Interventi

Il percorso dell’idea – Rosanna Morace

L’attività letteraria in lingua italiana di Monteiro Martins comincia nel 1998, appena tre anni dopo l’arrivo in Italia, con Il percorso dell’idea. Pétits poèmes en prose (Pontedera, Oltre Le Mura/ Baldecchi e Vivaldi, 1998): ventuno brevi prose poetiche che inseguono «il percorso dell’idea» artistica, il suo nascere e formarsi attraverso gli abissi della mente e le increspature luccicanti sull’oceano della fantasia, come dichiara già il proemio:

Sotto un cielo nuvoloso d’arte il vento soffia sulla superficie di un lago di acque invisibili.
Un vento nuovo soffia sulla sostanza cristallina delle idee. Sostanza popolata dalla fantasia, dai desideri, dall’inconscio collettivo e i suoi abissi, forse più un oceano che un lago. Le acque, benché mosse dal vento, riflettono la luce di quel cielo. Acqua. Cielo. Una sola trasparenza.

La poesia è il vento leggero che soffia su un lago invisibile, immenso, oceanico, che si fonde col cielo in una sola trasparenza in movimento, tra le rifrangenze luccicanti delle onde delle idee. E quando l’onda si rifrange sulla battigia provoca una «schiuma musicale, che diventa un’altra volta idea», in un processo infinito che, avverte Monteiro Martins con una potente metafora ossimorica, «è una specie di ostia con forti tracce di veleno» (p. 4).
In questo cammino sospeso tra cielo, acqua e terra l’idea si muove fluida come la parola che le dà voce: una parola anch’essa sospesa, ma tra poesia, prosa, musica e fotografia, quasi correlativo oggettivo degli elementi da cui tutto si origina. Perché il fuoco, seppur non esplicitamente citato, arde sotterraneo negli improvvisi scoppiettii ossimorici e nel sentimento dolente che trapela, in attesa di produrre, o che ha già prodotto, bruciature, dalle quali sorgerà ciclicamente una nuova idea: […] la vera carne è la cicatrice, e la pelle vergine non è altro che cicatrice in attesa.

Allora, cosa possiamo fare se quello che abbiamo visto e sentito è troppo brutto; o troppo brutale, anche se bello? Annotate la ricetta: Spremere la cicatrice fino a che non ne goccioli l’essenza (Sarà un’idea. Scrivetela). Osservate allora che quello che è rimasto è friabile, un niente, e somiglia molto alla paglia secca. Mettetelo da parte (p. 17)

Il percorso dell’idea è dunque tortuoso e doloroso: è un «vento che non si sente sulla pelle, ma dentro i nervi», e «che non soffia nello spazio, ma nel tempo» (p. 10). E soffia nel tempo perché si alimenta della vita e della realtà, dal momento che «la storia è uno spazio. La vita, invece, è un tempo» (p. 11). Il rapporto tra vita e letteratura è dunque biunivoco, anche perché «la storia cerca di dare un senso alla vita, e così ripagarle un po’ del tempo che le ruba. Ma poiché le storie sono tante, litigano tra loro, e il tempo è corto, quello che dovrebbe essere un senso ci arriva solo come un guazzabuglio, un rumore grigio» (p. 11), cosicché tante storie spariscono in «un buco nero» e «diventano anti-storie. Sono incorporate alla materia di cui è fatto il Verbo, diventano archetipi, favole, miti universali. Non più creature dell’uomo, ma creatrici di uomini. Non più le storie, ma la Storia» (p. 12).
Il rapporto tra microcosmo e macrocosmo è, infatti, uno dei cardini poetici dell’intera opera di Monteiro Martins: i suoi racconti, come vedremo a breve, sono piccoli universi che nella loro apparente semplicità e schiettezza rimandano sempre a qualcosa di più universale e umano, si fanno simbolo ma senza mai assurgere ad exemplum in virtù di un finale sempre aperto, che rimanda alle infinite possibilità non sviluppate né dalla letteratura né dalla vita: alle miriadi di antistorie finite nel buco nero. Queste, però, non sono meno reali delle storie vere, perché vi è un connubio inscindibile tra arte e vita, tra scrittura e realtà, e quindi – come in ogni grande opera letteraria – è il verosimile che può lavorare e intervenire sul presente. Per Monteiro Martins l’arte ha un compito etico e civile, deve intervenire sul «mentre»,[1] sulla contemporaneità a noi più vicina, ma velando i riferimenti concreti e costringendo così il lettore a interrogarsi sul più profondo significato del testo e sul gioco letterario intratestuale e metaforico.
Lo scrittore è quindi una diga di sabbia che si è fatta marmo, che protegge luoghi, cose e persone, evitando che «vengano sommersi per sempre» (p. 19). Ma per poterlo fare il percorso dell’idea non deve formarsi «dentro o fuori»: deve passare «sopra» le mura,[2] sfiorarle come il vento e passare oltre, per guardare la realtà da una prospettiva esterna, straniante, molteplice. Che è la prospettiva multifocale con cui Monteiro Martins indaga la realtà, sia a livello linguistico che contenutistico:

Mia lingua. Mia famiglia di parole.
Come sono solari e dolci le giornate che passo insieme a te. E più ti conosco, più conosco me stesso. Mia lingua. Amica, confessore, maestra, balia e psicanalista. Posa la tua mano sulla mia testa e allevia il doloroso caos che mi pulsa dentro. […] Lingua madre, generosa. Dammi in doppio le tue elle, le tue zeta. Dammi la tua musica. Voglio cantare con te la mia canzone di una vita intera (p. 9).

La lingua madre è qui, paradossalmente, quella italiana, le doppie elle e la zeta sonora non esistendo in portoghese. Ma il paradosso non è poi tale, visto che l’Italia è la nuova madrepatria dello scrittore. Ma questa nuova lingua, acquisendo suoni e ritmi diversi si nutre della doppia cultura, della doppia tradizione letteraria e della doppia musicalità per vedere da un nuovo punto di vista la realtà, per approfondire la conoscenza di se stessa, del «dentro» e del «fuori», della storia e della Storia, con uno sguardo che si allarga oltre l’orizzonte consueto. Ricordiamo, tra l’altro, che lo scrittore ha vissuto e lavorato vari anni anche negli Stati Uniti, in Portogallo e in Giappone:

Se il pappagallo fosse un uccello migratore, avremmo una specie originale, che in inverno racconterebbe a viva voce a quelli del Sud la vita che si vive al Nord, e in estate ritornerebbe al Nord per raccontare cosa fanno (o non fanno e dovrebbero fare) quelli che vivono sotto il sole tropicale. Alcuni scrittori, in verità, stanno facendo esattamente questo: a meno che i cacciatori non gli sparino addosso in pieno volo (p. 19).

 Il riferimento alla letteratura di migrazione, incarnata nell’immagine del pappagallo migrante, è molto chiara, così come la nota amara sul pericolo dei cacciatori. Ma chi sono questi cacciatori? Il nuovo pubblico, forse non pronto ad ascoltare questo «racconto a viva voce» che mette a confronto e svela le contraddizioni di Nord e Sud? O l’editoria, gli scrittori autoctoni, l’Accademia? O, più in generale, la società, poco incline ad accettare l’altro, il diverso, nonostante le apparenze e le buone intenzioni? L’immagine rimane sospesa, ma concretissima e forte come un’istantanea fotografica

 [1] Si chiede, infatti, retoricamente l’autore nel terzo frammento (Il percorso dell’idea, p. 3): «Questa mandala di pietra non sarà un’imitazione scettica, saggia, della vita stessa? Non ci insegnerà per caso che il senso del camminare è scritto e poi cancellato mentre si cammina? E che “mentre” è l’unica parola che, alla fine, resiste intatta».

[2]Abbiamo affermato, sopra, che la scrittura di Monteiro Martins è sospesa tra poesia, prosa e fotografia. In quest’immagine del «sopra le mura», per es., la dichiarazione di poetica si incarna in una potente immagine della passeggiata sopra le mura di Lucca, la «città a misura d’abbraccio» richiamata nel frammento precedente, dove lo scrittore risiede da quasi vent’anni.

L'autore

Rosanna Morace