia l’ha spiegato bene: “Nella religione musulmana il divorzio è velocissimo. Bastano due parole per sancirlo: Anti Tàliq, sei ripudiata! È questa la formula del divorzio. Di solito è l’uomo ad avere questa facoltà. La terza volta in cui viene pronunciata il divorzio diventa definitivo. Per le prime due volte c’è la possibilità di riconciliarsi. Dopo la terza invece le cose sono un po’ più complicate. Se l’ex marito vuole riprendersi l’ex moglie la deve sposare di nuovo. Proprio così. Questo non basta, c’è un’altra condizione, anzi tre: l’ex moglie deve sposare un altro uomo che ovviamentetiani, ebrei, buddhisti eccetera, eccetera), e il matrimonio dev’essere consumato. Solo a queste condizioni può poi divorziare e unirsi da nuovo inmatrimonio con l’ex marito”.[16] È questo il divorzio nell’Islam.

Lakhous parla anche delle influenze del divorzio sulla situazione della donna: la società araba considera il ripudio come una tragedia, o una condanna a morte perché “la donna musulmana non può vivere senza marito”, oltre la ripudiata porta il fardello del fallimento per tutta la sua vita. Nella società ogni sguardo è un giudizio, un’accusa o piuttosto una “sentenza di morte”.

Così la donna ripudiata è uccisa socialmente perché in questo genere di società la donna non ha nessun futuro; cosa può fare senza marito e senza verginità, dal momento che vive in una società ossessionata dalla verginità? Però Sofia rappresenta la donna coraggiosa e ambiziosa, vede che essere divorziata è meglio che vivere senza sogni e senza amore, così giustifica il suo ripudio con il mancato innamoramento poiché sono i genitori che stabiliscono il matrimonio e il marito non diventa quello che lei vuole, un cavaliere per realizzare i suoi sogni. Osserviamo che non soltanto Lakhous ha parlato del divorzio nell’Islam ma ci sono tanti scrittori migranti che lo trattano, vedono in questo tema la massima differenza tra le culture e le religioni. Lo scrittore Younis Tawfik nel suo recentissimo romanzo “La sposa ripudiata” (per Bompiani, 2011) ha curato il tema della donna marocchina ripudiata in Italia, mentre lo scrittore Tahar Lamri ha scritto un racconto non pubblicato, che si intitola “L’Henné” e parla di una donna araba musulmana ripudiata per la terza volta da suo marito perché è uscita di casa senza il suo permesso. E poi il marito vuole ancora sua moglie ma la legge islamica vieta di riprenderla se non dopo unmatrimonio consumato.

Il ruolo della donna: Lakhous esamina un tema di grande attualità e molto importante che riguarda il ruolo della donna, delle sue libertà nella società e nella cultura arabo-islamica.

Sofia viene rappresentata come una donna con dei sogni, che vuole realizzarli con grande desiderio. Ma malgrado tutta la volontà, Sofia non si realizza mai effettivamente. Diventa un po’ parrucchiera, ma non del tutto, in modo clandestino e non diviene una donna libera né amata. Però non si arrende, resiste e affronta tutti gli ostacoli con grande coraggio. Ad esempio quando Felice la costringe a indossare il velo, lei non perde la speranza e continua a lottare per convincerlo: “Amore mio, devi mettere il velo”; “Cosa hai detto? […] Mettere il velo? Ma noi non saremmo andati a vivere in Italia o in Iran. […] Ho cercato con grande pazienza di convincerlo a rinunciare a quest’assurda condizione, insistendo su un punto fondamentale: il velo non è uno dei cinque pilastri dell’Islam e non può in alcun modo essere impiegato per misurare la buona condizione di una donna”.

Quindi Lakhous distingue tra l’autenticità dell’Islam e le cattive abitudini dei Musulmani di oggi. Afferma anche che la violenza contro le donne non appare unicamente nel mondo arabo o islamico ma anche in Occidente e in Italia: Sofia segue una discussione radiofonica che parla della violenza domestica, stimando “In Italia più di sei millioni e mezzo di donne hanno subìto, almeno una volta nella vita, una forma di violenza fisica o sessuale. Più del sessanta per cento delle donne è maltrattato dal partner o da una persona conosciuta, e oltre il novantacinque per cento non denuncia la violenza subìta, probabilmente per paura delle conseguenze”.

In sostanza il romanziere algerino mostra la sua protagonista come una donna di piena coscienza, coraggiosa, ricerca la sua libertà in una società occidentale, dove assume tante sfide per mostrare la sua identità e rappresenta che la sua religione e il suo velo sono una libertà personale.

 Il velo: all’inizio, per Sofia, il velo è stato come un ostacolo per la sua integrazione nella società italiana, anche se i primi tempi sono durissimi perché tutta la gente guarda Sofia con morbosità, fastidio, disagio e paura a causa del suo velo islamico, così lei affronta tanti episodi di intolleranza e di razzismo. Ma “Con il passare del tempo divento solidale con il mio velo. Sì, è proprio. È vero che all’inizio non l’ho scelto, però adesso è il simbolo della mia identità, anzi è la mia seconda pelle. E allora? Allora niente. Non solo devo accettarlo, ma difenderlo pubblicamente. Non è più una questione di velo, di vestito, di tessuto, ma di dignità. Se non accettano il mio velo vuol dire che rifiutano la mia religione, la mia cultura, il mio Paese di origine, la mia lingua, la mia famiglia, in breve la mia intera esistenza. E questo è inaccettabile”. La protagonista parla del suo forte rapporto con il velo che rappresenta la sua identità e la propria cultura islamica. Il velo è dunque al tempo stesso la causa della prima grave frattura fra Sofia e Felice, il simbolo dell’assoggettamento della donna in alcune società musulmane (che è uno dei temi dominanti del libro), ma è anche l’elemento distintivo che scatena reazioni xenofobe e razziste da parte degli Italiani e il mezzo con cui Sofiadecide di manifestare l’orgoglio per la propria cultura e religione. Le discriminazioni messe in atto dagli Italiani verso i Musulmani, tendono per tutto il romanzo a essere rappresentate attraverso uno specifico simbolo, utilizzato da Lakhous per sintetizzare narrativamente tutto questo: tale simbolo è il velo. Anzitutto, la xenofobia e il razzismo di alcuni italiani di fronte a Sofia sono sempre messi in relazione all’uso del velo, che nel loro immaginario è un simbolo di estremismo religioso e quindi di pericolo: «I primi tempi in Italia sono stati durissimi. Quando uscivo per strada la gente mi guardava con una morbosità quasi ossessiva. […] E poi negli occhi delle persone vedevo spesso fastidio, disagio, insofferenza e timore. E mi chiedevo: perché hanno paura di me? Dopo un po’ di tempo ho scoperto la risposta. Il mio velo era come un semaforo davanti al quale la gente deve fermarsi». La stessa reazione di Sofia a questa situazione passa attraverso il velo: esclude il nero e inizia a indossarne di colorati. Questo non impedirà che si verifichi un episodio più grave, a cui abbiamo già accennato: al mercato, durante una discussione per motivi di precedenza in una fila, un italiano le dice «Una mummia che parla! Perché non te ne torni nel tuo paese? Perché venite qui da noi a fare casini, a diffondere fanatismo e a mettere le bombe, eh? […]Ma vattene in Afghanistan con il tuo burqa, sennò mi incazzo e te meno pure». La confusione tra velo e burqa è tra l‟altro il mezzo con cui Lakohus sottolinea implicitamente l’ignoranza dell’aggressore circa le regole e consuetudini del mondo islamico. Anche il rapporto tra Sofia e Felice è in larga misura rappresentato dall’uso del velo. Nella prima parte del romanzo lei sostiene che non vorrebbe indossarlo, ma è obbligata dal marito che a sua volta teme l’opinione degli altri Musulmani osservanti. Il loro rapporto è fin dall’inizio condizionato da questa scelta, che Felice comunica solo una settimana prima del matrimonio: Sofia pensa anche di rompere il fidanzamento, ma sa che la famiglia di lui avrebbe gioco facile nel far credere che il vero motivo della rottura sia la verginità di lei. Alla luce del rapporto con il marito, diventa tanto più significativo il fatto che dopo l’aggressione al mercato Sofia rivendichi con orgoglio l’uso del velo, come elemento di identità culturale e religiosa.

In anni recenti, il velo islamico diventa simbolo dell’identità islamica in Occidente. Per cui la presenza di Sofia e delle donne musulmane velate in Italia e in Europa in generale è una grande sfida per non negare la loro cultura e tradizione islamica, propriamente per evidenziarla con grande fierezza. In realtà, per Sofia, le Musulmane si sentono in modo o in altro discriminate perché non riescono e non possono andare in giro tranquillamente senza nessun disturbo xenofobico, mentre altre donne seminude fanno quello che vogliono però le musulmane sono condannate a combattere quotidianamente per il loro velo e la loro religione islamica. Per lei, la cosa più complicata è quella se il velo è l’unico motivo per il disturbo razzista perché le suore non hanno subito nessun atto razzista, anche loro portano il velo.

Riferimenti bibliografici :

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[1]Amara Lakhous, Le cimici e il pirata, Roma, Arlem, 1999 p22.
[2]Intervista di Ubax Cristina Ali Farah con Amara Lakhous, El Ghibli, 12/11/2004.
[3]Margherita Di Vilio, “Il romanziere Amara Lakhous: il mio debito con l’Italia”, l’intervista pubblicata sul sito http://www.arabafenicenet.it (Centro Studi sulle Culture del Mondo Arabo).
[4]Margherita Di Vilio, Il romanziere Amara Lakhous: il mio debito con l’Italia p 82.
[5]Fabio Berti, Andrea Valzania (a cura di), Le nuove frontiere dell’integrazione. Gli immigrati stranieri in Toscana, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 191.
[6]Lidia Riviello, “La scelta di Amara Lakhous” , Illustrazione Letteraria, 04 gennaio 2005.p30.
[7]Citati Pietro, I narratori africani scelgono la lingua di Leopardi e Calvino, « Corriere della Sera »,6 novembre 2011, p.33.
[8]De Leo Carlotta, Lingua madre e“adottiva”, comunicare per capirsi, « Corriere della Sera », 22 febbraio 2011, p.10.
[9]Salmen Rushdie, Patrie immaginarie, Milano, Mondadori, 1991, p. 22
[10]Guido Caldiron, “Amara Lakhous: « Non dobbiamo temere l’identità ma essere capaci di criticarla», 13/10/2010, sul giornale «Liberazione», http://www.liberazione.it
[11]Graziella Parati, Migration Italy: The art of talking back in a destination culture, University of Toronto, Canada 2005, p. 72.
[12]Silvia Camilotti, Stefano Zangrando, Letteratura e migrazione in Italia, Studi e dialoghi, Trento, Editrice Uni Service, I ed., aprile 2010, p. 67.
[13]Lakhous Amara, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, Roma, e/o: I edizione Tascabili, aprile 2011. p25
[14]Tea Ranno, “AmaraLakhous: La verità nello specchio”, «Omero», scuola di scrittura creativa in Italia, 10/12/0/2006, http://www.omero.it
[15]Lakhous Amara, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, Roma, e/o: I edizione Tascabili, aprile 2011.P103
[16]Amara Lakhous, Divorzio all’islamica a viale Marconi, cit, p. 84.

L'autore

Alaa Daboussi

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